Kasparhauser





Rivista di cultura filosofica

2017


Home


Monografie


Culture Desk


Ateliers


Chi siamo


Info



Umberto Saba: il piccolo Berto e il Dottor Weiss
di Roberto Pozzetti

18 novembre 2017


1. UN INCONTRO CON LA STORIA DELLA PSICOANALISI ITALIANA

Nello scorso mese di marzo, nella sede dell’Associazione di Promozione Sociale InOut, svolgemmo una partecipata conferenza, con interventi di diversi relatori attivi a vario titolo in Italia e nello svizzero Canton Ticino, sul trauma dell’esistenza. Argomento dalle risonanze heideggeriane, che andava a rielaborare un tema caro alla psicoanalisi sin dai suoi albori e carsicamente destinato a riemergere nella clinica, non soltanto psicoanalitica: quello del trauma. Fra i relatori Nicoletta Cenni, docente di Lettere in un Liceo Scientifico, propose l’opera e la figura di Umberto Saba. Era, per me, un vago ricordo dell’anno dell’Esame di Maturità, meno noto di uno Svevo del quale avevo letto La coscienza di Zeno. Umberto Saba si nutrì di un analogo humus culturale ma ebbe, a differenza di Italo Svevo, l’incontro sulla propria carne con l’esperienza della psicoanalisi. Alla fine degli anni Venti, egli intraprese infatti un percorso analitico con il Dottor Weiss. Esperienza che è mancata a Italo Svevo. Ricordiamo che fu proprio Edoardo Weiss fra i primissimi a portare e far conoscere in Italia l’opera di Sigmund Freud. Weiss nacque a Trieste, nel 1889, all’epoca in cui quelle terre facevano parte dell’Impero Austroungarico, da genitori ebrei. Studiò Medicina a Vienna, dove incontrò lo stesso Freud, nel 1908, andando al suo celebre indirizzo di Bergasse 19. Il padre della psicoanalisi gli suggerì di rivolgersi al suo allievo Paul Federn, con il quale Weiss intraprese la propria analisi giungendo poi a far parte della Società Psicoanalitica Viennese. Tornato in Italia nel 1918, praticò la psicoanalisi a Trieste, affiancandola al lavoro come medico nell’Ospedale Psichiatrico Provinciale. In seguito all’avvento del fascismo, si dimise dall’istituzione per non cambiare il nome Weiss. Si trasferì a Roma dove fu tra i fondatori della Società Psicoanalitica Italiana nella quale ebbe il ruolo di primo Presidente. Mantenne contatti con Freud che divenne una sorta di suo supervisore per via epistolare. Ho presente frammenti del suo scambio di lettere con il fondatore della psicoanalisi, nei quali chiede e ottiene indicazioni su casi clinici che lo ponevano dinanzi a difficoltà. Weiss partecipò a vari congressi dell’International Psychoanalitical Association, fra cui quello del 1936, svolto nell’attuale Repubblica Ceca, nel quale Lacan presentò il suo famoso testo Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io. Nel 1939, per sottrarsi alla barbarie nazifascista, emigrò quindi negli Stati Uniti, dove praticò la psicoanalisi sino alla sua morte. Numerose e interessanti sono le sue pubblicazioni edite a stampa. Umberto Saba &151 il cui vero nome era Umberto Poli, mentre Saba deriva dalla sua balia, nota come Peppa Sabaz, e dalla parola ebraica che vuol dire “nonno” — si recò in analisi da Weiss per circa due anni. Leggere dei passi di Saba implica, dunque, incrociare la storia iniziale della psicoanalisi in Italia.


2. IL CANZONIERE

Lungi da noi il progetto di servirci degli scritti di Umberto Saba onde redigere una sua patobiografia che collegherebbe i periodi della sua poetica alle crisi nervose e alla fatica a compiere operazioni anche semplici per la vita quotidiana, quali appunto quella di scrivere, quando tali fasi critiche si presentavano in una modalità esacerbata. Ricusiamo questo tipo di operazione per una serie di motivi che ora andiamo a dettagliare.

