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2012


Philosophical culture quarterly


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Sul rappresentazionale
A cura di Jacopo Valli




Collocazione rappresentazionale dell’opera d’arte
di Jacopo Valli


Sono necessarie contestualizzazione e ricostruzione storica in funzione della comprensione di un’opera o di un autore?
Certamente, possono essere importanti o tornare utili, per ragioni eminentemente cronicistiche, o afferibili a eventuali intenzionalità “autoriali”; tuttavia, la questione storica ed il contesto particolare sfumano, se e quando la questione si fa ontologica e fenomenologica.
Le opere sono altro rispetto ai loro autori, che non sono autori, ma mediatori della materia che sono attraverso la materia che sono, che È. E può inoltre darsi che un “autore” sia mosso da intenzionalità in-attuali, da desiderio estetico secessionista rispetto non tanto al suo tempo (suo? Di chi? Quale?), ma al tempo Kronos stesso: questo è di colui che Zolla chiamava il Classico: colui che è mosso da odio del tempo.
È una questione proiettiva, e così, in arte — semmai l’arte fosse una cosa — non v’è evoluzione, vettorialità cronologica, ma trasformazione: ancorché specialmente le avanguardie credano e vogliano il contrario [ma le amate avanguardie si fottono in partenza, se tendono alla ri-costruzione: se distruggere è già anche costruire, perché ri-costruire? La programmaticità, la tensione ideale castra e reinnesta in una rappresentazione limitante, in una forma chiusa. E se con Adorno non v’è cultura che non sia critica, e critica anche verso se stessa; e se con Malraux l’arte attiene al regno della trasformazione della forma e non a quello della sua eternizzazione; e se pure, stando a Lyotard, il Postmoderno non è il Moderno alla sua fine, ma il Moderno al suo inizio — mi viene da dire —, nella sua presenza trasformatrice, distruttrice del preteso immutabile ed ideale; allora, al di là del godimento estetico individuale, che non ha restrizioni, ritengo massimamente interessanti le avanguardie nel loro momento distruttore, negativo — oserei dire genuinamente avanguardistico —, che nondualisticamente ed antidialetticamente intenderei già anche positivo].

Proiettiva è anche ogni visione della Storia come avente una ragion d’essere fondata all’origine (posizione teontologica), o come risultato (posizione nondimeno teologica).
E le storie? Esse stanno nella misura delle prospettive e dell’erranza — nei due sensi del verbo errare — del ricordo; erranza che testimonia l’impossibilità, direi ontologico-neurofisiologica, di portare a termine anche una semplice pretesa biografica o autobiografica; impossibilità che è anche dei ritratti, dopo Matisse; impossibilità che, riconosciuta, apre la strada alla borgesiana sincerità della finzione, che non si prende per verità essendo appunto vera finzione, gioco e giocherellante anamorfosi.

La natura? La vita? Ancora proiezioni.

Rimane ora la questione materiale: il problema dello spazio e delle attese (penso a Fontana) viene da me sovente considerato in termini nonduali. Pensare ad un lavoro sullo spaziotempo come liberazione della materia da se medesima, è inganno manifesto.
Lo spirito, l’idea [che non può darsi in sé], hanno una loro materialità, non scissa dalla materia che È. Lo spazio come l’Essere stesso e l’Attesa, nella loro/sua materialità, come presenza dell’assenza — per dirla con Guattari — che si soddisfa da sé, blanchottianamente, sono la materialità stessa, liberata dal giogo formale trasferitole dall’alto, per finzione volontaristico-rappresentativa ideale.
Non v’è, né può esservi, ontologicamente, una cadaverica staticità: semmai è defunta la staticità come cadaverica [gli dèi nascono dalla separazione dualistica, fallace, delle forze, che parimenti in sé non esistono, dalla materia, per dirla con Artaud].

Ora, se vita, natura, tempo, spazio e uomo non si danno in sé?

Interessante circa il rapporto materia/autore/opera è il resoconto che dà il compositore Franco Donatoni in Antecedente X, dove l’Antecedente non è che accidentale e l’opera non è mai davvero opera e non si dà che in modo incompiuto [o — direi — compiuto nella incompiutezza ad essa immanente e con essa coincidente: incompiutezza che è la stessa potenza in atto del Molteplice che È. Donatoni usa il termine “Dono” al posto di “Opera”: io sospetto in lui un uso batailliano, o, meglio ancora, blanchottiano del termine; tuttavia, preferisco evitare tale termine per le sue implicazioni immaginali cronologiche e gerarchiche. E mi differenzio da Donatoni anche in una valutazione del razionalismo che si insedia là dove lui indica ciò che rimane superate le pretese iper-razionalistiche (questo è secondo me un residuale fallo dualistico, cartesiano — anche —, pure per ciò che implica il problema dell’intuizione, e, quindi, dell’Altro, rispetto al quale concordo con l’Adorno della Metacritica della teoria della conoscenza: eppure, un riferimento esplicito di Donatoni è Baudrillard, il quale sentenzia che Chaos e ragione non sono invero diametralmente contrapposti)].

Finalmente: contrariamente a Croce, ritengo che l’arte non necessariamente sia simbolica, poiché, nondualisticamente, ritengo possa darsi anche un’arte che sia Essere rappresentante se medesimo, e, quindi, sim-bolo di sé: ma attraverso sé prodotto: quindi, immagine, o immagine di immagine, o icona senza immagine ovvero icona di sé senza Altro e senza fondo che non sia già “lì” presente in uso presso il suo stesso usarsi che è l’Essere stesso che È.
Ancora: non credo che l’opera d’arte sia fatta per essere vista, né che tale debba necessariamente essere: semmai, essa sta nel vedere, ma/e non è che debba essere vista, né vista da questi o da questi altri, né che debba — in definitiva — qualcosa. E se per noi non esiste che ciò che osserviamo, è anche vero che ciò non significa che non esistano altre cose: se uno crepa, finisce lui, finisce il suo mondo, e finisce anche il mondo come fine senza fine che è l’Essere che È: ma nulla finisce nel Nulla, che non può darsi; e non è che prima della mia fine non finissero cose che io non avevo visto e che peraltro erano con me extra-modalmente coincidenti. E questa parzialità è infinita, è il Tutto: non v’è un vero e proprio Resto, e nemmeno persiste la sua mancanza, la presenza di quell’assenza di Resto.


František Kupka, Amorpha - Chromatique chaude, 1911-12


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