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Teologia politica e civiltà occidentale.
Roberto Esposito e la macchina del “due”

di Roberto Fai


24 maggo 2017*



Se è vero, come ha scritto, a suo tempo, Montaigne, ripreso adesso da Jean Starobinski — all’interno di un testo che riporta le conversazioni di questo grande umanista e medico svizzero con l’amico Gérard Macé —, che “la parola è per metà di colui che parla e per metà di colui che ascolta”, per analogia, si potrebbe dire che anche i pensieri, le riflessioni, scritti e incisi sulla carta, per metà sono dell’autore, e per l’altra metà di chi li legge.

Ma in realtà, catturato dalla coinvolgente lettura di questo recentissimo e denso saggio di Roberto Esposito (uno tra i più originali filosofi italiani)  Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero (Einaudi 2013) —, anziché la sensazione di una dinamica acquisitiva e di “appropriazione” o di impossessamento del testo-pensiero dello studioso — dovendo “spartirmi” con l’autore, per reciproca spettanza, il 50% del suo scritto e del suo pensiero —, ciò che ho sentito e provato in modo impressionante, via via che leggevo il testo di Esposito, è stata piuttosto l’esperienza di un’immersione dentro uno spazio comune, un “luogo comune”, pertanto di tutti, e in quanto tale “inappropriabile”. Era come se, leggendo i pensieri, le riflessioni che l’autore andava esponendo nel suo scritto — ed in particolare proprio quelli espressi nel capitolo “il posto del pensiero” (sottotitolo del saggio) —, potessi cogliere davvero l’esperienza straordinaria di abitare lo spazio, visibile e luminoso, in cui si staglia il “pensiero”, che, nel suo carattere “impersonale”, viene a configurarsi nella forma di un “universo comunitario”, aperto e disponibile per tutti.

Attraverso una raffinata e convincente ricostruzione genealogica di quello che sarebbe il “posto del pensiero”, Esposito offre in questa sua ulteriore prova speculativa una prosecuzione proficua dei suoi precedenti lavori di questi ultimi anni: da Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, del 2007, a Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana (2010). L’autore viene radicalizzando così quella sua critica al concetto di “persona”, nell’intento di andare oltre i limiti della tradizione “personalistica” (cattolica, ma non solo), per far emergere la densità di quella figura di “terza persona” che, travalicando la relazione “Io-Tu”, è forse in grado di costituire il nuovo orizzonte di senso in un’epoca connotata da un pervasivo individualismo appropriativo, sino a prosciugare ogni intenzione di potere del soggetto, o ogni soggetto di potere o, meglio, il “soggetto”, in quanto tale.

Risiedono qui le ragioni per cui, appena chiuso il testo di Esposito, il nostro pensiero è corso subito ad incrociare quello stesso Heidegger, con cui l’autore apre questa sua ricerca, ma per riprendere una diversa “traccia” heideggeriana, che ci permette di esprimere il nostro giudizio su questo bel saggio che l’autore consegna alla riflessione filosofica contemporanea — e attorno al quale, ne siamo certi, non si potrà non proseguirne l’approfondimento. Infatti, ciò che, a primo acchito, sentiamo di esprimere nei confronti di Roberto Esposito è, da subito, un “grazie”: davvero, quel “ringraziare” (Danken) che, come ci ricorda Heidegger, è così affine al “pensare” (Denken), al punto che è solo un ringraziamento, un pensiero di gratitudine, quello che sentiamo di dover esprimere all’autore, allo studioso, dal momento che, “donandoci” questa sua ulteriore prova speculativa, è riuscito molto meglio di altri a squarciare e a fendere la “macchina teologico-politica” — forse giunta, oggi, al suo esito finale —, che l’Occidente, nel corso dei suoi due millenni di dominio, ha saputo costruire. Mentre, al tempo stesso, come abbiamo scritto in esordio, nella seconda parte del saggio, Esposito riesce, egli stesso, a fare del pensiero un “dono comune”: qualcosa di talmente “impersonale”, in grado di stagliarsi nella sua veduta complessiva, come un “Bene universale”: davvero, un “luogo comune”, sottratto ad ogni indebita forma acquisitiva ed alla pretesa di un qualsiasi “individualismo proprietario”.

