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Il gesto e la politica in Giorgio Agamben.
Domande su Karman

di Roberto Fai


11 ottobre 2017


Dopo il densissimo saggio edito nel 2014 — L’uso dei corpi, Homo sacer, IV, 2 (Neri Pozza, 2014) —, Giorgio Agamben, di lì a poco, ha proseguito nella pubblicazione di altri lavori più brevi su temi specifici (da Il fuoco e il racconto a Stasis. La guerra civile come paradigma politico, Homo sacer, II, 2; da Gusto a L’avventura; da Che cos’è reale? La scomparsa di Majorana a Che cos’è la filosofia? — sino al suo recente racconto/ritratto autobiografico: Autoritratto nello studio, pubblicato in questo stesso 2017), prevalentemente distanti dai temi presenti nell’ampia ricerca L’uso dei corpi, che rappresenta il vero e proprio blocco di pensiero più ‘sistematico’ dell’autore dal punto di vista filosofico-politico: il luogo organicamente più alto in cui è confluita ed è venuta stabilizzandosi la sua lunga e straordinaria ricerca teoretica. Non che Agamben abbia chiuso questo suo imponente lavoro e l’ampio progetto iniziato con Homo sacer, oltre un ventennio fa, con una sorta di “conclusione”. «Ogni opera di poesia e di pensiero — ha scritto, l’autore, nella pagina di Avvertenza di questo encomiabile e complesso lavoro —, non può essere conclusa, ma solo abbandonata (e eventualmente continuata da altri)».

Sta di fatto che in quello che appare così il più consistente percorso di elaborazione filosofico-politica dell’autore, acquistano forma compiuta ed esplicita — attraverso la suggestiva e sorprendente innovazione categoriale che Agamben ha provato ad immettere nell’ambito della riflessione filosofico-politica contemporanea — alcune categorie di pensiero (quali quelle di uso, inoperosità, Forma-di-vita, potenza/atto, gesto, potenza destituente), attorno alle quali l’autore s’è speso insistentemente nella sua teoresi, attraversando genealogicamente campi ed ambiti speculativi differenti, pur sorprendentemente tenuti in relazione da un intensissimo e raffinato scavo analogico — lungo le tracce di quel fondamentale e monumentale lavoro del 1968 di Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, ripubblicato nel 2004 da Quodlibet —, facendo così “giocare” ed interagire il diritto con la linguistica, temi ebraici con l’estetica, l’arte con l’etica, il monachesimo medievale con la filosofia politica, il messianismo con lo “stato d’eccezione”, l’idea di profanazione con la teologia politica, lungo blocchi concettuali che si snodano tra Platone ed Aristotele, Paolo di Tarso e Walter Benjamin, tra Carl Schmitt e Martin Heidegger, Émil Benveniste e Yan Thomas, tra i Padri della Chiesa e Michel Foucault. Al punto che dal cuore della sua ricerca è venuta configurandosi una “filosofia politica”, fuori dai consueti canoni normativi e debolmente prescrittivi, semmai anomala ed eterogenea, come è stato opportunamente scritto in una brillante ricostruzione del suo pensiero — Carlo Salzani, Introduzione a Giorgio Agamben (il Melangolo, 2013).

Inoltre, quasi ad ulteriore ‘compimento’ di questa originalissima ricerca — che il filosofo romano viene conducendo da alcuni decenni dentro la plurale e raffinata costellazione di pensiero che abbiamo qui sinteticamente richiamato —, con il recente ed ultimo suo lavoro, appena pubblicato, Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, Bollati Boringhieri, 2017, pur nella brevità espositiva che lo connota — poco più di centotrenta pagine —, Agamben compie un ulteriore lavoro di affinamento di alcuni nodi teoretici che ne L’uso dei corpi costituivano il lascito più seducente, pur in qualche tratto, e per certi versi, ancora problematico. Ci riferiamo in particolare ai temi svolti nel capitolo contenuto nell’Epilogo del saggio del 2014, dal titolo “Per una teoria della potenza destituente” (pp. 333-351). Avevamo già espresso qualche nostra perplessità in merito alla categoria, o al concetto di “potenza destituente” (al riguardo, si veda la nostra ampia recensione, “L’uso dei corpi e il “potere destituente” in Giorgio Agamben”, contenuto nella rivista Oros. Filosofia e critica delle idee, n.1/2017, pp. 109-118, Verbavolant edizioni, Siracusa), dal momento che lo stesso accostamento dei due termini — potenza destituente — rischia di ingenerare, a primo acchito, qualche incomprensione ed anche legittime domande critiche, in virtù di quella nostra familiarità e lunghissima consuetudine alle modalità, o alla stessa idea di praxis politica, ereditata e tramandata da tutta la cultura filosofica dell’Occidente. Infatti, legati, come siamo, ad un’idea di “azione” che trova la sua origine soggettiva nella volontà, così inevitabilmente protesa in una conseguente finalità costituente, alludere, o ipotizzare l’idea di una potenza destituente potrebbe apparire quasi un vezzo iperbolico, suscitando rilievi e perplessità.

