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Alle origini del problema dell’empatia
Etty Hillesum, Simone Weil, Edith Stein, Wanda Póltawska: viaggio tra psichiatria e filosofia del primo Novecento
di Giulia Rioli

26 gennaio 2015


Introduzione

La medicina, e la psichiatria in modo particolare, realizzano nel contesto del colloquio clinico un incontro con l’altro. In tale contesto, come teorizzato da Borgna e Gadamer, riveste un ruolo centrale l’arte della comprensione, o ermeneutica, che «ha a che fare con ciò che è indecifrabile e con la comprensione di quanto è imprevedibile nel bilancio della vita psichica e interiore dell’uomo» [1]. Essenziale per il verificarsi della comprensione dell’altro, anche e soprattutto quando «il dialogo pare vietato» e il paziente stesso offre una «forte resistenza» alle cure, «espressione del tentativo di proteggersi compiuto dal suo inconscio», [2] come sovente accade in caso di malattie mentali, è l’educazione all’empatia, strumento clinico da apprendere ed esercitare meticolosamente che sigilla il senso «di ogni medicina e di ogni psichiatria che non si vogliano svuotare dei propri orizzonti di significato». [3]

In origine, l’empatia (dal greco: en dentro e pathos sentimento) era il legame di partecipazione emotiva che univa l’aedo con il proprio pubblico. Da questa suggestiva denotazione è sgorgato un significato più ampio del termine, ampliamente diffusosi in discipline quali l’estetica, la psicologia e la psichiatria, indicante la capacità di immedesimazione nello stato d'animo altrui e di comprensione dello stesso. Meglio ancora, è empatia anzitutto la capacità di riconoscere nell’altro un altro.
Concettualizzato in un contesto filosofico, quale oggetto della tesi di laurea di una giovanissima Edith Stein, la tematica dell’empatia riempie di sé, più o meno consapevolmente, gran parte delle riflessioni di tre altre donne (tutte di origine ebraica) del primo Novecento: Etty Hillesum, Wanda Póltawska e Simone Weil. Pur non conoscendosi, queste quattro figure femminili, tutte vissute all’epoca del dramma dell’Europa nazista e da essa profondamente segnate, hanno in comune così rare doti di umanità, cultura e una profonda passione per la ricerca della verità a partire dalla messa in discussione di se stesse tali da suscitare ancora oggi, ad un secolo esatto di distanza dalla nascita della Hillesum, ammirazione e interesse.
Il presente contributo vuole essere un piccolo itinerario sul problema dell’empatia articolato in quattro tempi per ciascuna delle quattro donne sopra citate.


I. Etty Hillesum. Dalla capacità di “riposare su se stessi” all’empatia come “altruismo radicale”

«Io riposo in me stessa» [4]

La prima figura che incontriamo è quella di Etty Hillesum (Middelburg, 15 gennaio 1914 — Auschwitz, 30 novembre 1943), giovane olandese di origine ebraica — figlia di Louis Hillesum, introverso e rigoroso insegnante di latino e greco, e di Riva (Rebecca), donna russa emigrata in Olanda dal «carattere difficile e venato di follia», [5] sorella di Mischa e Jaap, adolescenti dal temperamento vivace e geniale (diventeranno il primo pianista di successo, il secondo, scopritore di una nuova vitamina a soli diciassette anni, medico) — quale la conosciamo dalle pagine del suo Diario (8 marzo 1941 ?12 ottobre 1942). [6] L’inizio della scrittura coincide con la data dell’incontro con Julius Spier, ebreo tedesco, na to a Francoforte il 25 aprile 1887, fuggito in Olanda per scampare alle persecuzioni naziste, psicochirologo di formazione Junghiana e da molti definito «una personalità magica» [7] in virtù del suo innegabile carisma. In preda ad «una grandissima irrequietezza mista a ansia di ricerca», [8] ad una «paura indefinita», [9] in balia di un caos interiore che la rende «come prigioniera di un gomitolo aggrovigliato», [10] contratta in se stessa e succube di una soggettività infinita, tormentata dall’incapacità di stabilire relazioni durature e significative con gli altri, che per paura di perdere tenta di costringere in una dinamica di possessione («con quella paura che nella vita ti sfugga qualcosa finisci per perdere tutto, per mancare la realtà», annota il 21 novembre 1941 [11]), Etty intraprende un cammino di autoanalisi che la porterà ad una vera e propria metànoia, ad una trasformazione che prende le mosse dall’interno. Ella comprende che non è né nel possesso di un uomo («Non si può certo riversare tutto il proprio amore su una persona sola», scrive il 9 ottobre 1942 [12]) né nel possesso dell’Assoluto che può trovare quell’equilibrio e quell’armonia necessari per relazionarsi con l’esterno, né nella trappola di uno sterile egoismo, ma nell’incontro autentico ed essenziale con se stessa. E’ così che potrà “approdare” ad una delle più importanti “mete” del suo “viaggio” interiore: «Riposare in se stessi». [13]

Solo nella riscoperta della sorgente inesauribile che è in sé, della «corrente senza fine» [14] del suo essere, in quello che è stato definito un processo di «Individuazione», [15] di delineazione dei propri confini, ella trova la stabilità necessaria per vedere con oggettività e aprirsi alla vita, agli altri e al mondo, sentendosi finalmente a casa in esso: «Era proprio come se la vita mi apparisse altrettanto chiara e trasparente nei suoi mille dettagli, nelle sue svolte e nei suoi movimenti. Come se avessi davanti un oceano e ne potessi distinguere il fondo». [16]

