Kasparhauser





Rivista di cultura filosofica

2012


Home


Ricerche


Culture Desk


Ateliers


Chi siamo


Info



La voluttà dell’incoerenza
di Marco Baldino


6 novembre 2012


Non credo che il giudizio secondo cui la filosofia contemporanea si autoconfuti, possa essere rovesciato come un bussolotto a dadi, tirando fuori un bel dodici. Il fatto che si autoconfuti rende la filosofia ineffettuale, questa è una tesi che ho espresso nel libro (Margini e paraggi. La filosofia dell’ultimo Novcento, Aracne 2012) e il problema dell’effettualità della filosofia è un problema enorme. Così non esiste un filosofare svincolato dall’istituzione. La filosofia non è l’esercizio della libertà, o della libera contemplazione, di contro alla Polis, ma il modo specifico di organizzare l’uso della mente in relazione a un certo organizzarsi della memoria intorno a nuclei logici, in funzione di un certo modo di organizzarsi della convivenza intorno a nuclei giuridici. La filosofia è il potere di tutto ciò, anzi lo era, non lo è più, e questo è ciò che fa problema: la sua ineffettualità — e questa è un’altra tesi del mio libro.

Di qui il passaggio alla letteratura, verso la letteratura. Non credo di doverlo dimostrare, vale la produzione continentale degli ultimi quattro decenni del XX secolo, e molta produzione di confine: Artaud, Bataille, Blanchot, Artaud, Genet, che si estende alla prima metà di quel secolo — qualcuno dice che si tratta di una deriva tutta francese, eppure possono essere citati esempi clamorosi anche tra i tedeschi: Trakl, Benn, Mann, Broch, Musil, Rilke, Kafka, George, … se poi i casi clinici di Freud non sono essi stessi delle opere letterarie sic et simpliciter. Questa fuga fa della filosofia un testo meraviglioso, intendiamoci, incantato e incantatorio. Ora sì, la filosofia è un libero contemplare, un intrattenimento come ce ne sono pochi, capace di affascinare fino ad attrarre vite in proporzione fantastica, ma al prezzo di non contare più nulla o, almeno, di contare sempre meno. La sua incoerenza ne fa un libero gioco, ma la Polis evolve in tutt’altra direzione. Quello specifico uso della memoria che ha contribuito a fare del paradigma storico-politico-filosofico la civiltà occidentale, liberato dal vincolo della verità si trasforma in un’arma partigiana; il vivere associato, con tutto ciò che in esso concorre, liberato dal vincolo della verità si organizza intorno a puri criteri aziendali: efficienza, efficacia, che oggi vengono chiamati “principi di qualità”. La qualità non risiede più nel modo in cui le forme del sapere e dell’agire sono capaci di corrispondere a una certa cura della verità, ma nell’efficienza pro-duttiva e nell’efficacia della mercatura — e questa è un’altra tesi del libro.

La distruzione dell’oggetto del pensiero a tutto vantaggio del pensare come ‘processo’ è cosa hegeliana. Chi ha visto in Sade la scaturigine misconosciuta di questo processo, resa in traslato nella distruzione dell’oggetto di piacere mentre se ne gode, lo ha potuto fare solo sulla base di Hegel. I vari Bataille, Caillois, Blanchot, Klossowski (credo non sia un caso se questi autori sono insieme filosofi, narratori, critici letterari, brillanti saggisti, pittori, erotomani, gran maestri di società segrete, fascisti, comunisti, aristocratici, democratici, tutto quanto) non sarebbero nulla senza il confronto con Hegel. Nietzsche stesso, è pensato da questi autori non come un campione dell’antihegelismo, ma come qualcosa che non può essere compreso se non nella scia della critica alla fede iniziata da Hegel. La stessa questione dell’irrazionalismo, nell’ottica in cui ne parla per esempio Deleuze, è declinabile solo a partire da Hegel, in questo senso: il pensare ‘filosofico’ è razionale proprio nella misura in cui distrugge l’oggetto del pensiero e lo trasforma in qualcosa di pensato, cioè di totalmente altro da ciò che era prima di incappare nell’ansia distruttrice del desiderio (ansia e angoscia del dire, del significare, anzitutto), da ciò che era quand’era ancora presso di sé, separato e impensato, e quindi trasformato in qualcosa di dispiegato, di aperto, di penetrabile e di penetrato da quell’ansia di dire che noi siamo.

E quando, per esempio Deleuze, nega la possibilità della metafora in filosofia e sostiene che la filosofia è l’attività che crea i concetti, smentisce se stesso, perché irrazionale è anzitutto la polisemia della metafora, la sua poliedricità sfuggente e inafferrabile, la sua disponibilità a significare contemporaneamente cose che si smentiscono a vicenda. Forse la filosofia del tardo Novecento è incappata proprio in questo enigma: per nominare l’impensato bisogna consegnarsi all’incoerenza della mito, della favola, all’afasia del mistico… Ricordo che da qualche parte (Disiecta, mi pare), Samuel Beckett scriveva: c’è qualche motivo per cui la materialità della superficie verbale non debba dissolversi, cosicché, per intere pagine, non si possa percepire altro che suoni sospesi a grandi altezze e capaci di collegare impenetrabili abissi di silenzio?