Avevamo scritto, infatti, nella nostra ampia recensione al saggio agambeniano, sopra citata, che l’idea di una potenza destituente sembra affacciarsi come un «tema che, pur evocando già nel titolo, immediatamente, la sua diretta “determinazione” politica, sembrerebbe rovesciarsi come un guanto nel suo carattere — opposto — “impolitico”, giacché nel pensiero della modernità i mutamenti politici sono stati pensati dentro l’orbita — le forme, la prassi, le dinamiche — di un “potere costituente”, vale a dire con il riferimento/individuazione di una “potenza costituente”. Pertanto, “potenza destituente” lascerebbe, infatti, immaginare la piena e totale disattivazione di ogni prassi — essenzialmente, politica —, affinché la condizione umana possa reggersi, non più sull’opera, bensì sull’inoperosità. Non a caso, nelle pieghe della declinazione del concetto di “forma-di-vita”, inoperosità e contemplazione configurerebbero le inedite trame esistenziali del Dasein» (Oros, cit, p. 116).

E proseguivamo, subito dopo: «È davvero possibile “pensare la politica al di fuori di ogni figura della relazione”? [cit. da Agamben]. Se opera e politica conservano/manifestano, nella modernità, il loro inestricabile nesso ontologico, è possibile custodire-salvaguardare-praticare una politica inoperosa? Non è davvero impervio il compito di immaginare la praticabilità di una condizione — una “politica inoperosa” —, che appare assumere la sua forma ossimorica? È davvero possibile immaginare di poter rovesciare i perversi e circolari riverberi del dispositivo “diritto/violenza/diritto/violenza” — ciò che è il carattere aporetico che Walter Benjamin aveva saputo cogliere nel suo saggio Per la critica della violenza —, che ogni potere costituente reca inevitabilmente nel suo stesso seno, sì da giungere ad una inoperosità contemplativa? Ad una potenza in grado di destituire?» (Oros, cit., p. 116-117).

Se erano queste alcune delle domande con cui, pur apprezzando in modo significativo l’impianto generale de L’uso dei corpi, chiudevamo la nostra recensione al saggio di Agamben, in Karman, la tesi agambeniana della potenza destituente — che non è direttamente esposta in quest’ultimo saggio — emerge in una più puntuale, convincente declinazione per la suggestione speculativa che informa la riflessione dell’autore su concetti e categorie quali causa, colpa, azione, volontà, crimen, Karman — sviscerati genealogicamente e indagati in analogia lungo un percorso che si snoda tra Benveniste e le tragedie greche, il diritto romano e la teologia cristiana, Carl Schmitt e Yan Thomas — per giungere a quella scena evocativa del mysterion che connoterebbe «ogni essere umano»: quel Dasein “inoperoso”, per il quale l’inoperosità non è da intendere come «un’altra azione accanto e oltre tutte le azioni, né un’altra opera al di là di tutte le opere: essa è lo spazio — provvisoriamente e, insieme, intemporale, localizzato e, insieme, extraterritoriale — che si apre quando i dispositivi che legano le azioni umane nella connessione dei fini e dei mezzi, dell’imputazione e della colpa, del merito e del demerito, sono resi inoperosi. Essa è, in questo senso, una politica dei mezzi puri» (Karman, p. 139).