Intanto, la produzione letteraria e gli scambi epistolari sono insufficienti per costruirsi un quadro rigoroso sulla psicopatologia di uno scrittore, tranne che dinanzi a casi clamorosamente eclatanti al punto da non lasciare dubbio alcuno circa la situazione clinica del personaggio stesso. Ne costituiscono degli esempi un Dino Campana oppure un Antonin Artaud. Non è assolutamente questo il caso di Umberto Saba il quale prosegue sempre con una discreta lucidità. In seconda istanza, approcciarsi attraverso una prospettiva di tal fatta non contribuisce a rendere ragione di un’opera, le cui caratteristiche non sempre risultano integralmente riconducibili a una peculiare problematica psichica di un autore, né tantomeno alle sue evoluzioni determinate da un incontro clinico. Saba conferma questo proprio per il fatto che la sua arte poetica, già ben presente molti anni prima dell’analisi con Weiss, non sembra subire stravolgimenti radicali dopo l’analisi stessa. Si stenta a percepire un sovvertimento, una discontinuità sostanziale, una rivoluzione copernicana della sua penna in seguito ai due anni nei quali ha svolto sedute nello studio del dottor Weiss. In terza e ultima battuta, nel caso di Saba la valutazione diagnostica stessa risulta davvero ardua. I dati biografici a nostra disposizione non ci permettono di stabilire con chiarezza se il suo caso clinico vada situato tutto sommato nel novero di una severissima nevrosi oppure nel settore delle psicosi, verosimilmente a preponderanza melanconica o maniaco-depressiva.

Un’ipotesi sembra delinearsi, appunto, come quella di una delicata e sovente recrudescente nevrosi ossessiva, gravata da un’irriducibile aura di solitudine, abbandono, mortificazione e immaginazione suicidaria. Un’altra chiave di lettura, altrettanto degna di essere presa in considerazione, situa la posizione soggettiva di Saba nel campo di una psicosi che si manifesta soltanto con l’esiguità dei legami sociali e con uno spegnersi del sentimento della vitalità senza dare adito a fenomeni clinici incontrovertibili come deliri, franche allucinazioni e passaggi all’atto autodistruttivi o suicidari. Si tratterebbe, in tale eventualità, di operare una lettura del caso di Saba avvalendosi del concetto di psicosi ordinaria sviluppato negli anni Novanta da Jacques-Alain Miller e che non è senza nessi con quello di psicosi bianca proposto da Andrè Green, uno fra i più interessanti collaboratori di Lacan. Ricordiamo, con il Freud di Lutto e melanconia, come il melanconico non soffra soltanto dinanzi alla perdita dell’oggetto d’amore, come avviene frequentemente nel tempo volto al lavoro del lutto. Il melanconico giunge a identificarsi radicalmente con l’oggetto perduto proprio in quanto non si è mai effettivamente separato da esso: proprio in quanto l’oggetto pulsionale per il soggetto psicotico non è perduto, andrà verso il confondersi con l’oggetto perduto, con particolare riferimento all’oggetto di scarto. Il melanconico tende a sentirsi totalmente uno scarto, a scambiarsi sul serio per un essere di scarto nel momento delle autoaccuse di indegnità e di degradazione.

Nel 1903, quando vive a Pisa per arricchire la propria formazione letteraria, Umberto Saba sviluppa il timore ossessivo che un amico, tal violinista Ugo Chiesa, potrebbe denunciarlo alle autorità austroungariche per alcuni versi antiasburgici da lui scritti. Lo indurrebbe a questo la gelosia per il fatto che Saba intratteneva una corrispondenza con la fidanzata di questi. Siamo nelle maglie di una nevrosi ossessiva nella quale appare proiettato il proprio senso di colpa, suscitato dal conflitto fra il desiderio di danneggiare l’amico appropriandosi della di lui partner e il sentimento di tenerezza amichevole nei confronti dello stesso Ugo Chiesa, tanto da riattivare le trame della conflittualità edipica di tipo simbolico nei confronti degli Asburgo e del padre? Oppure ci troviamo dinanzi a uno spunto delirante, accostabile a un abbozzo di delirio di gelosia, che non arriva tuttavia a cristallizzarsi nelle specie di una certezza incrollabile e refrattaria a qualunque dimostrazione articolata della propria infondatezza?

