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Osservazioni intorno a «Analisi terminabile e interminabile» di Sigmund Freud
di Marco Nicastro

3 marzo 2018*


Così inizia Freud un suo importante, illuminante scritto, in cui nel 1937, verso la fine della sua esistenza, si interroga presago sul tema della fine dell’analisi:
L’esperienza ci ha insegnato che la terapia psicoanalitica — opera di liberazione di un essere umano dai suoi sintomi nevrotici, inibizioni, e anomalie del carattere — è un lavoro lungo e faticoso. Perciò, fin dai primi esordi, sono stati effettuati alcuni tentativi miranti ad accorciare la durata delle analisi. Non occorreva fornire una giustificazione particolare a questi sforzi; bastava appellarsi a ragioni più che mai assennate e dettate dal senso dell’opportunità (p. 19). [1]
Il padre della psicoanalisi riconosceva come aspirazione comprensibile il cercare di ridurre i tempi della cura analitica, così lunga ed impegnativa, pur se tale atteggiamento era in parte dovuto a pregiudizi del tempo (ma a volte ancora attuali) relativi alla presunta inconsistenza delle affezioni nevrotiche, ma anche a influenze culturali ascritte ai tratti tipici della frettolosa cultura americana emergente (anche queste, non ancora del tutto scomparse).

D’altronde, lo stesso Freud ed altri analisti avevano utilizzato dei tentativi forzosi di concludere dei trattamenti che parevano interminabili, come avvenne nel famoso caso dell’uomo dei lupi, al quale egli impose una data di fine terapia in modo unilaterale, ottenendo, inizialmente, un importante successo, rilevato in termini di crollo delle resistenze fino ad allora tenacemente mostrate ed emersione di materiale rimosso significativo. Egli, tuttavia, chiarisce anche i limiti di una tale misura eccezionale: mentre una parte del materiale rimosso emerge significativamente, un’altra parte si sottrae definitivamente alla possibilità di elaborazione, e, infine, il metodo richiederebbe una grande sensibilità, nel senso che il momento in cui diviene necessario fissare la conclusione dipende dal tatto e dall’intuito del clinico, elementi difficilmente definibili e spiegabili ad altri esterni al trattamento.

Interessante, in proposito, è vedere come Freud definisce quello che sembra il motivo principale della difficoltà a concludere il trattamento: il paziente trova l’analisi talmente positiva come esperienza e si trova talmente bene con l’analista da non sentire il desiderio di smettere. Quindi, sembrerebbe che un affetto positivo intenso rivolto al terapeuta sia la causa principale dell’impasse. Ma continuiamo a seguire passo passo il testo di Freud:
Occorre innanzitutto mettere l’accento su ciò che intendiamo con l’espressione polivalente di “fine di un’analisi”. […] La prima è che il paziente non soffra più dei suoi sintomi e delle sue angosce, nonché delle sue inibizioni.; la seconda è che l’analisi giudichi che il malato è stato reso tanto cosciente relativamente al materiale rimosso, che sono state debellate tante resistenze, che non c’è da temere il rinnovarsi dei processi patologici in questione. [...] L’altro significato dell’espressione “fine di un’analisi” è di gran lunga più ambizioso. In nome di esso ciò che ci domandiamo è se l’azione esercitata sul paziente è stata portata tanto avanti che da una continuazione dell’analisi non ci si possa ripromettere alcun ulteriore cambiamento (pp. 24-25).
Tali risultati, dice Freud, auspicabili ma alquanto ambiziosi (soprattutto l’ultimo), sono raggiungibili pienamente solo se il disturbo di cui soffre il paziente è di origine traumatica, ossia pienamente conflittuale e riconducibile ad eventi distinguibili del passato (un’autentica nevrosi quindi) che l’Io immaturo del paziente non è riuscito a suo tempo a padroneggiare, mentre non lo sono più se l’affezione viene a dipendere principalmente da una “alterazione dell’Io” che ha una sua propria origine, non riconducibile strettamente al conflitto con la pulsione e che, secondo l’Autore, andrebbe meglio indagata. Proprio per questo egli si auspica, con lungimirante spirito scientifico, che gli analisti si concentrino maggiormente su ciò che si oppone al successo di un trattamento, sulle difficoltà delle analisi, piuttosto che sui meccanismi, ormai abbastanza chiariti, che possono portare ad una guarigione (p. 26).