In Karman, Agamben riesce così ad offrire una più perspicua “sistemazione” ed una più netta esplicitazione di quell’idea, o meglio, di quella modalità d’esistenza dell’ethos umano, che egli ha declinato a più riprese in altri suoi lavori nei termini di inoperosità, dando così corpo a quella che costituisce la più perturbante e singolare “forma-del-fare” — definendola “azione”, rischieremmo per certi versi di ingenerare un altro equivoco —, configurandola come l’unica condizione etico-politica, o come la sola possibilità d’esistenza in grado di offrire al Dasein il proprio, vero ed unico spazio in cui esercitare, libero, la propria potenza. In altri termini, “abitare” quell’unico luogo — la “soglia etica” (l’habitus) —, in cui il fare umano è ad un tempo liberato dalla circolarità utilitaristica “mezzi-fini” e consegnato all’esplicitazione di un agire puro, svincolato e sottratto ad ogni finalismo.

In altri termini, se le intenzioni prevalenti che connotano l’itinerario speculativo di Agamben sono quelle di ricondurre la “filosofia politica” «alla sua matrice e origine autentica: l’ontologia» (C. Salzani, cit.), anche in Karman, attraverso una critica radicale ed integrale dell’ontologia dell’Occidente, l’idea e il pensiero teoretico del filosofo risiedono proprio nell’indicare la strada, la via stretta di una “filosofia prima” — secondo l’indicazione aristotelica —, ripensata nei termini della configurazione di una “nuova ontologia”. Sia chiaro, non un qualche pensiero filosofico-politico, come potrebbe essere il “marxismo”, ad esempio. A questo proposito, nelle intenzioni di ripensare il plesso filosofia/ontologia, la pretesa di considerare o ri-assegnare al “marxismo” lo statuto di una nuova ontologia era stata rivendicata da Toni Negri, in un confronto a più voci — si veda al riguardo, Jacques Derrida, Marx & sons. Politica, spettralità, decostruzione (Mimesis, 2008), con saggi di Toni Negri, Fredric Jameson, Terry Eagleton, Tom Lewis ed altri —, ma era stato proprio Derrida a respingere con nettezza l’idea di Negri di poter assegnare al marxismo il carattere, lo statuto di una “nuova ontologia”.

L’idea di Agamben è bensì quella di ripensare la “filosofia-politica” in quanto tale — l’idea ed il pensiero filosofico — nella sua autentica origine ontologica: la sola in grado di riattivare un’idea di politica, fuori e oltre ogni fallacia volontaristica, sottraendola pertanto da ogni connessione a quel “dovere/necessità” di compiere un’azione finalizzata a qualcosa, ad un obiettivo, ad uno scopo finale. L’azzardo di un agire politico «senza scopo finale», o di una «teleologia senza fine ultimo» — concetti ed espressioni che rimandano direttamente a Walter Benjamin —, sono temi cui Agamben dedica la sua lucida e competente attenzione, proprio nel capitolo finale di Karman, dal titolo paradigmatico di “Al di là dall’azione” (pp. 100-139), indubbiamente quello di maggiore densità, sin da quell’incipit assertivo, con cui esordisce nel capitolo suddetto: «La politica e l’etica dell’Occidente non si libereranno dalle aporie che hanno finito per renderle impraticabili, se il primato del concetto di azione — e di quello di volontà, con esso inseparabilmente congiunto — non sarà messo radicalmente in questione» (ivi, p. 100). Non lesinando rilievi critici ad alcuni autorevoli esponenti del Pantheon di questa stessa tradizione filosofica occidentale, il filosofo svolge un confronto serrato e in contropelo, con un raffinato ricorso analogico, tra qualche rilievo alla Arendt, una critica ad Aristotele e la ripresa di alcune suggestioni platoniche. E dopo aver messo in rilievo alcune aporie della volontà — così il titolo del suggestivo capitolo di Karman, che anticipa quello cui ci riferiamo — all’interno della teologia cristiana, non manca di richiamare e soffermarsi criticamente su quella che definisce l’aporia kantiana («Che Kant ne fosse o meno consapevole, la sua idea di un fine in sé equivaleva, in realtà, a revocare radicalmente in questione l’idea stessa di finalità. Di fronte a questa revoca di ogni finalità, egli è, tuttavia, indietreggiato […] Concependo l’uomo, in quanto essere morale, non soltanto come un fine in sé, ma anche come fine ultimo della creazione, egli ha introdotto il dispositivo mezzi-fine che aveva forse in un primo tempo inteso mettere in questione», Karman, p. 123).