Sappiamo che Saba nasce nel 1883 da madre ebraica e padre nobile veneziano, il quale lascia la moglie addirittura prima della gravidanza. Verrà dato in affido alla suddetta balia slovena sino ai tre anni per poi venire riportato, in modo traumatico, dalla madre. Umberto incontra Carolina Wolfler, a Trieste, nel 1905. Nei molteplici scritti a lei indirizzati o che, comunque, ne fanno riecheggiare la figura, Carolina viene sempre citata con il diminutivo di Lina. Nel 1909, congedatosi dal Servizio di Leva Militare che svolse in fanteria, a Salerno, Umberto Saba convola a nozze con Lina. Matrimonio che, pur con alterne fortune, lo accompagnerà per tutto il corso dell’esistenza. L’anno successivo allo sposalizio, Lina porta alla luce la loro figlia, Linuccia. Impossibile misconoscere come si tratti ancora una volta di un diminutivo del nome della madre. Abbiamo notizie di una significativa crisi coniugale sopraggiunta già l’anno seguente. Spesso Lina vede Umberto triste, reclinato su sé stesso e sulla propria poetica. Pare ella inizi una relazione extraconiugale che, come lui scrive in una poesia del Canzoniere dedicata alla figlia in tenerissima età, lo fa soffrire. Lina si separa da lui temporaneamente. Superata la burrasca di questa prima crisi coniugale, la famiglia si trasferisce in quel di Bologna dove pare riacquistare una certa serenità. Resta enigmatico il perdurare di questa chiusura in sé stesso di Umberto, che neppure la nascita di una bimba sembra in grado di scardinare. Si tratta, forse, di un manifestarsi ancor più palese di una deriva malinconica che lo attanagliava da tempo, da sempre, sino a giungere in tale circostanza a un ritiro narcisistico della libido, del desiderio? Nulla ci permette di accertarlo ma, senza remore, ci sentiamo di affermare quanto sia inconsueto in un soggetto situabile nell’ambito di strutture cliniche edipiche, nevrotiche, l’aggravarsi di uno stato depressivo dopo l’evento che segna l’inizio della fase della genitorialità.

Nel 1921, viene pubblicata la prima edizione de Il canzoniere che, pur rifacendosi espressamente nel titolo all’omonima opera di Petrarca, non riconosce un debito nei confronti dell’autore di Chiare, fresche e dolci acque. Ne scrive senza veli a Giacinto Spagnoletti il quale intendeva pubblicarlo: «Ti rendo attento al fatto che la corrente petrarchesca non esiste nella mia poesia, tranne, forse, in qualche mia poesia giovanile. Essa si è sempre opposta a questa corrente (bene inteso non per partito preso); essa si riallaccia invece alla corrente Dante-Parini-Foscolo. E’ una poesia fatta assai più di cose che di parole». [1] Saba, già prima di intraprendere l’analisi, si impegnava in un intenso lavoro di introspezione e autosservazione nel quale si accorge dei propri due lati psicopatologici basilari: quello ossessivo e quello melanconico. In I prigioni, due poesie si trovano esattamente una dopo l’altra: Il melanconico viene posizionata in modo precisamente consecutivo a L’ossesso.

Io son prigione d’un pensiero. Ossesso
da lui mentre tra gli altri uomini vivo
(mera apparenza), sol da lui derivo
l’essere, tutto quanto in lui son messo.

Melanconia mi fu sempre compagna.
Ebbi solo da lei mie tante e care
gioie; quel bello ella mi ha fatto amare
che le mie ciglia di lacrime bagna. [2]

Tutto questo rinvia probabilmente alla triste vicenda dell’infanzia, là dove il padre si separa precocemente dalla madre e lui lo incontra effettivamente soltanto all’età di vent’anni; a questo si aggiunge una carenza di cure, di accudimento e di affettività anche da parte della madre. Ella — probabilmente per le ristrettezze economiche — preferirà affidarlo alle cure della balia fin dalla primissima infanzia. Sorge dunque il problema clinico di un precoce abbandono che ci sembra rinviare al vissuto di impotenza, di sconforto, di inaiutabilità che Freud denominò a suo tempo con il termine tedesco di Hilflosigkeit.


3. NELLO STUDIO DI WEISS: IL PICCOLO BERTO E L’ABBANDONO

Umberto Saba non è certo l’unico caso di scrittore di successo ad aver attraversato, traendone benefici e giovamento, l’esperienza analitica. Abbiamo presente, giusto per citarne uno, il caso di Samuel Beckett e la sua analisi con Wilfred Bion, che indusse nel genio irlandese una sorta di prosciugamento dell’inconscio rintracciabile, almeno in parte, nella sua opera coincisa e laconica. I dialoghi di lavori come Finale di partita e, soprattutto, il celeberrimo Aspettando Godot assurgono in tal senso a fulgidi esempi, situabili nel genere del teatro dell’assurdo.