Personalmente, trovo questa ricerca dei propri confini estremamente attuale in un duplice senso. In primo luogo, nella odierna “modernità liquida” [17] in cui le categorie tradizionali (casa, famiglia, società) sono stravolte, e diviene perciò sempre più difficile conoscere e ri-conoscere se stessi attraverso l’incontro con l’altro, essendo le relazioni sempre più fluide, incostanti, rapidamente composte e decomposte, spetta sempre più al singolo avviare l’inevitabile processo di autoconoscenza. Come Etty, soprattutto a causa del complesso rapporto con l’instabile figura materna, non aveva potuto realizzare compiutamente, sino all’incontro con Spier, i processi di conoscenza di sé e di definizione dei propri confini, così anche oggi tanti giovani, senza solide figure di riferimento e con famiglie sempre più disgregate o disattente, non hanno la possibilità di “individuarsi”, cioè di essere educati alla conoscenza profonda di se stessi, dei propri limiti, dei propri confini. Da neo-medico, auspico che queste lacune possano essere a breve colmate da nuovi studi e da un nuovo interesse per quella branca, a confine tra la Neuropsichiatria Infantile, e la Psichiatria, che è la Psichiatria dell’Adolescenza. Etimologicamente l’adulescens, da ad-alere, è colui che si sta nutrendo (mentre l’adulto, participio passato della stessa radice, è colui che è già stato nutrito), cioè che è in fase di formazione e di maturazione della propria personalità: si tratta di una fase della vita così complessa e delicata tale da meritare specialisti formati ad hoc circa i disturbi che in essa si possono verificare, disturbi che, in una società fluida, idolatra del lavoro, mossa dalla fretta e incapace di ascolto, tenderanno sempre più ad aumentare.

In seconda istanza, il lavoro personale di Etty per l’individuazione dei propri confini ben si inserisce, a mio avviso, nel filone di approfondimento di tanta psicopatologia sulla categoria del “limite”, [18] del confine, cioè di quella linea di demarcazione che separa l’Io da tutto ciò che Io non è e che, proprio per questo, lo definisce, togliendolo dal nulla. Quando questi confini mancano l’Io non si riconosce, è perso, e necessita di ri-donare esistenza alla propria differenza, lavoro spesso lungo e faticoso svolto con l’accompagnamento di un terapeuta. Solo riconoscendo i propri confini, inoltre, l’individuo può fare di essi delle frontiere, cioè degli spazi di apertura all’altro, perché il limite è là dove qualcosa finisce, ma è anche là dove qualcosa inizia.

Attraverso l’«Hineinhorchen», [19] l’“Ascoltar-dentro”, la Hillesum si educa a riconoscere e sradicare «le tante piccole schegge del proprio Io che tagliano la strada» [20] e trova così i confini, i contorni di quella parte più profonda di sé in cui l’angoscia si quieta. Etty, in altri termini, individua dentro di sé la radice di quel Tutto che tanto si era affannata a cercare e voler possedere (e quanto è forte, in questo, l’assonanza con l’«in te ipsum redi» [21] di agostiniana memoria), comprendendo di avere un cuore capace di comprendere tutto ciò che all’esterno: «Ho un cuore molto appassionato, ma mai per una persona sola: per tutte le persone», scrive di sé il 21 ottobre 1941. [22]

Come scrive Piercarlo Necchi, «all’estremo dello sprofondamento in sé corrisponde l’estremo dell’apertura e del sentimento dell’altro, del Tutto», in un’«interiorità allargata» che ha ora la lucidità di cogliere le cose e le persone per come sono, nella loro «nuda realtà». [23] «Ora che non voglio più possedere nulla e che sono libera, ora possiedo tutto e la mia ricchezza interiore è immensa», annota la Hillesum nel Diario il 15 marzo 1942. [24] La giovane ebrea scopre così che una relazione prevede una presa continua di distanza per poter comprendere nel modo più autentico possibile la condizione dell’altro. Da questa visione della relazione nasce il primato dell’ascolto, della passività o “resistenza passiva”, come è stata definita, di Etty: essa è da intendersi come ascolto e piena immersione nella realtà, condizione necessaria per essere presente ad essa, per com-prenderla in modo oggettivo, in una parola per incontrarla. Sulla scorta di questa nuova consapevolezza nasceranno il desiderio e la forza di aprirsi all’umanità nel pensiero e nell’azione (sempre un tutt’uno, nell’autentica onestà di Etty), culminata nella scelta di servizio come impiegata del Consiglio Ebraico nell’ospedale del campo di smistamento (Durchgangslager) di Westerbork (da cui invia, tra il 14 agosto 1942 e il 7 settembre 1943, il corpo di Lettere [25]) dove l’ormai matura capacità di empatia la renderà incapace di sottrarsi al destino del popolo ebraico e farà di lei «il cuore pensante della baracca». [26] «Mi piace aver contatto con le persone» — annota nel suo Diario la Hillesum il 4 ottobre 1942 [27] — «Mi sembra che la mia intensa partecipazione porti alla luce la loro parte migliore e più profonda, le persone si aprono davanti a me, ognuna è come una storia, raccontatami dalla vita stessa. E i miei occhi incantati non hanno che da leggere». Scrive in riferimento a questi anni J.G. Garlaandt nell’Introduzione al Diario dell’edizione da lui curata: (Etty) «era convinta che l'unico modo di rendere giustizia alla vita fosse quello di non abbandonare degli esseri in pericolo, e di usare la propria forza per portare la luce nella vita altrui. I sopravvissuti del campo hanno confermato che Etty fu fino all'ultimo una personalità “luminosa”». [28] Fatta prigioniera, da Westerbork ella stessa partirà su un convoglio di deportati per Auschwitz sapendo di avere, come unica destinazione, la morte. «Abbiamo lasciato il campo cantando», [29] si legge su una cartolina per l’amica Christine Van Nooten lanciata dal treno del suo ultimo viaggio.


