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Rocco Ronchi. Per una voce pura della filosofia
di Fabio Vergine

1 ottobre 2017


L’assoluto è ciò che non si dà se non per un atto intuitivo immediato. È ciò che nell’istante ideale in cui si donasse ad una coscienza che lo sapesse cogliere, esso non sarebbe già più quell’assoluto per cui capita spesso al filosofo di tormentarsi tra migliaia di pagine ingiallite dal tempo, attraverso le stanze polverose di una biblioteca. Se la verità cercata dai filosofi in fondo non è che una sola in ogni luogo e in ogni tempo, e se quella formula che dischiude le porte alla verità, quindi, non è nient’altro che la formula per cui l’assoluto si dona da sé, allora la filosofia si rivela un esercizio estremamente semplice, che non ha bisogno di alcun medium che non risulti del tutto accidentale. In buona sostanza, allora, si tratta di un assoluto del quale non si possa dire nulla che non lo ponga già in relazione ad altro. Purché però, di quell’assoluto che sembra non stare ad alcuna predicazione, si debba almeno dire che esso è il tutto, il suo darsi, il suo aver luogo senza fine, oltre ogni opposizione dialettica.

Nel suo Il canone minore [1] Rocco Ronchi descrive il tentativo compiuto da quelle figure, sovente eretiche del pensiero rispetto a quello che l’autore individua come canone maggiore, che nel corso della storia della filosofia hanno pensato davvero questa immanenza dell’assoluto o, che è lo stesso, l’univocità dell’essere sul piano degli enti di natura. Ecco che nell’esigenza fondamentalmente speculativa e per ciò stesso anti-moderna della filosofia, ciò che si dà a vedere quale dato immediato dell’intuizione è una equivalenza solo apparentemente innocua, ma in realtà profondamente perturbante e traumatica: immanenza assoluta = natura. In opposizione all’antropologia quale paradigma sostanziale della filosofia dei moderni, infatti, la filosofia dell’immanenza assoluta, come direbbe Henri Bergson in relazione al modo di conoscere l’assoluto, “entra nella cosa stessa” e tutto ciò che vede e concepisce non è altro che l’univocità del molteplice; o, per usare le parole di Alfred North Whitehead — autore estremamente caro a Ronchi —, la presenza del “tutto ovunque ed in ogni momento” della vita della natura. In questa prospettiva la filosofia è in pieno senso un esercizio speculativo: se, come già ebbe a dire Bergson, l’intuizione è il metodo attraverso il quale l’assoluto ci viene restituito immediatamente, la filosofia è quella superficie speculare sulla quale la vita si riflette, sulla quale la vita si vede vedersi. Possiamo dire, altrimenti, che l’infinita coincidenza di complicazione e immediatezza dell’atto puro della vita che vive si riflette nell’atto altrettanto semplice dell’intuizione filosofica.

Vita e filosofia si riflettono reciprocamente come in uno specchio. Se questa è la traduzione della filosofia dell’immanenza assoluta, la filosofia tout court non avrà altra funzione al di fuori di essa. E come Ronchi ebbe già modo di ribadire quando scrisse la sua illuminante monografia introduttiva su Bergson, [2] anche ne Il canone minore la voce attraverso cui l’atto semplice della filosofia si comunica appare come una voce inumana, talmente sublime che ha del mostruoso, e che proprio in virtù di questa sua refrattarietà di fatto al paradigma antropologico, si manifesta come pura attività di restituzione del vivente quale esso è; autentica filosofia della vita, niente meno. Ecco allora spiegato in che senso la filosofia non necessita di alcun medium prediletto per comunicarsi. In fin dei conti si può anche dire che, se la filosofia è davvero autentico esercizio speculativo, essa si comunica da sé, per mezzo di quella voce pura che è in grado di rendere conto dei concetti che crea senza mediazione. Se la filosofia è vocalità pura senza apparato — o, deleuzianamente, differenza assoluta — l’univocità dell’essere sarà quella formula per mezzo della quale nessuna gerarchia possibile tra gli enti sarà in grado di restituire l’unità della vitalità del vivente, o per meglio dire, il naturante della natura. Attraverso l’esperienza pura, la sua assolutezza e la sua auto-sussistenza, infatti, Ronchi nomina quella voce senza medium attraverso cui la verità filosofica si comunica incessantemente nell’atto in atto del suo farsi; una verità in fieri, purché del divenire si predichi la purezza del suo stesso divenire, e non ciò che in esso diviene. In quest’ottica, dunque, ogni mediazione o correlazione cede il posto all’assolutezza dell’atto attraverso cui il tutto si dà e non cessa di darsi: per richiamarsi alle parole di Platone ricordate da Ronchi, nella misura in cui anche “capelli, fango e sudiciume” partecipano dell’univocità della natura molteplice, che la filosofia assuma voce e sembianza umana è una mera fatalità. E se non altro, lo stesso Bergson lo intuì quando, ne La pensée et le mouvant, ebbe a sostenere che la verità della filosofia è l’unica cosa che il filosofo non dice ma che durante tutta la sua vita egli cerca di dire, poiché tale verità non può che comunicarsi da sé.