Sembra sia risultato carente in Saba lo spazio di reverie materna, per dirla con i termini di Bion. La madre lo consegna alle carezze di una balia che dovrebbe suffragare tale spazio, in modo evidentemente inappagante per quanto ella abbia riversato sul bimbo l’amore per il proprio figlio morto in tenerissima età. Fattore che ha, forse, rafforzato l’identificazione soverchiante di Saba stesso con un individuo morto.

La raccolta denominata con il suo dimunitivo, Il piccolo Berto, relativa agli anni della sua analisi, è dedicata proprio a Edoardo Weiss. Al centro di quest’opera vi è appunto la balia, che sembra vicariare anche la funzione paterna — il papà che a Umberto è mancato — come si coglie dalla scelta del nome Saba che, come detto, rinvia sia al nonno materno in grado di svolgere il ruolo paterno sia al significante Sabaz, soprannome della suddetta baby sitter. Si veda la dolcissima Ninna-nanna:

Fa la nanna, bambin. Nell’altra stanza
Veglia tua madre, e il cuore le si spezza,
sola. E una lieta ti annuncio certezza:
Più non ritorna il tuo cattivo padre.

Oggi tuo padre
son io. Mi assumo, e m’è lieve, il tuo affanno.

Tutt’altro che secondario ci sembra anche il definire suo padre “assassino” nell’Autobiografia, precisando a chiare lettere, con il virgolettato, come tale pesante definizione provenga dalla voce materna.

Mio padre è stato per me “l’assassino”,
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.

Sua madre viene meno, dunque, non soltanto alle cure e all’holding di stampo winnicottiano, ma anche alla funzione di nominare il padre come datore della vita, come portatore del fattore riproduttivo e procreativo. L’ordine generazionale quale istanza simbolica fondamentale e origine della differenza sembra annodarsi poco bene, là dove il padre viene metaforicamente descritto, in questo paragone, come colui che toglie violentemente la vita. Come non cogliere il collegamento fra il padre, rappresentante dell’autorità e dell’ordine simbolico, descritto come colui che distrugge la vita, e l’ideazione suicidaria di Saba? Impossibile abbagliarsi dinanzi al fatto che tali vissuti gravemente depressivi siano riapparsi in modo marcato pochi mesi dopo l’evento della nascita di Linuccia, quando Saba era divenuto padre lui stesso.

Di miliare valore trovo il riproporsi, nelle strofe de Il piccolo Berto, della figura di Emilio. Si trattava di uno dei figli di Weiss con il quale Saba si identificava affettuosamente, forse in una logica di sostituzione, ma al quale invidiava espressamente l’umano calore familiare a lui negato. L’analisi con Weiss si palesa come macroscopicamente volta al recupero di qualche rara e offuscata traccia mnestica dell’infanzia, dei nebulosi ricordi d’infanzia. Pare che Umberto auspichi di pervenire a un ricordo decisivo, per citare espressamente il titolo di un importante testo tecnico di Freud quale Ricordare, ripetere e rielaborare.

Saba, in una missiva del Dopoguerra, in polemica con Benedetto Croce per le posizioni del noto filosofo che vedremo più sotto, asserisce di citare testualmente Freud. Da Vienna, questi si sarebbe espresso così per rispondere a un collega che lo consultava circa un proprio paziente poeta: «Non credo che il suo paziente potrà mai guarire del tutto. Al più, uscirà dalla cura molto più illuminato su sé stesso e gli altri. Ma, se è un vero poeta, la poesia rappresenta per lui un compenso troppo forte alla nevrosi, perché possa interamente rinunciare ai benefici della malattia». [3] È probabile che il collega di Freud al quale allude sia Weiss e che il poeta sia lui stesso, celato dietro una raffigurazione anonima.

Oggigiorno, accentuare la preminenza dei ricordi d’infanzia appare un metodo di lavoro quantomeno incompleto, se non francamente obsoleto. L’anamnesi, la storicizzazione, la ricostruzione della propria storia, la puntualizzazione dei ricordi salienti della propria infanzia rimangono una componente discretamente importante di un’analisi, in special modo nelle fasi iniziali. Tale componente va tuttavia quantomeno affiancata dalla ripetizione nel transfert, con tutto il correlato di affettività che esso implica; va, inoltre, consolidata dalla rielaborazione, volta al presente e alla costruzione del futuro. Il tempo dell’analisi, almeno nell’orientamento lacaniano, non è il passato. Il tempo dell’analisi è il futuro: quello che non è ancora avvenuto, quello che è ancora da scrivere e da inventare grazie alle sedute che tessono una trama inedita.