Sino a quel significativo rimando al Buddhismo, all’interno del quale, «il mistero dell’azione umana» si dipana nell’enunciazione del senso della «separazione tra il Karman e l’Ātman, fra l’azione e il soggetto che definisce il nucleo problematico della dottrina buddhista». Al riguardo, se la soluzione dell’enigma sta nel «pensare in modo nuovo la relazione, o la non-relazione, tra le azioni e il loro supposto soggetto», o a ciò che nel buddhismo è la singolare conciliazione tra, «da una parte, la realtà e l’efficacia degli atti e, dall’altra, l’inesistenza di un soggetto permanente a cui imputare le conseguenze dell’azione» (Karman, p. 128), Agamben trova negli Aforismi di Siva il luogo in cui la relazione tra il soggetto e le sue azioni è sganciata dal paradigma della finalità, sino al punto in cui il soggetto — trasfigurato — appare e si mostra come un “danzatore”, come se «il Sé risvegliato con le sue azioni non è più quello karmico del merito e del demerito, del mezzo e del fine, ma assomiglia piuttosto a quello di un danzatore con i suoi gesti» (Karman, p. 130). Una condizione che sembra assegnare o rivendicare al “soggetto”, o meglio, al Dasein, l’idea di una azione “performativa”, come nell’arte, o nel gioco, o nella danza, o nelle movenze del mimo, ambiti nei quali «l’azione umana sembra sfuggire alla categoria di finalità». In altri termini, una modalità d’esistenza che è così in grado di trovare il proprio reverbero analogico in quella che in Platone è — e Agamben non manca di citarla, esplicitandone il senso — l’idea di «una politica giocosa». Certo, un vero azzardo, o un’immagine ineffettuale, nel suo carattere perturbante, oppure un vero e proprio scándalon, se solo pensiamo alla persistenza del peso e del ruolo che la più che bimillenaria tradizione culturale dell’Occidente — filosofico-politica, teologico-politica, ecc. — ha esercitato e continua ad esercitare nel connotare quella specifica “forma-del-fare” — la praxis politica — nei termini del finalismo, della teleologia futurizzante, dell’utilitaristico plesso “mezzi-fine”, o nelle aporie che hanno contrassegnato, sia nel pensiero antico che nella teologia cristiana, o con maggior vigore nella cultura moderna, il tema della volontà, lungo le trame di quei dispositivi — giuridici, economici, sociali, ecc. — che hanno sempre scisso l’uomo, costituendolo «come schulding, in debito rispetto al suo fine proprio. La prassi è il luogo in cui questo debito si salda e incessantemente si riaccende» (Karman, p.105).

Al punto che Agamben non lesina qualche critica alla stessa Arendt, che aveva rimproverato a Platone di prospettare un’idea di politica condizionata dall’immagine dell’oikos — vale a dire “la casa”, che è per i greci il luogo/ambito «dove gli uomini comandano o sono comandati» (Karman, p.110) —, rispetto, alla polis, inscrivendo così Platone dentro quell’ermeneutica che ha visto in lui i prodromi di una torsione protototalitaria. Ed Agamben non manca di citare un passo delle Leggi, in cui Platone ribadisce l’idea che la forma del “gioco” è in grado di incarnare «il paradigma di una più felice politica….la sfera per eccellenza in cui la relazione mezzi-fine è neutralizzata… proprio il gioco può essere presentato come il vero paradigma di un buon governo, che è assai diverso dal “dominio” evocato dalla Arendt…. Ciò che Platone sembra qui prefigurare non è lo stato totalitario, ma il falansterio di Fourier, con le sue serie amorose e la sua giocosa rivoluzione domestica» (Karman, pp. 111-112).