II. Simone Weil. L’empatia nasce dall’attenzione

«L’educazione all’attenzione è la cosa più importante» [30]

«Nella prima leggenda del Graal si dice che il Graal, pietra miracolosa che grazie alla virtù dell’ostia consacrata sazia ogni fame, apparterrà a colui che per primo domanderà al custode della pietra, il re per tre quarti paralizzato dalla più dolorosa delle ferite: “Qual è il tuo tormento?”. La pienezza dell’amore del prossimo è semplicemente la capacità di domandargli: “Qual è il tuo tormento?”. È sapere che lo sventurato esiste non come elemento di un insieme, non come esemplare della categoria sociale che porta l’etichetta di “sventurati”, ma in quanto uomo, esattamente tale e quale noi, un uomo che un giorno è stato colpito dalla sventura con un marchio inimitabile. Per questo motivo saper posare su di lui un certo sguardo è sufficiente, ma anche indispensabile». [31]

Così scriveva nella raccolta di scritti “Attesa di Dio”, [32] composti tra l’autunno del 1941 e la primavera del 1942, Simone Adolphine Weil (Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943), scrittrice, filosofa e mistica francese, figlia di un medico di origini ebraiche, vicina al pensiero anarchico e all'eterodossia marxista, poi rimasta affascinata dall’esperienza cristiana. Nel contesto della sua riflessione politico-filosofica, mossa da un radicale desiderio di vicinanza alle masse, specialmente alle masse operaie, di cui condividerà volontariamente la condizione negli otto mesi di lavoro nelle aziende metallurgiche parigine, la Weil, annoverata da molti tra i “cuori pensanti” del Novecento, approfondisce la tematica umanistica della relazione con l’altro.

Criterio e prerequisito per la relazione è, per la Weil, «la forma più rara e più pura della generosità», [33] ovverosia l’attenzione. Il termine attenzione (che ha la stessa radice di attesa, attente in francese, una delle parole più ricorrenti nel lessico della scrittrice) deriva dal verbo latino ad-tendere, cioè “tendere verso”, “rivolgere l’animo a” una persona, una cosa, una situazione. Nell’origine etimologica, pertanto, l’attenzione ha una connotazione fortemente dinamica, di movimento, richiedendo una concentrazione e una focalizzazione delle energie fisiche e mentali del soggetto verso un oggetto esterno. L’esercizio di questa facoltà, subordinato ad un atto libero della volontà, muove anzitutto dal desiderio di comprendere la realtà nella sua verità, desiderio che richiede uno sforzo, un moto, un’uscita da sé.

«In questo mondo gli sventurati non hanno bisogno di altro che di uomini capaci di rivolgere loro la propria attenzione. Tale capacità di prestare attenzione a uno sventurato è una cosa molto rara, molto difficile; è quasi un miracolo; è un miracolo. Quasi tutti coloro che pensano di possederla non ce l’hanno. Il calore, lo slancio del cuore, la pietà non sono sufficienti». [34] Già da queste proposizioni traspare come l’attenzione (che tanto ha a che fare con l’empatia, e ne è uno dei prerequisiti, come le teorizzazioni di Edith Stein, esaminate nel capitolo successivo, mostrano) non abbia a che fare con una buona disposizione caratteriale: merito della Weil è anzitutto, a mio parere, quello di introdurre la possibilità di un’«educazione dell’attenzione», [35] risultato di uno sforzo («forse il più grande degli sforzi» [36]) mosso dalla volontà ma addestramento possibile per tutti coloro che desiderino ad essa formarsi.

Nelle dense pagine di riflessione sull’educazione (la tematica dell’educazione sarà sempre cara alla Weil, che concepiva gli studi scolastici «come uno di quei campi in cui è racchiusa una perla» [37]), la filosofa francese fornisce, proprio con esempi concreti attinti dal mondo della scuola, che cosa intenda per attenzione e come essa si possa esercitare. «Molto spesso si confonde l’attenzione con una specie di sforzo muscolare. Se si dice agli allievi: “E ora fate attenzione”, ecco che aggrottano le sopracciglia, trattengono il respiro, contraggono i muscoli. Se dopo due minuti si domanda loro a che cosa stanno facendo attenzione, non sanno rispondere: non hanno fatto attenzione a nulla, non hanno fatto attenzione; hanno solo contratto i muscoli». [38] Viceversa, «l’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in se stessi, così come si inspira e si espira»; [39] essa «consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto. (…) Il pensiero deve essere vuoto, in attesa, non deve cercare alcunché, ma essere pronto ad accogliere nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi». [40]

Prerequisito per l’autentica comprensione della realtà per come essa è, cioè della realtà nella sua verità, diventa, quindi, la capacità di svuotarsi dell’Io, spogliandosi di esso, affinché sia possibile calarsi nell’oggetto, pena l’esperienza non della realtà dell’oggetto ma dell’immaginazione che di esso il soggetto si fa. L’indagine della Weil si addentra quindi anche nel piano della percezione, nodo fondamentale della filosofia occidentale moderna, da Cartesio, a Kant, agli Idealisti: l’errore nel processo conoscitivo, secondo la pensatrice francese, si realizza allorquando si vuole colmare un vuoto, non accettando l’alterità del mondo in sé, per come si pone. «La condizione (per discernere il reale dall’illusorio, ndr) è che l’attenzione sia uno sguardo e non un attaccamento. L’attaccamento fabbrica illusioni, e chiunque vuole il reale deve essere distaccato.» [41] Tali considerazioni riecheggiano da vicino, seppur nella diversità di formazione (la Hillesum non aveva neanche lontanamente potuto attingere a quel patrimonio di conoscenze culturali in cui la Weil era immersa) le pagine di diario di Etty Hillesum sull’esigenza di distacco, di liberazione dall’idea di possesso nell’approccio con gli altri e con il mondo.

In conclusione, pur utilizzando un’espressione che la Weil non usò mai ma che presumibilmente avrebbe potuto condividere, la relazione empatica presuppone evidentemente capacità di ritrarsi e fiducia in ciò che è offerto, accettazione del vuoto («il vuoto è la suprema pienezza» [42]) e fedeltà alla realtà dell’altro per come essa si presenta.