Freud individua la problematicità principale della questione nel rapporto di forze tra i bisogni pulsionali e l’Io nel corso del trattamento ritenendo che ciò che si verifica in un’analisi riuscita non sia lo spegnimento di una pulsione — cosa impossibile oltre che niente affatto desiderabile — quanto piuttosto un “imbrigliamento” di essa all’interno del complesso gioco di forze dell’Io, finendo così per esserne armonizzata e sublimata (potremmo dire: meglio integrata nell’economia psichica). Quindi, come affermerà poco dopo, l’equilibrio nell’Io tra le forze in campo, cioè il rapporto quantitativo di queste forze, costituisce l’elemento fondamentale per comprendere il successo o le difficoltà che si verificano nel processo di cura. È solo attraverso una rettifica dell’equilibro delle forze in gioco che l’analisi riesce a generare un cambiamento nella sintomatologia dei pazienti (p. 35), anche se il Nostro non è così certo che l’analisi riesca così spesso in questo suo obiettivo:
Si ha l’impressione che non avremmo il diritto di meravigliarci se alla fin fine risultasse che la differenza di comportamento fra una persona analizzata e una non analizzata non è poi così radicale come vorremmo, come ci attenderemmo, e come affermiamo che sia in effetti. Se le cose stessero così vorrebbe dire che l’analisi riesce spesso, ma non sempre, a eliminare l’influsso del rafforzamento pulsionale […] Davvero non mi sento di formulare su questo punto alcun giudizio definitivo, non so se oggi come oggi sarebbe possibile formularlo (p.36). […] Si può dire che l’analisi, con la sua pretesa di curare le nevrosi assicurando il controllo delle pulsioni, ha sempre ragione in teoria, ma non sempre in pratica (p.38).
Freud sottolinea che la forza delle pulsioni dipende, oltre che da dati costituzionali e quindi intrinsecamente dalla natura stessa delle pulsioni di uno specifico individuo, anche da contingenze esterne (ad es. traumi reali, stress, condizioni di vita ecc.) oppure da fattori interni, come un indebolimento dell’Io (ad es. negli stati di debolezza fisica o affaticamento, malattia, o nel sonno).

Se nulla si può fare relativamente alla forza pulsionale, dato intrinseco allo psichismo, bisogna intervenire quindi &151 e proprio su ciò l’analisi cerca di intervenire — sull’Io e sulla sua capacità di gestione pulsioni e conflitti: in una parola, sulla forza dell’Io. Per questo Freud afferma che, pur essendo auspicabile che i tempi delle analisi si accorcino, il potere di far ciò non risiede tanto nel trovare espedienti come quello a volte da lui stesso utilizzato di imporre improvvisamente una scadenza alla cura, ma di aumentare il potere degli strumenti analitici a disposizione per aiutare l’Io del paziente (p. 39).

Ora, quali sono gli ostacoli che si oppongono al successo di un’analisi e come rafforzare l’efficacia degli interventi analitici? Un primo ostacolo pare essere l’“inerzia del paziente” ad accontentarsi sempre di una soluzione incompleta (p. 41). La debolezza dell’Io, come abbiamo detto, o un’ansia particolarmente acuta che inficia le capacità riflessive necessarie ad una revisione delle proprie dinamiche intrapsichiche (p. 42). Egli accenna anche alla possibilità che conflitti latenti, non direttamente legati a quello principale, vengano suscitati nel transfert. Tuttavia parla di questa possibilità solo in relazione ad un interrogativo sulla possibile funzione preventiva dell’analisi, cioè su un uso deliberato da parte dell’analista del transfert per generare conflitti latenti nel paziente al fine di prevenirne la comparsa in futuro, ma non in riferimento al fatto che l’emersione di tali contenuti possa scatenarsi durante il trattamento indipendentemente dalla volontà del clinico (pp. 42-43). Tornerò su questo punto nel prosieguo delle mie osservazioni.

