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L’Affaire Hannah Arendt
A cura di Marco Baldino




Della perdita di saggezza in filosofia.
A proposito di un libro di Emmanuel Faye:
Arendt et Heidegger. Extermination nazie et destruction de la pensée (Éditions Albin Michel, Paris, 2016)

di Jean-Louis Vullierme

(traduzione di M. Baldino)

7 ottobre 2016


Analizzare l’influenza di Heidegger sul pensiero di Hannah Arendt è uno sviluppo legittimo in Emmanuel Faye, il cui lavoro si inscrive nel quadro di un’impresa di lungo respiro, tesa a esibire la dipendenza del pensiero di Heidegger dal nazismo. Questa indagine viene ora virtualmente estesa a un insieme di filosofi che hanno subito l’influenza di Heidegger. Nel caso di Hannah Arendt l’interrogazione è tanto più giustificata in quanto questa, più di chiunque altro, ha contribuito ad accreditare la tesi dell’indipendenza del pensiero di Heidegger dal nazismo. Tesi che le permise di presentare se stessa, apertamente, come un pensiero nel solco di Heidegger, filosofo la cui personale adesione al nazismo le ripugnava, ma che lei ritenne essere separabile dal suo pensiero.

Ora, già in lavori precedenti Emmanuel Faye ha efficacemente contribuito a stabilire l’inseparabilità dell’opera di Heidegger dal suo nazismo personale. E in effetti non è né per accidente, né per ingenuità o errore o stupidità che egli divenne un vero e proprio militante nazista, riconosciuto come tale dai suoi compagni di partito. Il nazismo era senza dubbio l’ideologia politica più prossima ai suoi sentimenti. Ma ancor più grave è che Heidegger si sforzò di sviluppare un’opera che (a partire da Essere e tempo) era nata all’interno di uno spirito ultranazionalista, conformandola in modo crescente, ma sempre filosofico, agli ideali nazisti, ivi comprese le loro conseguenze pratiche (Führerprinzip, persecuzione, antisemitismo, sterminio del “nemico interno”). Questi fatti erano noti a Hannah Arendt, anche se, verosimilmente, ignorava il contenuto dei Quaderni Neri.

I Quaderni Neri, tuttavia, presentano un problema specifico che non mi pare sia ancora stato preso nella dovuta considerazione. Mentre era un militante nazista, che aspirava a diventare il Führer dell’Università tedesca, il tipo di nazismo di Heidegger non era del tutto conforme al nazismo hitleriano, da cui si distanziava su alcuni punti estremamente importanti. Heidegger non condivideva né il populismo, né il giovanilismo, né il positivismo scientista, né il biologismo, né lo storicismo, né l’imperialismo industriale, né l’ingegneria sociale di Hitler. Anche se ci sono stati tra i nazisti e tra i numerosi compagni delle strada del nazismo, personalità di alto rango (Rosenberg o Carl Schmitt per esempio) che provenivano da orizzonti culturali molto lontani da quelli di Hitler, il quale faceva volentieri uso della loro fiancheggiamento, purché non ritenessero di poter alterare il suo prestigio e la sua politica. In modo tale che non fosse questione di conferire la direzione giuridica del Reich all’ultrareazionario Schmitt o di conferire la direzione dell’Università tedesca a un filosofo che intendeva fondare il nazismo su altre basi, anche se poteva essere utile servirsene sul piano amministrativo.

La conseguenza del disaccordo intellettuale (più che pratico) tra il nazismo heideggeriano e il nazismo hitleriano, non fu un distacco progressivo e discreto, come ci si sarebbe potuti attendere da una personalità meno compresa del proprio genio, ma una radicalizzazione filosofica estrema, al punto di dar corpo a una dottrina che è difficile qualificare in altro modo che come “ultranazista”. Se ci è permesso l’uso di una comparazione, l’ultranazismo di Heidegger sta al nazismo hitleriano come la teoria della relatività sta alla fisica newtoniana. Si tratta di un generalizzazione rispetto alla quale il nazismo [hitleriano] non è che un caso particolare, transitorio e imperfetto, applicabile a un ristretto numero di fenomeni.

Ora, per giungere a questa universalizzazione mortifera, Heidegger, in ossequio al suo metodo iniziale e perseverato, procede al raddoppiamento linguistico (a una parola d’uso corrente viene assegnata un’accezione ontologica, opposta al suo significato ordinario), alla licenza poetica (alterazione grammaticale e introduzione di neologismi) e all’ellissi (ma non solo), in modo tale che tutte le sue proposizioni finiscono col reclamare un’interpretazione che si suppone si opponga ai referenti concreti che permetterebbero di illustrarle e comprenderle. La radicalizzazione del nazismo viene così a presentarsi come un oltrepassamento del nazismo, come un abbandono completo a vantaggio di un progetto più comprensivo, ma in procinto d’esser compreso in modo metaforico. Anche se l’ultranazismo richiede letteralmente un annientamento su scala più vasta, allargando il target delle leggi di Norimberga all’insieme delle culture e dei popoli “ebraizzati”, ciò lo rende libero di criticare il nazismo volgare e di proporsi come salvatore dell’umanità contro nemici i più vari.