4. DOPO L’ANALISI

Ribadiamo che non si coglie, dopo l’analisi svolta da Saba, uno stravolgimento che ne abbia rivoluzionato la poetica. Se vi è da rimarcare un cambiamento nel suo stile poetico, esso sta nell’allentarsi del precedente rigoroso riferimento a uno stile categorizzato, basato su schemi metrici sempre molto regolari, quasi inderogabili. Si attenuano e si riducono le rime baciate, quelle alternate e, soprattutto, quelle incrociate che erano ricorrenti. Fanno capolino delle poesie decisamente meno squadrate, dall’andamento ritmico assai più libero, e persino delle parole-verso analoghe alla figura letteraria dell’olofrase, la parola-frase così importante in tutta una serie di casi clinici. L’olofrase è, infatti, specifica della debilità mentale, dell’autismo, [4] di certe forme di psicosi e di problemi psicosomatici ma si ritrova anche, indipendentemente da qualsivoglia disturbo, nello “sciame significante”. Il significante, per sua struttura, rinvia a un altro significante secondo una concatenazione ampiamente studiata da noti linguisti come Saussure e Jakobson, quanto al formare espressioni retoriche fra le quali spiccano metafora e metonimia.

Nella metafora, un significante prende il posto di un altro significante. L’espressione metaforica “Sei una volpe!” sostituisce il significante astuzia con il significante volpe. Nella metonimia, un significante ne indica un altro per spostamento sulla base di una contiguità, come in certi lapsus. Una paziente adolescente mi disse: “Sono in ansia quando vado a letto. Ehm, a Lecco”; si riferiva alla provincia di Lecco ma l’inconscio si impose metonimicamente, nel lapsus, collegando un significante a un altro attraverso il cambiamento di una consonante.

A quanto scrive lo stesso Jakobson, nei suoi Saggi di linguistica generale, metafora e metonimia sono anticipate dalla Interpretazione dei sogni di Freud quando egli descrive le leggi della formazione dei sogni: rispettivamente, condensazione e spostamento corrispondono a metafora e metonimia. In situazioni eccezionali, comunque, il significante può funzionare come significante staccato dal rinvio alla catena significante, come significante fuori dalla catena. Questo avviene, oltre che nell’olofrase, appunto come sciame di significanti, nella forma di una serie di significanti ognuno sganciato e disconnesso dal successivo. Vediamolo nella serie di identità assunte da certi soggetti: “Italiano”, cui segue “Interista”, per arrivare a “Marito” e incistarsi in un “Tossicodipendente”.

Lacan si è interessato allo sciame di significanti nei suoi lavori degli anni Settanta; se ne occupa ampiamente, in particolare, nelle ultime lezioni del suo Seminario XX, dedicato al godimento femminile. Nello sciame significante, un unico significante assume un valore inusitato tanto da permettere al soggetto umano di sostenersi nel mondo senza il comune rinvio ad altri significanti. La parola poetica, quando diviene parola-verso, quando il termine poetico si presenta da solo, occupando tutto il verso di una strofa, senza collegarsi con altre frasi, costituisce un esempio di funzionamento dello sciame significante al di là di qualunque psicopatologia. Se ne trova un’espressione eccellente nel diario di Roquentin, in La nausea di Sartre: “Niente. Esistito.” La parola-verso schiude un mondo di raffigurazioni, in modo evocativo, senza scendere nel dettaglio di una descrizione prosaica. Nessuno potrebbe dare alle stampe un romanzo pieno di parole-verso e ancor meno potrebbe farlo con un saggio. La parola-verso si incunea nelle faglie del linguaggio e lo giunge a limare, a incidere, a bordare. Ungaretti ne è un ulteriore emblema. Vediamone un’espressione in Prospettiva, inclusa nella raccolta di Saba, Ultime cose:

La gente in fretta dirada.
Filari
d’alberi nudi ai lati del viale,
in fondo là dove campagne sfumano,
si avvicinano — pare — in una stretta.
E v’entra un poco di quel cielo lilla
Che turba e non consola.
Breve sera,
troppo, in vista, tranquilla.