III. Edith Stein. “Il problema dell’empatia”

«…un amico viene da me e mi dice di aver perduto un fratello ed io mi rendo conto del suo dolore. Che cos’è questo rendersi conto?» [43]

Ebrea convertita al cattolicesimo, di una «vivacità mercuriale, sempre in movimento, traboccante d’idee bizzarre, impertinente e saccente, invincibilmente ostinata» sin dall’infanzia (scrive di sé nell’autobiografico Storia di una famiglia ebrea [44]), Edith Stein (Breslavia, 12 ottobre 1891 – Auschwitz, 9 agosto 1942) discute nel 1916 a Gottinga la tesi in filosofia dal titolo Zum problem der Einfuhlung, “Il problema dell’empatia”. [45] Stanca, sola, e provata dallo studio, nel semestre invernale 1913-1914 la giovane Edith aveva attraversato un momento di profonda inquietudine e di crisi interiore: «Mi addentravo sempre più in uno stato di vera disperazione (…), non potevo più attraversare la strada senza augurarmi che un’automobile mi schiacciasse (...), quando me ne andavo a fare una passeggiata avevo la segreta speranza di incorrere in una caduta e di non tornare viva», [46] scriveva di sé in riferimento a quegli anni. Con lo scoppio del Primo Conflitto Mondiale, la crisi per Edith si risolve sospendendo la propria vita per mettersi in ascolto e a servizio di quella degli altri: terminati gli esami, prende servizio come infermiera ausiliare volontaria presso la Croce Rossa nel lazzaretto di Mhrisch-Weisskirchen. Non è quindi casuale che, di ritorno nelle aule universitarie, il suo interesse filosofico in vista della laurea (3 agosto 1916) si concentri su un tema di cui ella stessa, poco prima aveva fatto esperienza, venendone segnata e “guarita” profondamente. Già questa commistione di vita e professione, di studio e lavoro, alla ricerca di colmare la propria insofferenza, fa di Edith una figura quanto mai credibile: apprezzo e sento a me affine la sua ricerca di un’unità profonda, di una coerenza interiore ed esteriore, nella dimensione privata come in una quella pubblica, nella sfera professionale e intellettuale, come in quella religiosa.

Da un punto di vista strettamente etimologico, nella lingua tedesca dal verbo fühlen (simile all’inglese to feel) si specifica il verbo ein-fühlen (“sentire in”, “sentire dentro”, cioè sentire in senso emotivo, psichico), il cui sostantivo corrispondente è appunto Einfühlung, inizialmente tradotto in italiano come entropatia, e successivamente reso con il termine empatia (“sentire dentro l’altro”). [47] L’antropologia fenomenologica della Stein, elaborata sulla scia della “nostalgia del fondamento” e del ritorno «alle cose stesse» [48] cara al suo maestro Edmond Husserl — fondatore del metodo Fenomenologico, e di cui sarà discepola e assistente universitaria dal 1916 al 1918 a Friburgo — nasce dall’esigenza di scavare sempre più a fondo nell’essere umano, nella sua complessità interiore come nei suoi comportamenti esteriori, partendo dall’epochè, ovverosia dalla messa tra parentesi dell’atteggiamento naturale e di ogni interpretazione già data dei fenomeni, secondo un rigoroso sforzo di obiettività.

La Stein, superando la dicotomia anima-corpo, concepisce l’essere umano come persona in quanto costituito da un Corpo materiale (Korper), da un’Anima (Psyche), in quanto il corpo materiale è Corpo animato o vivente (Leib), e dallo Spirito (Geist), in quanto aperto conoscitivamente a se stesso e al mondo che può liberamente plasmare. [49] Trovo questa tripartizione dell’essere umano di una sconcertante modernità: dopo decenni in cui il dibattito psichiatrico si è focalizzato sulla dicotomia mente-cervello, penso siano giunti i tempi per introdurre nella riflessione psichiatrica anche il concetto di spirito e di anima. Superando da un lato il riduzionismo biologico, dall’altro il pregiudizio laicista per cui spirito e anima sarebbero di pertinenza della religione, ergo al di fuori di ogni interesse scientifico, penso che l’approccio olistico ai disturbi psichici possa e quindi debba prendere in considerazione anche le esigenze spirituali dell’individuo, qualunque esse siano, conoscendole, valorizzandole, comprendendole, e riconoscendo in esse anche possibili strumenti terapeutici. È oggi raro che uno psichiatra parli di anima. Nel suo saggio “Di armonia risuona, e di follia”, [50] Borgna, coraggiosamente, lo fa, ricordando anche una confessione di Jung, che scrisse:«Solo al di là del cervello, al di là del substrato anatomico v’è ciò che per noi è importante, vale a dire l’anima, entità da sempre indefinibile, e che continua a sfuggire anche ai più abili tentativi di afferrarla».

Nell’analisi dell’interiorità dell’uomo, Edith esplora i vissuti che lo caratterizzano, e che costituiscono, confluendo l’uno nell’altro, il «flusso di coscienza». [51] Tra gli atti individuabili registrati nella coscienza, l’empatia è quell’atto che permette al soggetto di trovare presente anche in un altro soggetto un certo vissuto, realizzando pienamente la dimensione inter-soggettiva, costitutiva della persona. La Stein eredita il concetto di empatia dal filosofo e psicologo tedesco Theodor Lipps, [52] secondo il quale l’oggetto estetico, soprattutto artistico, rappresenta l’occasione per sperimentare un godimento che ha la propria sede nel soggetto stesso. La giovane ebrea ha il merito di estendere questa possibilità dall’ambito estetico a quello antropologico, svuotando il concetto di empatia da un significato di immedesimazione (l’empatia non è unipatia) e individuando in esso un atto coscienziale, «originario». [53]

Nell’analisi di Edith Stein, l’empatia consta di tre gradi: il primo grado dell’empatia consiste nell’emersione del vissuto («ad esempio, l’espressione di dolore che riesco a “leggere nel volto” dell’altro»), dove il vissuto è un contenuto che non sgorga dall’Io ma che “è dato” e “si impone” all’Io, perché si origina in un altro. Il secondo grado, o di esplicitazione riempiente del vissuto, è rappresentato dal dirigersi intenzionale dell’attenzione verso quel vissuto per immedesimarsi in esso. Il terzo grado di oggettivizzazione comprensiva, infine, si realizza nella «chiarificazione», ossia in una riguadagnata distanza dall’oggetto, arricchita però dalla consapevolezza più intima della condizione altrui. [54]