E sono precisamente questi nemici a determinare l’allineamento definitivo, non solo di Hannah Arendt, ma di un gran numero di autori, talvolta importanti, i quali hanno, come tratto comune, quello di credersi progressisti perché si oppongono di volta in volta all’hitlerismo e allo stalinismo (raggruppati sotto il concetto di “totalitarismo”), ma anche al capitalismo e alla società industriale. Non si tratta solo di un heideggerismo di sinistra, antiliberale e antistalinista, desideroso di convincersi dell’esistenza di una profonda cesura tra Heidegger e il nazismo, il cui incontro fu sì riprovevole, ma del tutto occasionale. Si tratta anche e soprattutto di autori o di scuole che accettano molto imprudentemente di proseguire il progetto heideggeriano di demolizione delle garanzie della filosofia. In mancanza di un progetto serio, farla finita con la filosofia è diventato, alla svolta del XX secolo, uno slogan piuttosto banale. Dopo la morte di Dio e del Soggetto borghese, dell’universalismo, della giustizia di classe e dello Stato di diritto, non restava che farla finita con l’uomo e la ragione.

I filosofi aventi un minimo d’aspirazione alla radicalità, si convinsero numerosi che la scienza, con la filosofia, era il problema primario. Alcuni si impegnarono a cercare delle soluzioni capaci di preservare in un uno la scienza, la filosofia e l’uomo. Dopo la prima guerra mondiale, Wittgenstein propose di prendersi cura del linguaggio e di recuperare la logica. Husserl si sforzò di riconciliare le scienze e la conoscenza per mezzo della fenomenologia. Altri, e fu l’ambizione di Heidegger, si incaricarono di togliere di mezzo tutto, ivi comprese le scienze, la logica, la stessa filosofia, poiché la sua vocazione di saggezza conduceva sì a tutelare l’uomo, ma al solo scopo del radicamento. Un radicamento del Dasein locale e immediato contro l’uomo calcolante e globalizzato.

Hannah Arendt non è mai stata nazista e solo un piccolo gruppo di discepoli di Heidegger lo fu. Non si tratta dunque di rivelare qualcosa come un criptonazismo arendtiano, contrariamente a ciò che una stampa sensazionalista amerebbe far credere. Il nazismo era nato ben prima che Heidegger vi aderisse e non è con il nazismo che Hannah Arendt ha cercato di riconciliarsi. È uno dei molti meriti di Emmanuel Faye quello di aver mostrato che prendendo in considerazione le categorie introdotte da Heidegger per la soluzione dei mali dell’umanità: la comunità organica, il rifiuto della modernità e della macchina, la ricerca elitaria del radicamento, essa ha confuso il rimedio con il male, senza saperlo e non unicamente per delle ragioni personali. Essa ha veicolato e contribuito a diffondere ideali antiumanisti che appartengono ad ogni filosofia meritevole di essere combattuta per tale motivo. E non sono sicuro che Faye abbia completamente identificato — almeno non l’ha fatto espressamente in questo libro — il male che ci sta sotto e le sue metastasi, un male che ogni volta che si manifesta ha per effetto immediato di rescindere il legame tra l’uomo e la sua umanità: il nazionalismo. Nel concetto di Uomo non può esserci Francese e Tedesco. Per il concetto di Uomo non ci sono né neri d’Africa, né Prussiani, né ebrei di Prussia o di Polonia. Ci sono degli uomini a cui è data la facoltà di acculturarsi attraverso la filosofia e in molti altri modi, non isolati e, allo stesso tempo, mai identici, mai leggendo gli stessi libri e che non acquisiscono le loro radici se non muovendosi da una fonte all’altra.

Il nazionalismo non è un male che avrebbe colpito il solo nazismo, che non sarebbe stato possibile senza di lui, anche se il nazismo lo ha trasformato in una malattia ancor più mortale di quella con cui la prima guerra mondiale aveva insanguinato l’Europa e ancor più straordinariamente determinato. Il nazionalismo è un agente patogeno presente in quasi tutte le scuole di pensiero, che ha acquisito, sotto diverse denominazioni (identità, autenticità, radicamento), immunità e indulgenza, nonostante i danni giganteschi che non ha cessato e ancora non cessa di provocare. Sia Heidegger, sia Arendt hanno cercato di individuare quale fosse il veleno del mondo moderno. Heidegger l’ha scoperto e s’è fatto subito avvelenatore, Arendt ha inghiottito il veleno nella vana speranza di non ripetere gli errori del maestro. Incombe al pensiero di ritrovare la saggezza e attraverso di essa descrive in modo completo il complesso genoma che l’ha portata a perdere la ragione.


Jean-Louis Vullierme (1955) è filosofo del diritto e professore alla Sorbona. Tra le sue opere recenti segnaliamo, Miroir de l’occident: Le Nazisme et la civilisation occidentale, Les éditions du Toucan, Paris 2014.







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