Kasparhauser





Rivista di cultura filosofica

2016


Home


Monografie


Culture Desk


Ateliers


Chi siamo


Info



Persone che potresti conoscere, ovvero il ribaltamento dell’intenzionalità
di Marco Nicastro

17 settembre 2016


“Persone che potresti conoscere”: è questa la dicitura che compare a intermittenza in qualche zona dello schermo del nostro account Facebook. Mi sono spesso chiesto quali mai fossero i criteri che portano il “Grande Fratello elettronico” — che beatamente segue la nostra vita socio-virtuale — a stimolarci con messaggi come questo.

Non sempre, devo dire, ho trovato una risposta plausibile. Di certo, se dei motivi ci sono, non sono inerenti alle dinamiche più complesse ed evolute della nostra vita psichica e relazionale.

Ogni atto umano infatti, specie se si tratta di un atto complesso e sovradeterminato (nel senso che ha molte cause) — nel caso specifico, se stabilire con un altro essere umano un rapporto in cui condividere qualcosa di sé — dovrebbe essere motivato da elementi più significativi, da un punto di vista emotivo, che non la semplice possibilità di stabilire un contatto.

Il giocare sottilmente sull’intercambiabilità dei due verbi modali “potere” e “volere” costituisce un’adulterazione del senso più autentico di essi nell’ambito dell’intenzionalità umana.

La dicitura di Facebook tenderebbe così a solleticare di continuo il desiderio dell’utente di poter creare legami con chiunque, in una sorta di onnipotenza della socializzazione che spinge a infrangere le consuete dinamiche individuali che caratterizzano lo stabilirsi delle relazioni tra persone nella vita reale. La semplice possibilità di conoscere, continuamente proposta, incita l’internauta a farlo; si verifica un’inversione del processo dell’atto intenzionale, che invece dovrebbe essere mosso innanzitutto da un desiderio individuale specifico che trovi poi, se le condizioni ambientali lo consentono, la sua possibilità di realizzarsi. In questo senso possiamo dire che l’individuo è mosso da un desiderio intrapsichico (o da molti desideri) e diventa effettivamente responsabile dei propri atti solo quando comprende meglio questo desiderio e ne prende coscienza (cioè quando effettivamente se ne appropria).

Il verbo “volere” indica infatti un moto del soggetto verso qualcosa spinto da una tensione che supponiamo gli appartenga, esprimibile con l’espressione in prima persona: io voglio. Esso è intrinsecamente diverso dal verbo “potere”, che descrive invece una semplice possibilità, una condizione statica solo teoricamente realizzabile, non ancora fatta propria, non ancora interiorizzata in un’intenzione soggettiva, quindi in qualche modo esterna all’Io, impersonale.

Si verifica così, nel messaggio di Facebook, un piccolo ma ripetuto “suggerimento” di ribaltare il senso dell’intenzionalità individuale, un’antitesi del detto “Volere è potere”. Questa frase indicava infatti la preminenza della volontà desiderante del soggetto sulla semplice possibilità teorica, nel senso che, se il soggetto vuole, può realizzarla concretamente. Invece Facebook continuamente ci suggerisce, in modo un po’ subdolo, che “potere è volere”, che cioè la semplice possibilità di realizzazione equivale al fatto di volerlo, che l’intenzionalità e la volontà dei singoli è soggetta all’influenza della possibilità offerta, trascurando il peso della specificità dei desideri soggettivi che dovrebbero precedere ogni azione.

Il tutto è reso poi più credibile dalla facilità con cui pare effettivamente possibile stabilire nuovi legami con gli altri utenti (attraverso semplici “click” del proprio mouse), senza nemmeno dedicare qualche minuto ad una presentazione personale che prepari chi riceve la richiesta ad un’accoglienza più consapevole; un rapidissimo movimento del dito indice su quel dispositivo diventa l’emblema del carattere irriflesso di quanto proposto dal social network a livello relazionale.

Siamo qui sull’adagio del proverbio «è l’occasione che fa l’uomo ladro», cioè che basta proporre qualcosa di allettante, anche se sconveniente, perché tutti lo facciano. Certo, nessuno nega che in certe condizioni di particolare tensione soggettiva un individuo possa lasciarsi trascinare passivamente da certe condizioni esterne ed estemporanee — «l’occasione» del proverbio — al di là della propria modalità di condotta abituale; ma non possiamo permetterci di smettere sullo stesso piano il peso della complessità psichica che ci definisce e ci rende esseri dotati di un senso di responsabilità, con l’influsso degli stimoli esterni, che appunto può essere determinante nel causare le nostre azioni solo a certe particolari condizioni. Come detto, un vero e proprio ribaltamento del senso dell’agire umano che si gioca sull’alterazione dell’attenzione indotta dall’attività telematica prolungata — un lieve stato dissociativo in cui risulta alterata la nostra percezione del tempo e dello spazio - oltre che sulle classiche modalità pubblicitarie che fanno dell’ossessiva ripetizione di un messaggio il suo punto di forza nel determinarne l’accettazione da parte di chi lo riceve.

Più in generale, credo che stia proprio nell’indurre processi simili la pericolosità di questo mezzo di socializzazione virtuale, e di Internet più in generale: cioè nello stimolare continuamente la parte della nostra personalità e del nostro cervello che si muove in modo condizionato e irrazionale, un effetto facilitato appunto dall’alterazione della coscienza e dell’attenzione provocata dallo stare per ore davanti a uno schermo acceso (oltre che dalla possibilità di un’interazione a distanza in cui gli altri sono solo “profili” virtuali).

Una pericolosa china su cui forse varrebbe ormai la pena avviare una generale riflessione sociale e culturale prima ancora che psicologica, non lontana da quella che solitamente la nostra società esercita su altri fattori capaci di alterare alcune facoltà umane — come, giusto per fare un esempio, le sostanze stupefacenti — ma che richiederebbe, nel caso di Internet e dei social network, un atteggiamento ancora più accorto. Infatti, si può stare lontani in qualche modo da altri rischi anche semplicemente per l’azione deterrente dei possibili effetti indesiderati a breve termine, del rischio di sanzioni legali e sociali ad essi legati, o per la non immediata disponibilità di quelle condizioni che obbliga il fruitore potenziale a esporsi fisicamente nella realtà per provarli; ma è forse più difficile difendersi da un’“entità” invisibile che è continuamente alla portata di ognuno dentro la propria abitazione e che, in modo allettante, promette l’ampliamento del nostro rapporto col mondo senza rischi o effetti collaterali immediatamente rilevabili.

Possibilità di ampliamento del sé e delle relazioni che la rete e i social network promettono e forse favoriscono, col rischio tuttavia di una perdita di contatto con noi stessi, con la nostra interiorità psichica e col nostro corpo; cioè con la base psichica soggettiva da cui parte e in cui trova senso, attraverso l’autoriflessione, l’azione intenzionale. Quel “mondo interno” che dà senso emotivo alle nostre azioni rendendole veramente nostre e con cui dovremo comunque tornare a confrontarci una volta usciti dalle nostre case, una volta tolta la mano dal mouse.


Jim Dine, self-portrait

Home » Ateliers » Psichiatria

© 2016 kasparhauser.net