Qualcosa, il “pensiero”, che Esposito offre — sulle tracce di Averroè, Giordano Bruno, Spinoza, Schelling e lungo un tragitto che giunge sino a Nietzsche, a Bergson e a Deleuze — nella forma di un “prolungamento del mondo stesso”, nel senso che “non è l’intelletto ad appartenere all’uomo ma l’uomo che può entrare in rapporto con esso, attuando, ma mai del tutto, quanto in lui c’è di divino”.

Lo scavo decostruttivo che Esposito riesce a mettere in atto in questo straordinaria ricerca ha davvero un carattere radicale e dirompente, perché riesce a penetrare nella profonda genealogia della “metafisica occidentale”, dis-velando l’intreccio perverso e potente con cui quest’ultima, proprio perché segnata da quel plesso che ha legato da sempre “trascendenza” e “immanenza”, “teologia” e “politica”, Dio e mondo, ha inesorabilmente intrecciato il suo lungo itinerario storico, materiale e filosofico nella permanente assimilazione del “Due” nell’Uno, in un conflitto nel quale il dominio ora dell’uno ora dell’altro continua a rimanere dentro un inestricabile “dispositivo macchinale” che sembra, oltre che inafferrabile, pure ineffabile.

Da questo punto di vista, ha ragione l’autore quando scrive che “l’ostacolo di fondo a penetrare nell’orizzonte della teologia politica sta, insomma, nel fatto che ci troviamo già al suo interno”, sino al punto da non poterne uscir fuori. Come se la macchina teologico-politica fosse in grado di funzionare “separando ciò che dichiara di unire e unificando ciò che divide mediante la sottomissione di una parte al dominio dell’altra”.

Questo breve spazio non consente di dar conto della profondità e della ricchezza speculativa che Esposito mette in campo, rileggendo un confronto che, da Hegel a Weber, da Heidegger a Kantorowicz, giunge sino a Walter Benjamin a Jacob Taubes e a Jan Assmann, approfondendo un dibattito sul rapporto controverso e di grande potenza metaforica tra teologia e politica che, a partire dal Cristianesimo paolino, trova nei primi decenni del ’900 nella polemica-confronto tra Carl Schmitt — per il quale, “tutti i concetti politici sono concetti teologici secolarizzati” — e Erik Peterson, il punto di massima intensificazione speculativa. Per Esposito, l’intero corpus dei “dispositivi” messi in atto dalla “macchina” teologico-politica è giunta — forse — alla sua soglia declinante, o quanto meno, al suo compimento estremo, proprio in coincidenza con quella sorta di “capitalismo divino” — per ricorrere alla plastica formulazione di W. Benjamin — espressa dalla “Global Age”, che si manifesta nella forma di una vera e propria “teologia economica” — non a caso, “colpa” e “debito”, tradotti e unificati nello stesso termine tedesco “schuld”, ne esprimono la giuntura perfetta: quel ‘Due’ in ‘Uno’ che si rinnova come una coazione a ripetere — dal momento che “dietro l’unificazione del mondo globale, si afferma sempre più la logica duale dell’emarginazione e dell’esclusione. L’indebitamento universale è l’esito del rapporto di forza tra parti diseguali istituito, e continuamente riattivato, dalla macchina teologico-politica… Che tutti gli Stati, divisi al proprio interno da una netta ineguaglianza di risorse, risultino adesso indebitati nei confronti di un’entità inafferrabile come la finanza globale fa sì che forse per la prima volta il mondo sperimenti una condizione di comune sofferenza” (Esposito).

Già: il problema “aperto” è come uscirne. Hic Rhodus, hic salta!

* Prima pubblicazione Kasparhauser | Etica, 16 giugno 2013



Illustration: Guillem Cifré

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