Kasparhauser





Rivista di cultura filosofica

2016


Home


Monografie


Culture Desk


Ateliers


Chi siamo


Info


Polifonia e monodia delle tradizioni
di Guido Cavalli

21 dicembre 2016


Si discuteva di poesia, e Giacomo Conserva* ha detto: “non c’è una tradizione, ci sono tante tradizioni, ciascuno sceglie la sua”. Intendeva dire che la tradizione non è solo il definirsi di forme costanti, ma anche delle tensioni e delle negazioni che a quelle preludono e seguono, che accanto a una tradizione cosiddetta maggiore ve ne sono sempre altre molteplici e diramate.

Conserva ha ragione, a patto però di tenere nella dovuta considerazione l’unitarietà di questo processo. Di non confondere storiografia e tradizione. Se nell’apparato critico con cui tentiamo di tenere il passo della storia, noi cerchiamo di raccogliere e contemperare la totalità di ciò che è accaduto, nella sua varietà e eterogeneità, però non tutto si riconnette, non tutto si ricongiunge alla tradizione. Non tutto diventa passato. Non tutto partecipa della sua capacità di rimanere, di durare.

Judah Loew ben Bezalel, conosciuto anche come il Marahal di Praga, diceva: “soltanto l’uno può essere polifonico”. Cosa significa? A mio avviso, significa che il manifestarsi dell’unità è un gesto lungo, che ne attraversa tanti, l’arcaico, il classico, il romantico, e tutti li tiene insieme nell’integrità e nella necessità del dire — di quell’evento indisponibile che chiamiamo linguaggio. Oltre questo gesto ne rimangono tanti altri, che dell’integrità e della necessità del dire non hanno riguardo. Essi non sono altre tradizioni, perché non sono tradizione. Chi confonde questo e quelli pensa di poter decidere quale sia il suo passato, e addirittura cosa sarà passato. Ma non è così.

Judah Loew parlava di polifonia, e proprio la storia della musica recente ci offre un esempio concreto: la musica dodecafonica e suoi epifenomeni, come la musica seriale o la musica indeterminata, hanno avuto un preciso significato storico, una collocazione storiografica, hanno prodotto teorie, scuole e tuttora vengono riproposti, forse addirittura praticati da qualche indefesso epigono che li ha “scelti” come una delle “tradizioni” a cui è possibile riferirsi, ma non per questo apparterranno mai alla tradizione della musica occidentale. Perché sono stati episodi della musicologia, non della musica. Puri apparati ideologici, manifestazioni culturali a cui è stato ed è ancora possibile assistere, non ascoltare. Una delle più estreme manifestazioni dell’arbitrio con cui la cultura occidentale ha praticato la volontà di pietrificare e quindi sgretolare il senso del passato. Ma che non ha lasciato nessun segno nel linguaggio della musica.

Se quest’affermazione sembra categorica e presuntuosa, è solo perché abbiamo sospeso il giudizio: Schoenberg si diceva convinto che il pubblico avrebbe imparato ad ascoltare e apprezzare la musica dodecafonica proprio come per secoli aveva ascoltato la musica tonale. Ma questo non è successo. E soprattutto, nella confusione tra storiografia e tradizione, la musicologia s’è rifiutata di constatarlo, si è limitata a sottintendere che la ragione di questo non accadimento sia circostanziale, forse addirittura a condividere l’implicito dell’affermazione di Schoenberg, ovvero l’incapacità del pubblico di voler comprendere la musica dodecafonica. Al contrario, la verità ormai evidente è che quanto auspicato da Schoenberg non sarebbe mai potuto accadere. E la ragione di questa impossibilità è l’arbitrio con cui la dodecafonia ha presunto di potersi installare come linguaggio al di fuori dello spazio del linguaggio a noi disponibile, a sua volta tracciato dalle forme del linguaggio manifestate nel tempo — ovvero, dal momento che ha negato quello spazio formale di senso, quell’apertura all’unitarietà del dire che nella musica è costituito, irrevocabilmente, dal legame melodico.

