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In morte di un uomo...
di Artin Bassiri Tabrizi

3 ottobre 2018


La vita anela; in segreto (ma a volte lo grida e non udiamo) a non essere più.
(G. Ceronetti, Il silenzio del corpo)

Presenza insondabile, come un basso continuo. Eppure, nella combinatoria dei discorsi possibili, nelle plurime direzioni che lo sguardo di Ceronetti poteva percorrere, è possibile una previsione; questo non per banalità, ma per coerenza. Molti di noi, nel leggere la sua ultima sortita, hanno di certo esclamato: “Il solito Ceronetti!”. Il solito, sì. L'usuale capacità di commentare tutto, di presiedere periodicamente — anche se progressivamente sempre meno — ad ogni tappa della decadenza italiana.

Molte sono le chiose apparse nei giornali, raccolte poi non a caso in volumi, quasi a comporre una guida breve e dura al labirinto dei drammi, dei grigiori quotidiani. La scrittura di Ceronetti sembra conoscere due momenti essenziali: un'arcigna violenza, un gelo impietoso che pare talvolta sovvertire l'ordine della scrittura, sembra cioè assumere vita propria travolgendo anche quei pochi elementi salvifici dell'esistenza umana; poi, quando (quasi) tutto è cenere, ecco arrivare un soffio estatico, lo slancio che bonifica le sterpaglie, che in un singolo arbusto trova lo scopo del resistere.

Non possiamo aspettarci, da Ceronetti, una posizione sistematica. Non ha interesse pedagogico, non vuole “dare il buon esempio”. Sorge il sospetto che gran parte della sua produzione non sia che un'estroiezione gratuita, che nessuno ha richiesto. Ecco l'imbarazzo, nel momento in cui Ceronetti diventa oggetto di un qualsiasi discorso che vada da un consiglio di lettura all'analisi dettagliata. È inservibile. Si sbriciola nel momento esatto in cui si tiene in bocca.

Forse non vi sono, perciò, motivi per cui amare Ceronetti; un elogio alla sua figura equivale alla sua mistificazione. Difficile è, al contempo, “abbandonarsi” alla sua lettura. Restiamo sempre vigili, pronti al momento in cui dichiareremo — ancora una volta — il nostro disaccordo, quello scatto preciso dove Ceronetti è estremamente spinoso, dove, insomma, ci indigniamo. E se provassimo, invece, a trattarlo da scrittore? Se ci comportassimo come abbiamo sempre fatto, quando muore un grande?

Albergo Italia, un affresco stupefacente del nostro paese, potrebbe forse essere ciò da cui ripartire. Stupefacente perché, se confrontato con la serie di Viaggi in Italia già prodotti (da Goethe a Piovene, senza dimenticare Brandi), quello di Ceronetti ha un carattere inequivocabile. È volutamente oltraggioso — perché autobiografico, perché non proietta un narratore ideale di città in città. È un diario pubblico. Ceronetti vuole ferire, e strappa il velo Maya dalle splendide piazze veneziane per mostrarci la Serenissima non più accalappiata dalla sua veste regale, ma nella tragica sorte di teatro dell'immonda circolazione di uomini. Inaccettabile oggi, anche perché l'Italia, la malattia di Ceronetti, non è più l'ossessione di nessuno.

In ogni parola, risuona il desiderio permaloso della carcassa italica. Altra chiave per pensare il nostro paese è proprio questa: realizzare che un autore così “italiano” sia sempre stato fuori dalla nostra considerazione, dai nostri progetti, dalla nostra riconoscenza. Perché Ceronetti, persino nelle volte in cui si accaniva, invasato, non era un pericolo. Non voleva arruolarsi, non gridava alle armi. Con i suoi deliri possiamo forse spazientirci, ma dobbiamo riconoscerlo: nulla di più viscerale, gretto, scomodo, superbo, rispettabile. Di Ceronetti non potremo mai condividere niente, ma potremmo essere d'accordo su tutto.

Immaginare la sua scomparsa: l'associazione più chiara è forse l'improvvisa scomparsa dell'albero di fronte alla nostra casa. Non gli prestiamo mai attenzione, è lì, e per noi è un soprammobile urbano. Fintanto che, improvvisamente, scompare. Ne rimane il tronco amputato. E cominciamo solo allora a domandarci se fosse secolare, di quale specie e in che condizioni fosse quell'essere immobile.

Ceronetti era questo, negli ultimi anni. Si muoveva restando nell'ombra, facendo dimenticare la sua esistenza. E ora che, improvvisamente, non lo scorgiamo più, non possiamo più recare un nostro pensiero verso la sua figura ideale, allora ci domandiamo che senso avesse Ceronetti, che ruolo ha incarnato, che importanza abbia o non abbia avuto. Di certo vi è solamente una sensazione di vuoto, ora che finalmente riusciamo a vedere cosa ci fosse dietro l'albero, che spesso avevamo desiderato scomparisse. Ma forse lo stesso Ceronetti, in fondo, lo desiderava.
Ricorda, in ciò, Serge Reggiani nella Terrazza di Scola: egli si lascia morire per realizzare il suo sogno di avere sempre meno consistenza. Smettere di resistere all'esistenza.


Guido Ceronetti e le sue marionette. Photo courtesy of Google
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