Oltre che esperienza di conoscenza dell’altro, l’empatia, per la Stein, realizza un contesto di reciprocità in cui lo stesso soggetto può approfondire la conoscenza di sé: «È possibile che un altro mi giudichi meglio di quanto io giudichi me stesso e mi dia maggior chiarezza su me stesso. Ad esempio egli si rende conto che io, nel compiere una buona azione, mi guardo attorno e cerco di riscuotere approvazione, mentre io stesso credo di agire per pura compassione. In questo modo l’empatia e la percezione interna collaborano insieme per rendere me più chiaro a me stesso». [55] Mi pare che queste considerazioni raggiungano il vertice degli scritti teorici sull’empatia. La Stein è una delle poche autrici a sottolineare come l’empatia offra non solo l’occasione di conoscere l’altro, ma rappresenti anche, specularmente, un’occasione di miglioramento e di crescita personale attraverso l’interazione con l’altro. Emerge qui l’umiltà della filosofa, dote rara in una personalità intellettuale del suo calibro, umiltà dalla quale la sua incessante e unitaria ricerca personale e professionale trova le sue più profonde origini. In conclusione, la grandezza e l’eccezionalità della figura di Edith Stein (che non a caso la Chiesa Cattolica farà Dottore della Chiesa) stanno, a mio avviso, nell’aver praticato effettivamente e portato a pieno compimento quanto teorizzato nei suoi scritti, prova della sincerità delle domande da cui essi erano nati. L’esercizio dell’empatia, infatti, segnerà concretamente e in modo profondo la vita di Edith già a Gottinga attraverso l’incontro e la conoscenza personale del filosofo Max Scheler (1875-1928), convertito al cattolicesimo, e del filosofo del diritto Adolf Reinach (1883-1917), protestante, entrando in un contatto personale con un mondo che ne scuote i pregiudizi razionalistici. La giovane non si chiude a questi stimoli culturali ma, vera amante della sapienza, accetta la fatica della ricerca e del "pellegrinaggio" esistenziale che la condurrà a divenire un’intellettuale e conferenziera di grande spessore, quindi una carmelitana, assieme alla sorella Rosa.

Sarà con questa che, il 2 agosto 1942, Edith Stein verrà arrestata con altri 242 ebrei cattolici, tra cui Rosa, come atto di rappresaglia contro l’episcopato olandese. Dapprima condotte all’ufficio distrettuale di Maastricht, quindi al campo di transito di Amersfoort, il 4 agosto le sorelle verranno nuovamente prelevate e trasferite a Westerbork (proprio il campo in cui anche Etty Hillesum, in quello stesso mese, avrebbe cominciato a prestare servizio); il 7 agosto le due saranno assegnate a un treno in partenza per Auschwitz-Birkenau, ove presumibilmente il 9 agosto Edith Stein morirà asfissiata in una camera a gas.


IV. Wanda Póltwanska. L’esperienza personale di un incontro empatico

“Chi sei, uomo?” [56]

«Intorno a me non c’era nessuno che potesse rispondere alla domanda che mi tormentava. Avevo l’impressione che tutte le persone fossero anormali. Mi sentivo sola. Cominciavo a sentire un tormentoso senso di colpa per il fatto che vivevo. Io stessa non sapevo in fondo perché ero tornata e le mie amiche no». Così scrive di sé la dott.ssa Wanda Póltwanska (2 ottobre 1921, Lublino), medico psichiatra, nell’introduzione all’autobiografico Storia di un’amicizia. La famiglia Póltawaska e Karol Wojtyla, edito nel 2010. [57] Seicentotrentasette pagine che sono la “storia dell’anima” di questa donna, tuttora vivente, il suo bildungsroman. Cinque furono gli anni in cui Wanda, arrestata dalla Gestapo durante l’occupazione tedesca, fu rinchiusa nel campo di concentramento di Ravensbruck, sottoposta a crudeli esperimenti medici (come narrato nel romanzo E ho paura dei miei sogni [58]). Cinque furono gli anni durante i quali, continuamente, si pose la domanda «Com’è possibile?». [59] Due sole, in quei cinque anni, le volte in cui pianse, una di disperazione, dopo l’intervento chirurgico sperimentale cui venne sottoposta come cavia, e una di gioia, quando un’amica più grande le propose di offrirsi al posto suo in un’esecuzione; sacrificio che lei non accettò, esecuzione che, poi, non avvenne, ma atto eroico di generosità che la commosse e le diede la forza di sopravvivere. «Chi sei uomo?” Mi ponevo questa domanda, guardavo avidamente tutto...”». [60] Tornata a Lublino, l’impatto con la realtà fu sconvolgente. Lacerata dal senso di colpa per il fatto di essere sopravvissuta, di essere «tornata da quell’inferno, mentre le (…) amiche non erano tornate (…), sola, nonostante il ritorno tra i parenti», [61] Wanda scrive di sé: «Avevo l’impressione che tutte le persone fossero anormali (…). Non sopportavo le domande “com’era là?” (…). Ancor meno sopportavo gli sguardi delle madri delle ragazze scout fucilate nel campo: mi sembrava che ognuna di loro si chiedesse perché io fossi tornata e sua figlia no. Io stesso non sapevo in fondo perché ero tornata e non ero capace di rispondere». [62]

