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Un manifesto dell’inumano
Carmelo Bene a quindici anni dalla morte

di Fabio Vergine

16 marzo 2017


Si deve senz’altro aprire con una bestemmia: Carmelo Bene è una figura attuale.

Attuale in quanto, come tutti quelli che hanno tracciato un solco nel tempo — quale che sia — è stato invece inattuale nell’eternità che lo ha segnato. Inattuale in un tempo che lo ha riconosciuto sia nel suo genio che nella sua oscurità, ma attualissimo in un tempo che non lo riconosce più, che a stento ne ricorda l’immagine e che disattende l’opportunità di tributargli alcunché.

L’onore di essere dimenticati, sconsiderati, dis-occupati è, a dire il vero, una grande fortuna. E gli onori, si sa, così come le fortune più attese, giungono quasi sempre postume, tardive, ormai insperate.

Così, la fragorosa blasfemia dell’incipit è ben più conciliante di quanto non appaia: davvero contemporaneo è colui che non coincide perfettamente con il proprio tempo, dice Giorgio Agamben, perché proprio in virtù di questo scarto anacronistico ci si può permettere di osservarlo e viverlo nella distanza.

Ma nulla di ciò deve lasciar intendere qualcosa che Carmelo Bene non abbia mai detto in prima persona, o nemmen lontanamente pensato; lungi dal nutrire alcuna ossessione per l’anticipazione, per l’inedito, per i tentativi maldestri del pensiero, della poesia o del cosiddetto teatro d’avanguardia di precorrere i tempi, quella di Bene non è stata certo un’opera d’avanguardia, quanto una delle più attente operazioni globali per uscire dalla perversione della Storia in quanto dogma. Antistoricismo nietzscheano, e tanti saluti al tempo che (non) sfugge.

Come ebbe a dire più precisamente Gilles Deleuze in Un manifesto di meno, Carmelo Bene è l’operatore di un’operazione sottrattiva, amputativa, per certi versi liberatoria; un’operazione che ottiene dal meno un più, dal tutto gravoso della rappresentazione un tutto in sorvolo, oltre ogni ragionevolezza e senso, oltre la costituzione di ogni significato.

Si tratta, in altre parole, di mondarsi da tutto ciò che costituisce terreno fertile per un teatro della rappresentazione, per quel teatro della vita sulla scena, lì ove le maschere degli attori non possono più costituire alcun comparto che ne contenga ed ordini l’incomprensibilità. Quello di Bene è, detto altrimenti, un teatro dei significanti e non più dei significati, un teatro dell’inconscio schizo e non più un teatro edipico.

Per mezzo dell’amputazione, dunque, Bene rinuncia a quelli che Deleuze chiama “Elementi di Potere”: il Testo, il Dialogo, l’Attore, il Regista, la Struttura, ma anche e soprattutto l’identità (dell’Io e dei ruoli) e la Storia. Il teatro di Carmelo Bene inorridisce innanzi alle categorie che rinserrano la vita nel già compreso, si raccapriccia nell’istituzionalizzazione delle Forme, ma pure trema di fronte al rischio che la libertà sia essa stessa, in realtà, il più coercitivo dei dogmi, il più temibile degli assiomi.

Ma la Storia, in fondo, è davvero l’elemento di Potere più eclatante contro cui Bene non cessa mai di scagliarsi; dal rifiuto di essere nella Storia del Carmelo Bene-Pinocchio che ripudia la crescita sino all’indisciplina della narrazione sulla scena, dalla mutilazione del marchio temporale del Potere alla negazione dell’identità, fuori e dentro la scena.

In ultima istanza, amputare il Potere e tutta la sua magniloquente simbologia significa, per Carmelo Bene, rinunciare al dato maggioritario per insediarsi nel dato minore. Coscienza minoritaria, come sottolinea nuovamente Deleuze, perché se il dominio della rappresentazione è nel più, C.B. è bensì la coscienza del meno, coscienza dell’anti-coscienza civile, coscienza che ripudia volentieri qualsiasi predominio dell’identità, individuale o collettiva che sia.

Grida, infatti, il Servo in S.A.D.E.: “Son quell’io l’istituzione che s’intende qui oltraggiar!”.

E così l’istanza maggioritaria e rappresentativa dell’Io — il teatrino edipico dei significati in scena — è reciso dall’attore stesso, che per l’occasione getta una volta per tutte la maschera per non dire più alcunché, per uscire dal modo di dire, dal modo di significare, dal modo di rappresentare.

Sottratto al dominio del Senso, del Progetto e al teatro come spettacolo, Carmelo Bene è colui che scompare dal proscenio in quanto soggetto abbandonato a sé stesso, in quanto Io inconsistente, per ritrovarsi nel lume della voce pura, della Phoné come resto di una coscienza egologica dismessa da sempre.

In fin dei conti, se la formula della Macchina Attoriale lascia intendere qualcosa è proprio questo: dismissione dell’attore in quanto sintesi della riproduzione di tutti i possibili ruoli dell’Io, come ebbe precisamente a dire anche Maurizio Grande. Ecco allora che la Macchina attoriale è l’indice precipuo dell’attore che rinuncia a sé stesso per divincolarsi dai dogmi delle categorie, dal Potere del teatro, dai ghetti e dalla prigionia dei significati, per liberarsi persino della libertà e pervenire così nel luogo dell’Assoluto, assecondando l’istanza regina della filosofia d’ogni tempo: in fondo è proprio questo il motivo per cui Carmelo Bene può dirsi davvero eterno e classico, senza tema d’apparir ingenuamente tracotante o presuntuoso. Professione d’autentica umiltà, come ebbe a dire Gilles Deleuze.