Ciò che Ronchi definisce con canone minore, allora, è una filosofia dell’atto puro, o in altre parole, una filosofia del Processo, ove con tale termine egli identifica il puro divenire del divenire, estraneo all’accumulazione di istanti cronologicamente intesi; l’assoluto del Processo non è, dunque, di natura cronologica, quanto piuttosto ciò che dà modo al tempo di determinarsi come predicato a posteriori del Processo medesimo: una volta superato Aristotele e l’attribuzione del tempo quale numero o misura del movimento, il divenire pensato nella sua purezza è allora uno dei modi attraverso cui è possibile nominare il Processo in quanto divenire del divenire. Tentando, a rigore, di riconoscere la condizione di possibilità per il darsi dell’assoluto del Processo, Ronchi identifica un istante atopico, senza luogo e senza tempo alcuni, quello che in Platone coincide con la soglia intemporale dell’exaiphnes, di quel tempo non formalizzabile e che tuttavia consente al tempo stesso di scorrere e di provocare il cambiamento. E se è vero, come Ronchi stesso ripete più volte, che la filosofia dell’immanenza assoluta è una filosofia autenticamente trascendentale, il suo compito consiste nell’individuazione di quell’incognita che manca sempre al suo posto, di quella casella che, per dirla con Gilles Deleuze, è sempre vuota e che proprio in virtù di ciò consente alla struttura stessa di muoversi incessantemente. L’oggetto incognito, in fondo, è proprio quel limite trascendentale al di sotto del quale non è più possibile spingersi, è quella macchia cieca, virtuale e reale, che è condizione di possibilità del Processo, e dunque, dell’immanenza assoluta stessa.

Tutto ciò che si dà nell’immanenza assoluta, allora, è dato in un presente assoluto ed eterno, l’unico orizzonte che può, a buon diritto, nominare l’atto infinitamente in atto della vita che vive. E tale orizzonte non è certo una delle dimensioni del tempo, quanto piuttosto il suo fondamento non cronologico, di cui l’impressione del tutto umana è ciò che Bergson ha definito durata. Situati nella prospettiva trascendentale dell’immanenza assoluta, si può dire, a rigore, che la cronologia, riferita all’esperienza pura, non abbia alcun fondamento. Così come Plotino ebbe a dire che l’eternità è la “vita che persiste in sé stessa e possiede sempre presente il tutto”, o per dirla altrimenti, che la beatitudine degli esseri primi è nell’avere già in sé stessi la totalità della vita, Ronchi presenta la riflessione sulla presenza eterna dell’assoluto immanente della vita come una delle implicazioni essenziali degli autori che, nel corso della storia del pensiero, hanno aderito all’implicito filo rosso della linea minore: che si tratti dell’esperienza pura di William James o della durata reale di Henri Bergson, dell’Uno plotiniano o della filosofia del Processo di Alfred North Whitehead, dell’empirismo trascendentale di Gilles Deleuze o dell’attualismo gentiliano, tutti coloro che hanno in qualche modo corrisposto all’esigenza teoretica sottesa alla ragion d’essere di questo canone hanno, in fin dei conti, cercato la medesima cosa. Se per un verso, dunque, la filosofia della natura prospettata da Ronchi coincide con il tentativo di pensare l’univocità del reale nell’eternità del suo presente assoluto, per un altro verso il canone minore si determina quale filosofia che disconosce il principio logico del terzo escluso: una filosofia del tertium datur, insomma, con buona pace dello Stagirita.

Richiamandosi soprattutto alle prospettive speculative inaugurate da Jacques Lacan con il registro del Reale, Rocco Ronchi tenta di aprire un varco nel falso primato della correlazione originaria di soggetto ed oggetto, di coscienza e di mondo, di pensiero ed essere. In tal senso, allora, l’ipotesi di un tertium reale è ciò che più propriamente nominerebbe l’esperienza pura, l’origine — o il limite — trascendentale dell’esperienza ordinaria, che impedirebbe così il tanto temuto regressus ad infinitum alla ricerca della causa prima. Che lo si chiami dio, reale, c’è dell’Uno, principio infinito o infinito in atto, in fondo, fa poca differenza, purché esso si ponga in quanto terza via ad ogni falsa dicotomia o correlazione presunta originaria imposta dalla metafisica tradizionale. In altri termini, il compito di una filosofia della natura è un compito profondamente inumano, od oltre-umano: in un certo qual modo, si può dire che tutti gli autori che aderiscono al canone individuato da Ronchi abbiano rinunciato ad assumere l’uomo quale metro di misura o paradigma di riferimento. In funzione di ciò, inoltre, tentando di smascherare l’inconsistenza della tesi eminentemente heideggeriana dell’eccezionalità del Dasein sulla totalità degli enti, essi hanno pensato davvero l’intima immanenza dell’assoluto, ovvero di quel campo trascendentale per il quale non si dà alcun fuori ad esso correlato, poiché esso è il suo medesimo fuori.

Nell’istanza di un pensiero autenticamente anti-moderno, allora, quell’inciso foucaultiano — depuis Kant jusqu’a nous — che Rocco Ronchi cita a più riprese per indicare come il paradigma antropologico abbia dominato pressoché tutta la scena filosofica della modernità, risuona quasi come un monito: nella prospettiva dell’immanenza assoluta dischiusa dal canone minore, la voce pura della filosofia si desta per comunicarsi infinitamente da sé e superare, così, l’illusoria necessità di un medium privilegiato.


[1] R. Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017, p. 320.
[2] R. Ronchi, Bergson. Una sintesi, Marinotti, Milano 2011.



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