Certo, ogni contesto determina le sue forme, e come si diceva all’inizio, la tensione unitaria non produce solo archetipi, ma anche torsioni, esasperazioni, e fugaci illuminazioni. L’ascolto di un mottetto di Du Fay è ormai molto difficile per noi. Il miracolo della polifonia è tramontato. Altrettanto una composizione di Messiaen. Entrambi tuttavia sentiamo appartenere al medesimo disvelamento dell’immediatezza delle forme del linguaggio, entrambi mostrano, pur nella diversa e libera interpretazione del senso della forma, cosa significhi rimanere all’interno dell’unitarietà del dire. Non di ripeterla e subirla passivamente, cristallizzandola in un dogma vuoto, né romperla e negarla, così riaffermandone implicitamente la necessità, ma assumerla e esprimerla, tradurla nella propria soggettività e volontà, e così modificarla. In entrambi i casi, è un atto che si dà nella tradizione, perché è capacità di stare dentro l’interpretazione della forma, di dare luogo alla forma, di rendere immediato ciò che il tempo ha formato, ciò che nel tempo ha durato. Qui, per inciso, si ritrova e si spiega anche la “vittoria” di quelle avanguardie novecentesche che in un questo senso sono state classiche, come il surrealismo (oggi divenuto surrealismo di massa, come disse Fortini). Perché non hanno voluto negare il legame tra forma e senso, ma allargarlo ad altre, alle forme dell’inconscio per esempio. Mentre le avanguardie informali, come la dodecafonia, hanno “fallito” ritenendo che la libertà artistica si risolvesse nella decisione sulla e contro la forma.

Ma perché abbiamo sospeso il giudizio, perché questo fallimento non ci appare in tutta la sua evidenza? Perché la posizione di Schoenberg ha un preciso fondamento storico, grazie al quale, nonostante la sua impossibilità, Schoenberg ha potuto credere che essa avrebbe generato un passato, e, nonostante il suo non accadimento, anche noi continuiamo a crederlo. Se quello di Schoenberg, infatti, non avrebbe mai potuto essere un decidere della tradizione, lo è stato però della storia. Nella misura in cui ha corrisposto al rapporto vigente con il passato, pensato come qualcosa da cui emanciparsi, ovvero da negare.

La negazione del passato — nell’esempio citato, particolarmente significativo, negazione del passato del linguaggio musicale, ma che varrebbe anche per altri linguaggi — è l’atto metafisico principe, quello attraverso cui costantemente riaffermiamo il nostro dominio assoluto rispetto l’essere dell’ente. Nell’esser divenuto niente — passato — l’ente manifesta la natura indecisa, e pertanto disponibile, sottoposto alla nostra decisione, del suo essere. E nulla come il passato svela l’essere niente dell’essere dell’ente, perché è proprio l’essere dell’ente ciò che nel passato diviene niente. Ecco la ragione dell’enorme predisposizione, dell’instancabile ansia del nuovo nella civiltà della metafisica: dell’istantaneità si alimenta la storia quale monumento del nostro potere sull’essere dell’ente.

La sola ma fondamentale necessità che riconosciamo al passato è il suo non essere più niente, essere divenuto niente, quindi essere qualcosa che ha perso la lotta che — nella metafisica — ogni ente ingaggia con il proprio essere (essere dell’ente come niente), qualcosa che è caduto al di fuori del regime della disponibilità che informa il nostro mondo, qualcosa divenuto interamente debitore della nostra volontà nella misura di una sua riproposizione all’interno del cono di luce del presente. Qualcosa la cui esistenza è completamente trasfigurata dal criterio della nostra libertà.