Dopo essersi soffermato sul tema dell’imbrigliamento delle pulsioni come fenomeno che garantisce il raggiungimento dei risultati clinici in un’analisi Freud ritorna sul concetto di ”alterazione dell’Io” la cui causa sarebbero i vari meccanismi di difesa e le resistenze che emergono nel corso della cura e che si oppongono ai suoi scopi. Cerca anche di chiarire degli ostacoli nuovi, più misteriosi per le conoscenze dell’epoca, ma forse anche più interessanti. Si tratta di tendenze insidiose che rallentano o bloccano i progressi del lavoro analitico, determinandone una dilatazione nel tempo. Vengono definiti sia come “viscosità della libido”, a causa della quale certi soggetti non riescono a staccarsi da certi investimenti meno produttivi per orientarsi verso nuovi oggetti; “labilità della libido” tipica di pazienti opposti ai primi, che invece cambiano di frequente i loro investimenti affettivi senza tuttavia radicarsi in modo sufficiente in nessuno di essi (con la precoce scomparsa, quindi, dei risultati precedentemente ottenuti in terapia). Infine, evidenzia quell’“inerzia psichica” già in altri scritti definita come “resistenza dell’Es”, una difficoltà generale dell’apparato psichico ad imboccare nuove vie di soddisfacimento e sublimazione delle pulsioni (pp. 54-56).

Ma, nella parte finale del saggio, Freud tocca quello che, a mio parere, è il punto nodale della questione: non si può scindere l’esito di un trattamento analitico senza considerare le caratteristiche della personalità dell’analista, che dovrebbe possedere un notevole livello di “normalità e correttezza psichica”, e che dovrebbe opporsi ad ogni tentazione di inganno e di finzione, dovendo essere la relazione analitica basata “sull’amore per la verità, ossia sul riconoscimento della realtà” (p. 64).

Senza pretendere che il futuro analista sia un essere umano “perfetto” ab origine, Freud ritiene fondamentale un periodo di analisi personale allo scopo di permettergli di conseguire un sufficiente convincimento circa l’esistenza dei processi inconsci, circa gli effetti dell’inconscio sulla propria psiche, e di apprendere la tecnica utile a trattare con questi nella clinica. Inoltre, fondamentale risulta essere l’apporto successivo del singolo futuro analista al lavoro solo iniziato con l’analisi, visibile nella continuazione del processo di elaborazione iniziata al momento della formazione personale. Nella misura in cui egli riuscirà a far ciò sarà un buon analista. Freud ritiene che, per motivi pratici, questo periodo di formazione personale può essere solo breve ed incompiuto, a differenza dei tempi estremamente lunghi dell’analisi didattica attuale. È possibile, mi chiedo, ritrovare in questo spropositato allungamento dei tempi della cura un desiderio di rendere perfetta e completa l’analisi? Se sì, questa potrebbe essere un’illusione — una di quelle “pretese” di cui si parla spesso nel testo in questione — dato che lo stesso Freud notava, umilmente e pragmaticamente, che non sempre l’analisi aveva successo, poiché i suoi strumenti non possiedono un potere illimitato ma solo circoscritto, e dipendono in larga misura dai rapporti di forze tra le istanze che dinamicamente si contrappongono nel corso del trattamento (pp. 38-39). Così, il tentativo di allungamento della cura o dell’analisi didattica sarebbe una reazione opposta ma della stessa natura di quella che imporrebbe un improvviso termine all’analisi per garantirne l’efficacia (come nel caso dell’Uomo dei lupi), mentre Freud indicava, come già visto, il potenziamento degli strumenti analitici come obiettivo da perseguire per rendere in futuro più affidabile ed efficace la cura analitica. Non quindi un’artificiosa interruzione della cura o un allungamento spropositato dei tempi della cura — come oggi succede — per ottenere i risultati sperati (e questo sia nel caso dell’analisi del paziente, sia che si tratti di analisi didattica per l’analista) ma un miglioramento o una modificazione della tecnica.

In ogni caso, la conclusione dell’analisi più che una questione meramente teorica rimarrebbe, essenzialmente, una questione inerente alla prassi: essa risulta possibile se si evita che l’analisi si incagli in pretese eccessive e compiti estremi come, per esempio, il pensare di ridurre al minimo la conflittualità interna di un individuo o immunizzarlo da problemi futuri. Piuttosto, molto pragmaticamente secondo le parole di Freud:
L’analisi deve determinare le condizioni psicologiche più favorevoli al funzionamento dell’Io; fatto questo, il suo compito può dirsi assolto (p. 66).
Tuttavia, oltre a un problema di pretese ed aspettative poco realizzabili che appartengono all’analista, un altro elemento merita un approfondimento e viene proprio accennato da Freud in diversi punti dello scritto: la specifica configurazione psichica dell’analizzato.