Le due manifestazioni di parola-verso sono qui “Filari” e, sia pur preceduta da un aggettivo, “sera”. Si tratta di termini che si stagliano nel cuore del brano, che sembrano splendere di luce propria. È come se, da un lato, fossero sganciati dal resto della poesia e, dall’altro, ne facessero parte a pieno titolo in quanto essenziali. “Filari” e, in modo ancor più palese, “sera” assumono una valenza poliedrica. Da un certo vertice, mantengono una vita propria e disconnessa dal resto dell’opera racchiudendo un elemento cruciale ma senza rappresentare qualcosa di preciso; da un secondo vertice, danno senso a tutto il brano. La mia ipotesi fondamentale è che l’esperienza analitica con il Dottor Weiss abbia permesso a Umberto Saba di stemperare talune proprie rigidità, sia nella scrittura che diviene meno incasellata, sia nell’esistenza. L’analisi gli ha consentito di alleggerire il senso del dovere, di ridurre una dolorosa introspezione, di mitigare un Superio arcaico e feroce. Infatti, Saba lo accosta, in accordo con il fondatore della psicoanalisi, all’imperativo categorico kantiano “così che fra l’imperativo categorico di Kant e il Superio di Freud c’è di mezzo l’equivoco della nevrosi”. [5]

Tuttavia, dopo l’analisi, le problematiche depressive di Saba non si dissolvono, non trovano una stabile risoluzione. Ciò senza, peraltro, mai sfociare in effettivi tentativi di suicidio. Dinanzi all’irrigidirsi della repressione specifica del regime fascista, quando questo era ormai irreversibilmente sprofondato nell’orrendo abbraccio con la Germania nazista ed era arrivato a promulgare le odiose leggi razziali, Saba ripiomba nell’ideazione suicidaria. Si trova a dover cedere formalmente la libreria di Trieste al commesso Carlo Cerne ed emigra con la famiglia a Parigi e, in seguito, a Roma per tornare di nuovo alla città triestina. Giunge quindi a Firenze dove attende disperato che i nazisti lo vengano ad arrestare. Dopo averne parlato con la moglie Lina, non si astiene dall’inviare una lettera alla figlia nella quale la rende edotta di inquietanti propositi di suicidio. Linuccia, ovviamente, non gli accorda il permesso di togliersi la vita. Umberto Saba si trascina, allora, nella propria esistenza cercando di lenire il dolore e di sedare l’angoscia ricorrendo sovente a sonniferi e morfina. Saba stesso sembra consapevole del protrarsi delle sue problematiche nonostante i giovamenti indotti, successivamente alla caduta della dittatura fascista, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dalla Liberazione che lo porta a vivere, a Roma, i sei mesi più belli della sua vita. Ne scrive all’analista Joachim Flescher, membro della Società Psicoanalitica Italiana, il quale aveva apprezzato la sua accorata difesa della psicoanalisi da un Benedetto Croce che la riteneva “una moda” che sarebbe andata incontro a un ineluttabile destino di sparizione in quanto “non apporta, secondo il mio vedere, alla filosofia niente che essa già non sappia”. [6] Scrive a Flescher precisando di non essere “guarito”, ponendo giustamente tra virgolette questo termine sul quale vi sarebbe da dilungarsi in un altro articolo per proporre una lettura di cosa sia una guarigione per la psicoanalisi. “Del resto ho affrontato la cura troppo tardi (46 anni), ero gravissimo, e l’analisi si svolse in un’angosciosa atmosfera di sgombero”. [7] Va ricordato, infatti, che l’analisi di Saba non si concluse tanto per un effettivo passaggio logico, per un cambiamento rilevante di posizione soggettiva, quanto per motivi concreti relativi al trasferimento nella capitale del Dottor Weiss. Abbiamo stralci del carteggio relativo al dopoguerra con un Edoardo Weiss ormai stabilmente installato a Chicago, dove cura la raccolta delle opere di Federn quale lascito testamentario di quest’ultimo. Saba ripete di volergli bene ma persistono il dolore, un’angoscia estrema e la depressione con idee di suicidio. Nel febbraio 1955, Weiss torna per pochi giorni a Trieste. Organizzano un appuntamento e Saba lo rivede dopo quasi venticinque anni. Tuttavia, già il mese seguente, due anni prima della morte e poco prima del decesso della moglie, Saba gli invia questo ulteriore drammatico messaggio epistolare: “Adesso, l’unico mezzo a mia disposizione sarebbe precipitarmi dalla finestra, e tanto non ho coraggio di fare. Spero che mi venga…”. [8] Si palesano, dunque, dei sintomi e delle vere e proprie sindromi depressive, ben più acute e radicate di mere manifestazioni residuali, peraltro riscontrabili in molti soggetti che hanno effettuato un percorso analitico giunto al suo termine.