Fuggì così a Cracovia, dove si iscrisse alla facoltà di Medicina dell’Università Jagellonica: «con passione volevo sapere il più possibile sull’uomo, ma molto presto mi resi conto che quegli studi non mi davano quello che m aspettavo. Finiti gli studi di medicina, scelsi una delle specializzazioni più umanistiche, la psichiatria. Imparai un mucchio di cose sulle patologie della psiche umana, ma continuavo a non sapere chi fosse l’uomo e dove ritrovare me stessa. Nella testa avevo il caos». [63] La lettura di queste frasi mi aveva da subito incuriosito: la decisione della Póltwaska di intraprendere i duri studi medici e poi, in modo particolare, quelli psichiatrici mi aveva colpito per il coraggio. Parlo di coraggio in senso etimologico, nel senso di cor-agere, agire con il cuore, secondo il cuore, alla ricerca della comprensione della realtà del cuore dell’uomo. Wanda non si ferma al male che ha visto, subito e vissuto: ella sa che l’uomo non è solo questo, che l’uomo non può essere ridotto alle sue azioni, per gravi che esse siano, o ai suoi comportamenti ma nutre piuttosto il desiderio di comprenderne le ragioni. Trovo questo atteggiamento profondamente proprio dello specialista della salute mentale: lo psichiatra deve portare in sé, con coraggio, l’apertura alla speranza, alla speranza della cura, se non della guarigione. Non è possibile eliminare la sofferenza, il male, il dolore, la malattia, tuttavia è possibile quindi doveroso anzitutto accettarla. La medicina, e la psichiatria in modo particolare, possono quindi, in definitiva, diventare il luogo in cui la speranza esce dalla dimensione privata e può farsi pubblica. Come scrive Borgna, «sperare è sempre attendere qualcosa che salva, e il futuro della speranza è qualcosa che è già presente». [64]

È in questo contesto personale-autobiografico e storico e con le premesse sopra riportate che si realizza nella vita di Wanda uno degli incontri più esplicativi, a mio avviso, di quanto sopra teorizzato sull’empatia, esempio di come l’attenzione e l’ascolto empatico possano realmente realizzarsi in un contesto relazionale e incidere profondamente nella vita dei due interlocutori (i due si legheranno in una profonda amicizia proseguita per tutta la vita).

«Stavo appunto inginocchiata vicino a quell’entrata (l’entrata laterale della Chiesa Mariana di Cracovia, vicino alla quale la futura dott.ssa Póltawska viveva, ndr) quando entrò, con addosso un cappotto verde, don Karol Wojtyla (...). Lo seguii al confessionale, come se fossi attirata da una calamita. Allora mi arrabbiai perfino un po’ con me stessa, perché andavo a confessarmi quasi involontariamente, come senza pensarci, senza un proposito preciso e senza preparazione (...). Nel confessionale quel sacerdote, così attento, così concentrato nell’ascolto di quanto dicevo e anche di quanto non sapevo esprimere; e la sua reazione. Inizialmente mi riempii di stupore e di incredulità: davvero esisteva qualcuno che reagisse così? Esisteva qualcuno (...) che era pronto ad accompagnare non per cinque passi, ma per quanti erano necessari — e non gli era indifferente che cosa sarebbe accaduto all’anima che gli era affidata. Non successe nulla di straordinario ma il modo di trattare, il tono e quanto mi disse mi colpirono nel segno e corrisposero a quello di cui avevo bisogno (…). Mi ricordo quel senso di incredibile sollievo per il fatto che esisteva qualcuno che finalmente mi capiva, dopo tanti incontri con varie persone, spesso piene di buona volontà, che però non capivano niente. Finalmente quella gioia, forse non ancora gioia, ma certamente sollievo e pace». [65]

Anzitutto, ritroviamo nella descrizione dell’atteggiamento di Wojtyla la dimostrazione pratica di quanto teorizzato sull’attenzione dalla Weil: il polacco è «attento», «concentrato nell’ascolto», «non indifferente». Conseguenze di un incontro di siffatto genere sono, in prima istanza, «stupore» e «incredulità», a motivo dell’eccezionalità dell’esperienza di essere ascoltata e compresa in modo autentico, quindi, in seconda battuta, un «senso di incredibile sollievo», di «pace» che preclude addirittura alla «gioia». E, precisa la Póltawska, «non successe nulla di straordinario». Questi effetti positivi che l’ascolto empatico produce in chi è ascoltato trovo siano di per sé i principali motivatori per suggerire a chi sia «pronto ad accompagnare non per cinque passi, ma per quanti sono necessari» a educarsi a questa tecnica.


Conclusioni

Cosa possono dire, agli studiosi e ai professionisti della salute mentale di oggi, queste quattro donne? In che modo la filosofia, attraverso queste donne, ha dato il suo contributo alla psichiatria per ciò che riguarda il concetto di empatia?

L’empatia è, tra le categorie psichiatriche, una delle prime a meritare oggi un recupero del suo più autentico significato, rappresentando il presupposto ineliminabile di ogni colloquio ed essendone state ipotizzate, attraverso la scoperta dei neuroni specchio, le basi fisiologiche. [66] Tale recupero non può che passare attraverso i contributi della filosofia e della letteratura. L’esperienza vissuta in prima persona dalla Poltwanska nell’incontro con Wojtyla (che, pur non avendo il titolo di medico né tantomeno di psichiatra, mostra doti degne dei più profondi conoscitori dell’animo umano, come già nell’opera teatrale La Bottega dell’Orefice, [67] scritto in giovanissima età, traspare), così come le pagine di diario della Hillesum e le riflessioni di Simone Weil, esemplificano bene come l’empatia sia il presupposto non solo di ogni relazione tra medico e paziente ma la premessa per il realizzarsi di ogni incontro tra uomini.

Tutte queste donne sono, per così dire, delle “guaritrici ferite” [68]: la forza e l’autenticità del loro messaggio sta, a mio parere, proprio nelle loro difficoltà, nel loro essere state segnate dalla guerra e, talora, da una profonda inquietudine personale. È questo che le rende vere e credibili. La sete di ricerca che dai loro scritti e dalle loro vite emerge — e che soprattutto durante gli anni dello studio universitario sentivo a me affine — trova nell’incontro empatico la chiave per fare esperienza anzitutto della propria e dell’altrui umanità.