Egli riteneva, come abbiamo visto, che la condizione nevrotica di tipo traumatico fosse quella elettiva su cui potesse dispiegarsi al meglio il potere terapeutico dell’analisi, mentre altre strutture, pur trattabili, rendevano il compito più arduo. Tra queste, le nevrosi caratteriali (quelle che noi oggi chiameremmo disturbi del carattere), in cui si hanno una serie di configurazioni difensive, spesso egosintoniche e molto radicate, che compongono una personalità solida e nel suo insieme coerente. Freud individua quindi delle organizzazioni di personalità che possono porre problemi particolari al lavoro analitico, anche se, purtroppo, non avrà più modo di specificare ed approfondire ulteriormente questo interessante problema. Individua sì, in questo scritto, degli elementi che potrebbero portare ad un allungamento dei tempi della cura, definiti come abbiamo visto “vischiosità della libido”, “inerzia psichica”, tendenza alla “labilità degli investimenti pulsionali”, “reazione terapeutica negativa”, ma non articola o integra ancora questi aspetti in una concettualizzazione più organica.

Io ritengo che l’esistenza di queste difficoltà, poste al lavoro analitico da configurazioni di personalità specifiche, sia particolarmente vera ma tuttora parzialmente sottovalutata nella sua portata e nelle sue implicazioni. Non mi riferisco qui solo ai casi che presentano grandi difficoltà a stabilire un’alleanza terapeutica fin dall’inizio o a garantire continuità al lavoro analitico (cosa che si verifica, ad esempio, nelle personalità borderline o paranoidi). Mi riferisco piuttosto a quei casi, non pochi a mio avviso, che si rivolgono all’analisi per una cura o un percorso di formazione e che rendono il lavoro interminabile proprio per quel processo di invischiamento che Freud aveva descritto in termini pulsionali e che a me piace pensare anche in termini relazionali. Sono personalità che non sono inseribili nelle zone più estreme del continuum delle personalità, quindi né nevrotici autentici, più facilmente trattabili, né personalità psicotiche o borderline nelle loro molteplici manifestazioni sintomatiche. Trattasi piuttosto di personalità di mezzo, se così possiamo definirle, avvicinabili alle personalità “caratteriali” di cui parlava lo stesso Freud. Il nucleo problematico di queste organizzazioni rimane, a mio avviso, quello della dipendenza: sono capaci di riconoscere distintamente l’oggetto (e la realtà) a differenza delle personalità meno evolute, ma tendono a stabilire con esso un rapporto di profonda dipendenza sorretta da meccanismi di idealizzazione e di diniego molto sottili, a volte difficilmente individuabili. La dipendenza è funzionale al mantenimento di un’omeostasi narcisistica, di un’immagine di sé che si nutre dell’idealizzazione dell’altro. Stare in analisi non viene ad assumere in questi casi il senso di un lavoro profondo sui propri conflitti — ciò infatti equivarrebbe ad affermare indirettamente la propria vulnerabilità e problematicità — ma piuttosto di un bearsi costante della presenza di un altro idealizzato che garantisce sentimenti di sicurezza e di buona autostima.

Questa condizione di dipendenza, favorita da certi specifici setting di lavoro, riporta a mio avviso a quel fenomeno, citato da Freud nel suo scritto, dell’attivazione nel transfert di conflitti fino a quel momento latenti. Freud parlava di questa eventualità solo in relazione al fatto di poterla sfruttare in relazione a possibili finalità preventive dell’analisi (concludendo però con un parere negativo). Essa è, invece, a mio avviso, una qualità intrinseca al trattamento analitico standard e, nello specifico, dipende dal suo setting. Ovviamente questa condizione di dipendenza, ben diversa dal transfert positivo di cui parla Freud come condizione necessaria per iniziare e portare avanti un lavoro analitico, non potrebbe tenersi in vita senza il contributo inconscio del terapeuta (o analista) ideologicamente favorevole ad un allungamento spropositato dei tempi di cura oppure intrappolato nella seduzione del ritorno narcisistico importante che gli deriva dal continuo contatto con i propri pazienti, in termini di denaro, di prestigio, di gratificazione culturale e professionale. In queste situazioni, probabilmente, le tendenze narcisistiche-anaclitiche (quindi, di relazione con l’oggetto parziale) di entrambi i membri della diade si attivano in modo potente ed entrano in risonanza, in una collusione inconscia molto profonda difficile da districare anche per l’accettazione, in parte culturalmente accettata, della cura analitica come di un processo che richiede tempi estremamente lunghi (non di rado, oggi, oltre i dieci anni). Tale situazione si manifesterebbe con particolare vigore e rischia di finire fuori controllo quando il trattamento analitico inizia già con certi presupposti: ad esempio quando inizia l’analisi un soggetto con forti tendenze latenti alla dipendenza e che, è al contempo, un terapeuta in formazione. Data la sua peculiare condizione, egli facilmente considererà l’analisi come un passo importante necessario a conseguire una sicurezza interna, ma anche un titolo, un’abilitazione, un riconoscimento sociale della propria professionalità, piuttosto che, primariamente, come un percorso di esplorazione di sé stessi per comprendere la propria soggettiva verità o come percorso di profondo cambiamento che passa necessariamente per una messa in discussione di alcuni presupposti fondamentali del proprio modo di essere. Ecco così che la pericolosa dinamica transferale in questione diventa drammatica quando certi individui con specifiche problematiche latenti si accingono a intraprendere il mestiere di terapeuta e decidono di iniziare un’analisi a fini professionali.