Ed è a compimento di una suggestiva ricerca, scandita dall’intreccio analogico delle figure sin qui esaminate dentro la stessa costellazione di pensiero, che Agamben ha modo di tirare le somme della sua riflessione per sostenere il possibile orizzonte di una radicale critica al finalismo, individuando una modalità d’esistenza e una logica del “fare umano” che sia in grado di sfuggire alla categoria della finalità. Si comprende pertanto come nell’epilogo della sua riflessione egli non possa che trovare in Walter Benjamin il suo interlocutore privilegiato. A partire da quei concetti, sopra già richiamati, di un’azione «senza scopo finale», o di una «teleologia senza fine ultimo», scavando dentro quel breve e denso saggio benjaminiano del 1921, dal titolo Per la critica della violenza. Nel quale, Benjamin ha provato a «spezzare il nesso tra mezzi e fini. E lo ha fatto non, come Kant, spingendo all’estremo la polarità del fine, ma cercando di pensare altrimenti il concetto di mezzo, nella prospettiva di quella che egli chiama una “politica dei mezzi puri”» (Karman, pp. 131-132). Come noto, nel saggio in questione, Benjamin individua nel concetto di “mezzi puri” l’unico ambito che è sottratto alla Gewalt (violenza) che, nel suo duplice significato di “violenza” e “potere/forza” avvolge e connota il diritto — la legge, la norma — come quel dispositivo che è interamente attraversato dalla circolarità di una violenza che riproduce sempre ed inevitabilmente se stessa, avvitando così il soggetto dentro una relazione parossistica tra mezzi e fini, contro la quale Benjamin oppone la prospettiva o l’orizzonte di ciò che chiama “violenza pura o divina”, la quale, «né pone il diritto né lo conserva, ma lo depone» (Karman, p. 133). Ma che cos’è un “mezzo puro”?

Con Agamben — e ci si consenta questa lunga citazione —, «un mezzo puro è, cioè, un mezzo che, pur restando tale, si è emancipato con la relazione con un fine. È come se alla kantiana “finalità senza fine”, Benjamin facesse qui puntualmente corrispondere una paradossale “medialità senza fine”; ma mentre la finalità senza fine è, per così dire, passiva, perché mantiene la forma vuota del fine senza poter esibire alcuno scopo determinato, al contrario la medialità senza fine è in qualche modo attiva, perché in essa il mezzo si mostra come tale nell’atto stesso in cui interrompe e sospende la sua relazione al fine. Come, nella gesticolazione di un mimo, i movimenti solitamente rivolti ad un certo scopo sono ripetuti ed esibiti come tali — cioè come mezzi — senza che vi sia più alcuna connessione al loro fine presunto e, in questo modo, acquistano una nuova e inaspettata efficacia, così la violenza, che era soltanto mezzo per la creazione o la conservazione del diritto, diventa capace di deporlo nella misura in cui espone e rende inoperosa la sua relazione a quella finalità. Il mezzo puro perde la sua enigmaticità se lo si restituisce alla sfera del gesto da cui proviene. Tanto nelle evoluzioni del danzatore che nei cenni e nelle movenze in cui ci atteggiamo senza accorgercene, il gesto non è mai per colui che lo compie (o, piuttosto, sembra compierlo) mezzo per un fine, ma ancor meno può essere considerato un fine in sé. E come, pur nella sua assenza di intenzione, la danza è la perfetta esibizione della pura potenza del corpo umano, così si direbbe che, nel gesto, ciascun membro, una volta liberato dalla sua relazione funzionale a un fine — organico o sociale —, possa per la prima volta esplorare, sondare e mostrare senza mai esaurirle tutte le possibilità di cui è capace» (Karman, pp. 134-135, corsivo nostro).

E da qui, attraverso quell’ampia competenza filologica e pluridisciplinare che gli consente di operare uno straordinario scavo genealogico, Agamben — citando l’erudito filologo Varrone — ci conduce per mano sull’origine e sul significato del “gesto”. Nella distinzione aristotelica tra poiesis e praxis, vale a dire tra “fare” e “agire”, si inserisce un «terzo genere di azione», il cui senso originario corrisponde a quel «verbo gerere, che nelle lingue moderne si è conservato solo nel termine “gesto” e nei suoi derivati, [e] significa una maniera di comportarsi e di agire che esprime uno speciale atteggiamento dell’agente rispetto alla sua azione. L’esempio dell’imperator, del magistrato munito del potere supremo, non deve trarre in inganno: esso ci interessa soltanto nella misura in cui implica un rapporto necessario tra gesto e politica […]. Colui che gerit non si limita ad agire, ma, nell’atto stesso in cui compie la sua azione, insieme l’arresta, la espone e la tiene a distanza da sé» (Karman, p. 137).

Non vi è dubbio che dall’ermeneutica proposta da Agamben affiori un’ipotesi, una teoria, ricca di profonda suggestione, carica di straordinaria forza evocativa e di una inaudita densità etico-politica, che plasticamente si racchiude e si condensa in quel plesso “gesto e politica” — che andrebbe ulteriormente interrogato — e che chiude e compendia quest’ultima citazione di Karman. E c’è da augurarsi che Agamben — e lo ripetiamo con le sue stesse parole dell’Avvertenza, citata nell’esordio di questa nostra recensione —, avendo affermato che «ogni opera di poesia e di pensiero non può essere conclusa», non solo non abbandoni qui la sua ricerca, ma sia egli stesso a proseguirla, ad approfondirla.