Dalla scoperta nell’empatia di una delle “chiavi di volta” per ri-trovare se stessi e gli altri, derivano due conseguenze fondamentali per le discipline psichiatrica e medica. In primo luogo, la psichiatria, che nel colloquio con l’altro vede lo strumento privilegiato della terapia, ha la possibilità e forse anche il dovere di uscire da se stessa per attingere anche da altre discipline i presupposti culturali della categoria dell’empatia di cui essa stessa fa uso, avviando così una collaborazione sincretista che ha come fine la miglior comprensione degli uomini che cura. Già Engel, nella proposta di una psichiatria bio-psico-sociale, [69] aveva evidenziato la necessità dell’apertura della stessa a discipline non unicamente psichiatriche ma umanistiche. Da giovane dottoressa neolaureata, invece, avverto come l’empatia sia spesso relegata all’ambito dell’affezione, della sensibilità, del sentimento, in altri termini di ciò che è soggettivo, pertanto incostante e superficiale, e non tecnico; in questo senso, ogni riflessione sul tema rischia di essere considerata come extra-scientifica e come estranea alla psichiatria sensu stricto (si veda anche, a conferma di queste riflessioni, la revisione di Pedersen [70]). Le riflessioni di queste quattro donne, e della Stein in particolare, dimostrano, viceversa, come l’empatia possa e quindi debba essere oggetto di una riflessione rigorosa e approfondita anche e soprattutto in ambito psichiatrico, in modo da far parte dell’arte di questa disciplina. La complessità della relazione con il paziente con problemi di salute mentale, inoltre, pone alla psichiatria la sfida di allargare il concetto di empatia, trovando nuovi modi di declinarlo anche in contesti in cui, a causa della malattia, la costruzione di un rapporto si fa difficile, la parola deve reinventarsi per realizzare una comunicazione efficace e la misteriosa imprevedibilità dell’animo umano pone dei limiti alla pretesa pseudo-scientifica di rendere tutto spiegabile e razionalizzabile.

In seconda istanza, la riflessione sull’empatia potrebbe, a mio avviso, rappresentare uno strumento che la psichiatria potrebbe offrire e condividere anche con le altre discipline mediche. Penso che la medicina tutta e la medicina generale in modo precipuo, dato il rapporto continuativo che il medico di famiglia realizza con i propri pazienti, potrebbero giovarsi di un approccio all’uomo in chiave non unicamente biologica ma olistica — fermo restando la specificità e peculiarità di ogni singola specialità medica — proprio attraverso l’empatia. Questo aspetto è stato già recepito oltreoceano, dove l’American Association of Medical Colleges ha inserito l’educazione all’empatia tra gli essenziali obiettivi di apprendimento dei futuri medici. [71] Come diverse recenti pubblicazioni illustrano, [72] se la medicina, oltre che promuovere un sapere scientifico, avrà come traguardo l’incremento di quella humanitas di cui il medico è portatore, questo si tradurrà nella creazione di una migliore alleanza terapeutica, migliorando la compliance dei pazienti e l’aderenza alle cure, e in un servizio di assistenza sanitaria di più alta qualità.

Da ultimo, colpisce come la riflessione filosofico-psichiatrica sul tema dell’empatia sia spesso una riflessione, per così dire, “al femminile”: trovo questo pienamente in linea con la sensibilità tipica della donna e con il suo naturale atteggiamento di apertura all’altro che, biologicamente ed antropologicamente, la caratterizza e la distingue dall’uomo maschio. Se è storicamente un merito per lo più femminile quello di aver impostato ed approfondito la riflessione sull’empatia, ciò, tuttavia, non deve tradursi in una “empatia di genere”: se ciò accadesse, essa non potrebbe più essere uno strumento clinico da poter apprendere ed insegnare a tutti i professionisti della salute, al contrario, sarebbe una skill afferente alla mera soggettività, il cui esercizio verrebbe lasciato al “buon animo” di qualche sensibile dottoressa. Al contrario, come emerge da questo contributo, l’empatia è propria dell’uomo (maschio e femmina) in quanto tale e si configura come strumento analizzabile da un punto di vista oggettivo. Starà poi al medico e allo psichiatra, uomo o donna che siano, fare proprio questo strumento per fonderlo armoniosamente, come ogni altra abilità clinica, con le proprie attitudini e qualità personali.


Sono grata alle dott.sse Francesca Brencio, Raffaella Campalastri e Silvia Ferrari per la generosa opera di correzione e di aiuto nella stesura di queste pagine e all’amica dott.ssa Cecilia Ghizzoni per avermi fatto scoprire il “Diario” di Etty suggerendomene la lettura.