Ritengo che il problema non consista solo nella problematica esistente in nuce in alcuni analizzandi, cosa che potrebbe essere adeguatamente affrontata individuando per tempo il problema nella fase iniziale del rapporto terapeutico. Esso tira in ballo anche, cosa non individuata da Freud, le caratteristiche stesse del rapporto analitico per come esso si è venuto a configurare: un rapporto intensivo a elevata frequenza settimanale da prolungarsi per vari anni ed in cui il soggetto viene ad acquisire, nello specifico setting analitico, una posizione di subordinazione nei confronti di un analista “soggetto supposto sapere”, come diceva Lacan, idealizzato e il cui prestigio viene riconosciuto per il semplice fatto di appartenere ad un ristretto numero di professionisti che può fregiarsi di un certo titolo e di una certa formazione, socialmente ritenuta molto ardua. Sarebbero quindi le caratteristiche stesse della terapia analitica condotta in modo tradizionale, accoppiate con certe specifiche configurazioni caratteriali, a generare quei problemi di interminabilità e di invischiamento pulsionale-relazionale che Freud aveva intravisto così lucidamente alla fine della sua carriera. Tale dinamica diverrebbe ancor più difficilmente elaborabile quando questi radicati e latenti bisogni di dipendenza costituiscono il nucleo centrale della personalità dei terapeuti (o analisti) in formazione.

Accettare la terminabilità del proprio trattamento analitico significa accettare l’idea di limite ad una condizione di sospensione spazio-temporale insita nel setting classico, l’idea di un limite alle tendenze onnipotenti della mente e al prevalere dell’inconscio sulla realtà. In caso contrario, si finisce per stimolare e consolidare la vittoria del narcisismo sul limite, di sé sull’altro, della sospensione magica sul tempo. Accettare il tempo significa tollerare la sottomissione realistica ad un elemento terzo rispetto alla diade terapeutica, un elemento che non si può modificare nella sua natura di costante cambiamento e movimento; un elemento realisticamente non assoggettabile ai desideri dei componenti della coppia analitica. Significa, simbolicamente, accettare la realtà della propria castrazione, cioè della limitazione inevitabile e necessaria dei desideri di onnipotenza infantili, spesso travestiti da sogni e obiettivi di vita socialmente riconosciuti o valorizzati. E forse, alla luce di queste ultime considerazioni, il soffermarsi disincantato di Freud nelle ultime pagine di questo scritto sul problema posto dai due complessi speculari dello psichismo umano — la rinuncia al pene nella donna e l’accettazione della castrazione-sottomissione passiva nell’uomo — come elementi problematici forse inalterabili dal lavoro analitico — risulta quanto mai oscuramente illuminante (mi si passi l’ossimoro) per l’intera questione della terminabilità dell’analisi. [2]

* Prima pubblicazione Kasparhauser | Psichiatria, 7 febbraio 2014.

[1] L’edizione a cui si fa qui riferimento è quella della Biblioteca Bollati Boringhieri, 2006.
[2] Alcune di queste tematiche sono riprese e approfondite in M. Nicastro, Il carattere della psicoanalisi, Edizioni Psiconline, Francavilla al Mare CHIETI 2017.



Van Gogh, Autoportrait en chapeau de feutre, Parigi, 1887

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