L’affetto e una certa riconoscenza di Saba nei confronti di Weiss sembrano sostanzialmente rimanere nel corso degli anni. In una lettera del 1964, scritta da Chicago a Linuccia Saba, Weiss sottolinea come, nell’esperienza analitica, “Suo padre ha reagito con un forte transfert positivo verso di me”. [9] Notevole diventa il porre a confronto questa frase con quanto Weiss pubblicò nel suo volume volto a sistematizzare la teoria e la prassi analitica, Elementi di psicoanalisi, quando sosteneva che la traslazione negativa fosse “la più difficile e certamente la più importante fra le situazioni che si presentano nella cura”. [10] L’analisi di Saba sembra, dunque, troncata per lo sgombero di Weiss da Trieste che ha rieditato il trauma dell’abbandono senza avergli permesso di attraversare il transfert negativo. Un’interruzione dell’analisi che ha lasciato più di una punta di idealizzazione della persona dell’analista.

Diamo le ultime parole proprio a Saba e alle sue precisazioni, non prive di nostalgia, rivolte ancora a Flescher, nelle quali sembra ricalcare le predette frasi di Freud. «Io sento (ma — bene inteso — posso illudermi in extremis) che, se invece che a 46, avessi fatta l’analisi a 20-25 anni, non avrei più scritto poesie: avrei scritto dei saggi. Forse, sarei diventato io stesso psicanalista; penso perfino un bravo psicanalista. Ma come vede… non sono guarito e… ricado nel sogno». [11] Vicenda appassionante quella di Saba. Storia di un poeta geniale, che ci coinvolge con le sue righe semplici e toccanti. Storia degli albori della psicoanalisi italiana, nel transfert del piccolo Berto verso uno fra coloro che la portarono nello Stivale, ovvero Weiss. Vicenda che ci rammenta anche alcuni limiti della psicoanalisi dinanzi a vicende storiche inenarrabili e a casi umani di una certa complessità i quali, comunque, come è stato per Saba, traggono un certo beneficio dalla cura analitica.


[1] U. Saba, “Storia e cronistoria del “Canzoniere” in Tutte le prose, Mondadori, Milano, 2001, pp. 1203-1204.
[2] Preferiamo lasciare tutte le citazioni da Il canzoniere senza note a piè di pagina, sia per il fatto che ne sono reperibili diverse edizioni, sia per evitare un appesantimento oneroso del nostro testo.
[3] U. Saba, Lettere sulla psicoanalisi, SE, Milano, 1991, p. 59.
[4] Si consideri il protrarsi, in certi casi, di modi di comunicare tipici dei bimbi nei primi anni di vita. In questi modi, una parola sta per tutta una frase: “Acqua!” per domandare di appagare la sete, “Caldo!” per lamentarsi della temperatura torrida, “Stanca!” per esprimere la propria fatica.
[5] U. Saba, Lettere sulla psicoanalisi, cit., p. 61.
[6] B. Croce, “Psicanalisi e poesia” in La fiera letteraria, anno I, n. 18, 8 agosto 1946.
[7] U. Saba, Lettere sulla psicoanalisi, cit., p. 47.
[8] Ivi, pp. 86-87.
[9] Ivi, p. 91.
[10] E. Weiss, Elementi di psicoanalisi, Hoepli, Milano, 1976 (rist. III edizione 1936), p. 101.
[11] U. Saba, Lettere sulla psicoanalisi, cit., p. 29.


Roberto Pozzetti, psicoanalista a Como, Presidente dell’Associazione di Promozione Sociale InOut, Membro della Segreteria di Milano/Lombardia della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, membro del Direttivo Nazionale della LIDAP (Lega Italiana contro il Disturbo da Attacchi di Panico). È autore dei libri Senza confini. Considerazioni psicoanalitiche sulle crisi di panico (Franco Angeli, Milano, 2007) e Esiste un amore felice? Sul trattamento psicoanalitico delle crisi di coppia (NeP, 2016).



Umberto Saba

Home » Ateliers » Psicoanalisi e letteartura

© 2017 kasparhauser.net