Così, io credo che nella trasversalità del genio beniano vi sia un’istanza precisa che colloca il teatro della Macchina attoriale nella sua costitutiva attualità inattuale, anacronistica, eternamente classica. Un’istanza che, tuttavia, risponde ad una rigorosa esigenza della filosofia del nostro tempo, o almeno di quella che Rocco Ronchi in più occasioni definisce una “linea minore” del pensiero filosofico: così come questo sommovimento per certi versi “eretico” del pensiero del Novecento erode carsicamente i paradigmi antropologici dominanti della nostra cultura, anche l’opera di Carmelo Bene, scardinando sulla scena lo statuto metafisico della rappresentazione, vuole liberare l’umano da sé stesso attraverso i suoi eccessi.

Anche Bene dunque, è un esponente di quell’empirismo del tutto particolare che rinuncia al soggetto e all’oggetto. Non più il corpo, ma il puro corpo, non più il gesto, ma il puro gesto, non più la voce, ma la pura voce. Non più l’azione, ma l’atto che la depone nell’impalpabilità dell’istante stoico, non formalizzabile, inesistente come il tempo tutto. Non più l’esperienza di un Io, bensì l’empirismo di un meccanismo anti-edipico che funziona da sé, guastandosi incessantemente nella sua impossibilità a riconoscersi soggetto, personaggio, ruolo. Il teatro di Carmelo Bene è un teatro dell’esperienza pura.

Credo, per ciò stesso, che tale empirismo sui generis risponda puntualmente ad un’istanza ancor più radicale che attraversa tutta la ricerca intellettuale di Bene: la necessità di fare del teatro della Macchina attoriale il laboratorio per la sperimentazione di un divenire-inumano.

L’essere in-umano della ricerca anti-umanistica di Carmelo Bene è, infatti, com’egli sostiene nella sua Autografia in forma di ritratto, niente più che un corpo “dispensato da ogni attività motoria inflittagli dai capricci dell’io, restituito alla sua quiete inorganica”. E l’inorganico cui si riferisce va colto in senso letterale: non la morte sopraggiunta al vivente, ma l’inconsistenza del tutto nel quale non si dà più alcuna identità, alcun volto, alcun soggetto né oggetto.

L’anti-umanismo — o se si preferisce l’inumanismo — di Bene è l’approdo naturale del procedimento di sottrazione messo in atto sulla scena; rinunciare all’uomo attraverso ciò che di inumano v’è nell’uomo stesso, ricusarlo facendo appello al “divino” inorganico che emerge una volta affrancata la vita dal primato categorico della coscienza egologica.

Similmente a Jacques Lacan che ottiene quel suo non di rado criptico Reale inumano eliminando il correlato della coscienza all’esperienza dell’Immaginario e del Simbolico, così Carmelo Bene fa ricerca anti-umanista nella deposizione dei Ruoli, della Storia, del Tempo e della poca cosa che è l’Io, l’identità del soggetto.

Un’operazione senza dubbio trasgressiva, non dissimile a ciò che si proponeva di fare Antonin Artaud stendendo l’uomo sul tavolo d’autopsia per liberarlo da dio, dagli organi, da sé stesso — perché come insegna Michel Foucault l’uomo e dio coincidono nella loro reciproca fine. Eppure si tratta pur sempre di una trasgressione del tutto particolare.

Si tratta, in fondo, di quella trasgressione nei confronti delle regole canoniche e delle consuetudini tradizionali, ma che tutto sommato si realizza in un teatro che non è già più tale, e in cui tali regole non valgono già più, prima ancora ch’esse possano essere disconosciute, superate, trasgredite. Ciò su cui si esercita la trasgressione beniana è una dimensione che forse Georges Bataille definirebbe situazione-limite, ovvero quella situazione che non sta ad alcuna fede o ad alcun significato apparente. Ecco allora che il teatro di Carmelo Bene è una vera e propria situazione-limite, nella quale la trasgressione e l’indisciplina verso le regole ufficiali è resa obbligatoria dalla natura della situazione stessa: se nel teatro canonico dello spettacolo di prosa la trasgressione delle regole è motivo di scandalo, nel teatro senza spettacolo di Carmelo Bene la trasgressione è innocentissima e candida.

La trasgressione innocente è ciò che prende le forme dell’inesistenza delle tentazioni di Ambrosio ne Il rosa e il nero, è l’idiozia imbambolata di Giuseppe Desa da Copertino, è il gioco della schiavitù tra Luisolo e Semprelei in Ritratto di Signora.

È l’animalità dell’umano, come spiega Jean-Paul Manganaro, identificandovi quel resto di bestialità innocente che s’addice all’animale stesso.

La trasgressione dei divieti e l’inumanità di un’innocenza bestiale: ecco, a quindici anni dalla sua morte, l’inattuale attualità di Carmelo Bene.



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