Non so se Deleuze citi questa frase nel suo libro su Beckett, certo è che questo segmento gli si attaglia pienamente: un tale dissolversi della materia verbale sembrerebbe implicare l’esistenza di tale materia, il che significherebbe poi che deve esserci qualcosa, una frase o un testo, che non si esaurisce mai, che è il presupposto stesso, il puro e semplice presupposto di ogni dire, l’impensato da cui rampolla ogni pensare, e questo impensato è la letteratura. È di qui che nascono testi pieni di silenzio, abissali, meravigliosi, ma anche incapaci di svolgere una qualsiasi funzione diversa da quella della letteratura: autoconfutarsi.

Si può non essere d’accordo con me su Deleuze, ma voglio precisare l’osservazione. Deleuze respinge la metafora, non respinge l’irrazionale, sebbene l’irrazionale sia proprio della metafora. Proprio di Deleuze è invece l’accogliere l’irrazionale come il presupposto stesso del pensiero: si pensa in quanto si abbandona il campo coltivato della cultura, del razionalizzato si potrebbe dire, o anche la letteratura come deposito di “metafore morte” (Ricoeur) o dei sensi figurati, per gettarsi in un’avventura creativa senza pre-disposzioni. Ora, la letteratura, intesa questa volta come forza specificamente capace di produrre “metafore vive” (Ricoeur), come forza creatrice, fa la stessa cosa: rompe gli schemi delle associazioni consolidate e si dà alla creazione di traslazioni inedite, inaudite perfino. Sicché mi stupisco: se la letteratura fa lo stesso che il pensiero filosofico, se entrambi, per dispiegare ciò che è loro proprio, debbono spezzare la crosta del razionalizzato, in che senso l’irrazionale di Deleuze non sarà letteratura? E in che senso il pensare in Deleuze non sarà ancora un “razionalizzare”? E, di più, in che senso il pensiero di Hegel non farebbe lo stesso, non praticherebbe cioè la rottura del figurato per creare nuovi concetti e, con questi, nuove possibilità di vita (che è una bella immagine formato D&G)? L’irrazionale è il cuore del metodo hegeliano (non del sistema, si intende) e se Hegel ha tentato di ricomprendere l’irrazionale nel discorso coerente, di superare il dolore del desiderio inappagato e inappagabile (la cosiddetta coscienza infelice) ricomprendendolo nel discorso coerente e, da ultimo, nella quiete del sapere assoluto, lo stesso non si può dire di Deleuze. Oppure sì? Perché il discorso coerente è il Logos. Per cui le cose sono due: o Deleuze fa lo stesso che Hegel — non importa quanto poi se ne distanzi, quanto oltre affondi il vomere, e in che direzione — oppure fa un’altra cosa, tutt’altra cosa, e allora altra cosa pure è rispetto al discorso coerente, al Logos.

Nel mio libro sostengo che c’è un modo di fare filosofia (il cosiddetto “tardo Novecento”) che si concede alla voluttà dell’incoerenza e dell’irrazionale o, in altri termini, alla voluttà della letteratura. E a nulla, credo, vale qui l’appello alla cosiddetta pedagogia dei sensi come nuovo, unico, vero e liberatorio approccio alla dimensione etica, a nulla perché ciò significherebbe nient’altro che fondare l’etica sull’estetica: un bel Platone rovesciato, laddove s’era invece appreso che, “rovesciare”, tutto significa tranne che prendere veramente congedo. Laddove, nella lotta tra poeti e filosofi per il controllo della Paideia, la filosofia dell’ultimo Novecento tenta di riconferire all’estetica il controllo dell’educazione e, mutatis mutandis, della politica (fantasia al potere), incontriamo qualcosa di molto peggio che un esser semplicemente incapaci di svolgere una qualsiasi funzione, diversa da quella della letteratura, incontriamo un (involontario, questo lo concedo) fornire all’approccio Schutzstaffel, che è un’estetica fondamentale e radicale, materia sufficiente per sopravvivere alle grandi distruzioni del XX secolo e riapparire, dissimulato, dentro il nostro modo medio di condurre l’esistenza: piena disponibilità delle pluralità trasversali di individui (telespettatori, utenti, studenti, credenti, aderenti, militanti, clienti, …), di intere popolazioni, alla libera, creativa, geniale, incondizionata attività di trasformazione plastica.



Markus Lüpertz, Chemnitzer Melange, 2009.



Home » Libri » Baldino/Margini e paraggi

© 2012 kasparhauser.net