Solo per chiudere qui la nostra ampia recensione: ripensando più volte alle parole (quasi) conclusive con cui l’autore sospende, arresta e consegna a noi questa ricerca, la nostra memoria ci riporta ad una riflessione — quasi un “accenno”, un indizio, un’allusione — che ci conduce direttamente di fronte ad un testo di Martin Heidegger. E come se un transito analogico potesse legittimare la nostra ipotesi, rimandiamo proprio a questo riferimento, a questo tema heideggeriano. In un luogo del suo L’origine dell’opera d’arte — un “luogo decisivo”, in cui è in gioco il tema dell’aletheia, del darsi della verità —, Heidegger scrive così: «una maniera essenziale nella quale la verità stabilisce se stessa nell’ente che essa stessa ha aperto, è il porsi in opera della verità. Un altro modo in cui la verità viene alla presenza, è il gesto che fonda uno stato politico».

In questa citazione heideggeriana, il corsivo è nostro. E se davvero l’analogia potesse tralucere sino in fondo in quest’immagine heideggeriana, forse potremmo intendere il senso del plesso gesto/politica, così come è declinato nel suo pensiero, come una forma di opera d’arte. Non una suggestiva visione estetica, bensì “estatica”, ex-statica — se seguiamo la lettura suggerita da quel Reiner Schürmann, che è autore su cui l’ultimo Agamben è tornato in diverse occasioni —, secondo cui, la potenza di dar vita ad uno “stato politico” si mostra come il frutto di un grande gesto inaugurale. Se ci è concesso riprendere la frase finale contenuta nell’ultima citazione tratta da Karman, in Agamben, sopra riportata — … «colui che gerit non si limita ad agire, ma, nell’atto stesso in cui compie la sua azione, insieme l’arresta, la espone e la tiene a distanza da sé» —, è come se nell’atto stesso (nel gesto) attraverso cui viene fondato uno stato politico, tralucesse quel gerit di un “sovrano”, la cui autorevolezza è espressa — e riconosciuta come tale — dall’esercizio di una potestas non scissa da auctoritas.

Se fosse possibile racchiudere in questo piccolo scrigno “il politico” in Heidegger, si potrebbe dire che, nell’idea del filosofo di Meßkirch, il gesto — l’azione — sia, ad un tempo, l’apertura di un processo costituente, dove colui che agisce, «nell’atto stesso in cui compie la sua azione, insieme l’arresta, la espone e la tiene a distanza da sé» (da Agamben, in Karman). Chissà, forse è questa la lezione politica — l’unica? — che è possibile cogliere, nelle pieghe di un pensiero, come quello heideggeriano, dal momento che all’interno del suo corpus filosofico la dimensione del “politico” sembra inafferrabile, di là dalla sua personale contaminazione con l’esperienza del Rettorato.

Come non rilevare poi che in questo insolito e episodico accenno heideggeriano al «gesto che fonda uno stato politico», affiori, pur se solo in parte, una lieve vicinanza — l’azzardo di un singolare accostamento — a quel Walter Benjamin, nel quale l’idea o il progetto della Politk, di una vera politica, o il compito di una “politica mondiale”, attraversa in modo allegorico, frammentario ed anche esoterico il corpus dei suoi scritti e lasciti teorici? Ed infine, che ne è oggi, della possibilità di quel gesto — e della sua “ripetizione” —, nel momento, o nell’epoca in cui, non solo il crepuscolo della statualità, bensì l’evaporazione dell’agire politico, della praxis, consegna inevitabilmente — destinalmente? — l’occasione inaugurale di un analogo gesto (di una prassi, di un “agire politico”) all’ineffettualità e alla sua ineffabile insignificanza? O se si vuole, quale Dasein, o quale “soggetto” — quale sovrano? —, infatti, potrebbe esprimere nel tempo globale la potenza di quel gesto — della sua “legittimità” e del suo riconoscimento —, in grado di far riassegnare alla politica la ripetizione di un “nuovo inizio”? Davvero è pensabile che, nel tempo a venire, possa baluginare una luce in grado di interrompere la scissione tra potestas e auctoritas?





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