[1] H.G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina, Milano 1994, p. 172.
[2] Ivi, p. 177.
[3] E. Borgna, “Il piano ermeneutico dell’incontro”, Comprendre, 8, 1998, p. 17-23.
[4] E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1996, p. 201.
[5] G. Montefoschi, “Etty Hillesum, ritrovare la vita nella voragine dell’Olocausto”, Corriere della Sera, 18/2/2013, p. 29.
[6] E. Hillesum, Diario 1941-1943, cit.
[7] J.C. Gaarlandt, “Introduzione”, in Diario 1941-1943, cit., p. 12 e p. 35.
[8] E. Hillesum, Diario 1941-1943, cit., p. 39.
[9] Ivi, p. 38.
[10] Ivi, p. 24.
[11] Ivi, pp. 69-70.
[12] Ivi, p. 236.
[13] Ivi, p. 201.
[14] Ivi, p. 112.
[15] M. Baroni, “Etty Hillesum. Un’anima millenaria”, Kasparhauser. Rivista di cultura filosofica, Anno 2, numero 5.
[16] E. Hillesum, Diario 1941-1943, cit, p. 192.
[17] Z. Bauman, Modernità liquida, trad. it. di S. Minucci, Laterza, Roma-Bari 2003.
[18] Si veda, per un approfondimento della categoria concettuale del limite, M. La Scala & Maria Vittoria Costantini, Il lavoro psicoanalitico sul limite. Contributi teorici e clinici, Franco Angeli, Milano 2008.
[19] E. Hillesum, Diario 1941-1943, cit., p. 201.
[20] Ivi, p. 122.
[21] Agostino d’Ippona, De Vera Religione, XXXIX, 72.
[22] E. Hillesum, Diario 1941-1943, cit., p. 68.
[23] Necchi, Piercarlo, “La mistica necessaria”, Alfabeta, n.97, giugno 1987, p. 28, http://www.ettyhillesum.it/downloads/Necchi_La_Mistica%20necessaria.pdf.pdf
[24] E. Hillesum, Diario 1941-1943, cit., p.35.
[25] Id., Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano, 1990.
[26] Id., Diario1941-1943, cit., 15 settembre 1942, p. 196.
[27] Ivi, p. 232.
[28] J.G. Gaarlandt, “Introduzione” in E. Hillesum, Diario 1941-1943, cit., pp. 17-18.
[29] E. Hillesum, Lettere 1941-1943, cit., p. 149.
[30] S. Weil, Quaderni, Volume III, Adelphi, Milano, 1988, p. 257.
[31] Id., Attesa di Dio, Adelphi, Milano, 2008, p. 200.
[32] Id., Attesa di Dio, cit.
[33] S. Weil, J. Bousquet, Corrispondenza, traduzione e postfazione di A. Marchetti, SE, Milano, 1994.
[34] S. Weil, Attesa di Dio, cit., pp. 199-200.
[35] Id., Quaderni, Volume III, Adelphi, Milano1988, p. 257.
[36] Id., Attesa di Dio, cit., p. 196.
[37] Ivi, p. 201.
[38] Ivi, p. 195.
[39] Ivi, p. 196.
[40] Ivi, p. 197.
[41] S. Weil, Quaderni, Volume II, Adelphi, Milano 1985, p. 293.
[42] Id., Quaderni, Volume IV, pp. 415-417.
[43] E. Stein, Il problema dell’empatia, a cura di Elio e Erika Costantini, Studium, Roma 2012, pp. 71-72.
[44] Id., Storia di una Famiglia ebrea, Città nuova, Roma, p. 39.
[45] Id., Il problema dell’empatia, cit.
[46] Id., Storia di una Famiglia ebrea, cit., p. 253.
[47] Manganaro, “Il sentire empatico e l’epistemologia della complessità, in ricordo di Bruno Callieri”, Comprendre, 23, 2013-I, p. 152.
[48] E. Husserl, Ricerche logiche, vol. I, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 271.
[49] E. Stein, Il problema dell’empatia, cit., parte III: “La costituzione dell’individuo psicofisico”, pp.119-192; Rossella Cervi, La gratuità in Edith Stein, 2012, p. 57-58; A. Aels Bello, “L’antropologia fenomenologica di Edith Stein”, conferenza all’Università “Al.I.Cuza” di Jassy, in Romania, il 16 giugno 2011, in Agathos: An International Review of the Humanities and Social Sciences, pp. 32-35.
[50] E. Borgna, Di armonia risuona e di follia, Feltrinelli, Milano 2012.
[51] E. Stein, Il problema dell’empatia, cit., p. 121.
[52] T. Lipps, “Empatia e godimento estetico”, in G. Vattimo (a cura di), Estetica moderna, Il Mulino, Bologna 1977, pp. 179-183.
[53] E. Stein, Il problema dell’empatia, cit., p.77.
[54] Ivi, pp.77-78.
[55] Ivi, p. 192.
[56] W. Póltawska, Diario di un’amicizia. La famiglia Póltawska e Karol Wojtyla, San Paolo, Roma 2010, p. 26.
[57] Id., Diario di un’amicizia..., cit.
[58] Id., E ho paura dei miei sogni. Quando la morte non vince, Ed. dell’Orso, Alessandria 2008.
[59] Id., Diario di un’amicizia... cit., p. 26.
[60] Ibidem.
[61] W. Póltawska, Diario di un’amicizia... cit., p. 32.
[62] Ivi, pp. 32-33.
[63] Ivi, p. 33.
[64] E. Borgna, “Moti d’attesa dell’anima ferita: relazioni che riaprono possibilità di guarigione”, Intervista di F. Anibaldi, Animazione Sociale, 10: 3-7, 2005; vol. XXXV.
[65] W. Póltawska, Diario di un’amicizia... cit., pp. 39-42.
[66] G. Di Pellegrino, L. Fadiga, L. Fogassi, V. Gallese, G. Rizzolatti (1992), Understanding motor events: A neurophysiological study. Experimental Brain Research, 91(1), 176–180.
[67] A. Jawien, K. Wojtyla, La bottega dell’orefice, Libreria Editrice Vaticana, 1992.
[68] Cfr. H.G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, cit., “Introduzione”, p. 9 e p. 43.
[69] G.L. Engel (1977), “The need for a new medical model. A challenge for biomedicine”, Science 196:129-136.
[70] R. Pedersen, Empathy: a wolf in sheep’s clothing?, Med Health Care Philos. 2008 Sep;11(3):325-35.
[71] Association of American Medical Colleges Medical School Objectives Project. [May 15, 2005], http//www.aamc.org/meded/msop/msop1.pdf.
[72] E.B. Larson, X. Yao, Clinical empathy as emotional labor in the patient-physician relationship, JAMA. 2005 Mar 2;293(9):1100-6. M. Neumann, J. Bensing, S. Mercer, N. Ernstmann, O. Ommen, H. Pfaff, Analyzing the “nature” and “specific effectiveness” of clinical empathy: a theoretical overview and contribution towards a theory-based research agenda, Patient Educ Couns, 2009 Mar;74(3):339-46.


Etty Hillesum, Simone Weil, Wanda Poltawska e Edith Stein

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