L’affermazione dell’evidenza della nostra libertà è la stessa dell’evidenza del non essere più niente del passato. Perché le cose passate non sono più niente — e anche quelle che sono, già sono, nel divenire, niente — solo la nostra assoluta libertà è criterio dell’essere. Ecco la radice contraddittoria e annichilente della nostra libertà, perché afferma il niente dell’ente ma lo vuole interamente pensabile, disponibile, assoggettato al progetto di libertà umana. Ovvero, la libertà diviene ciò che scioglie l’uomo da tutte le cose, ma al tempo stesso di quelle annienta l’essere, lasciando il progetto dell’uomo un artificio fatto di niente.

Invece bisogna dire: tutto è destinato al passato. L’essere non è il niente ma il destino dell’ente. Il suo essere destinato. Altrimenti questo tavolo, questo libro, questo giorno, e ancor di più questo ricordo, questo dono, questa festa, sono niente. Se l’essere presente non è già memoria di un essere preontologico, non è già destinato all’essere ancora, se la struttura temporale dell’essere riguarda solo il farsi presente — e annullarsi come essere — e non c’è alcun rimanere dell’essere che passa oltre il presente, se l’accadere non è già destinato a farsi essere ancora, ad essere per sempre l’accaduto, il passato, allora non usciremo mai dalla condizione nichilista della metafisica.

Bisogna dire: il passato non è l’accumulo, oppressivo e inerte, di ciò che è rimasto indietro, ma ciò che, raccogliendole e porgendole alla temporalità dell’essere, dà alle cose la forza di passare, e di andare oltre, e senza il quale tutto si ferma in un’immobile e sospeso contemporaneo, che lentamente si distacca sia da ciò che è stato, sia da ciò che è destinato ad essere — infatti agli occhi di chi ha deciso di spezzare il legame col passato, anche il futuro si ritrae, si fa nebuloso e vago.

Ma l’exitus dal cerchio della presenza è sempre stato lì. Nel vincolo della tradizione come dialogo di libertà e destino. Dove rimane l’essere che passa il farsi presente, che continua a passare, e dura e si inoltra nel tempo, e noi insieme a lui, se accettiamo di scendere verso la temporalità dell’essere prima dell’accadere, esperita così come rimane, ovvero passando oltre, rimanendo passato. Perché il passato non è qualcosa di slegato dal tempo, il passato accade sempre oltre il presente, accade dopo, nel rimanere, nel durare. Solo nel passato dunque noi andiamo incontro a ciò che rimane dell’essere dopo l’essere stato e il non essere più. E ci rimettiamo sulla via dell’essere. Per muovere oltre, per passare a nostra volta. Proseguiamo, cioè andiamo seguendo, avanziamo ancora nel solco, nel segno, che è già tracciato. E solo così troviamo l’oltre a cui siamo destinati. Ciò che è, secondo la necessità.

La tradizione è la forma del nostro legame con il passato, ciò che ci lega al già deciso. Si è legati dalla tradizione o si è fuori dalla tradizione. Perché la tradizione si accetta e non si sceglie. La tradizione è il luogo che ci è stato assegnato nel tempo, è la nostra possibilità di durare. Soltanto dopo questa presa d’atto può iniziare un dialogo, un incontro, e un possibile passare oltre, che però muove assieme ed è sorretto sempre dal passare del passato, dal suo e non dal nostro stare — durare — nel tempo.

* Giacomo Conserva (Parma 1948), psichiatra, psicoterapeuta, traduttore (tra cui "Poesie" di W. Blake, Newton Compton, 4 ed.), saggista, poeta ("Derive metropolitane", 1990). Tra le sue collaborazioni, L'erba voglio, A/traverso, Poliscritture e Kasparhauser. Il suo blog, Oltre la società psichiatrica avanzata, multilingue, ha attualmente 8000 visualizzazioni mensili. In uscita un volume collettivo su Jean-Jacques Abrahams, “L'uomo col magnetofono” di Sartre e Elvio Fachinelli.




Mano guidoniana. © Ms. Coll. 1468. Kislak Center for Special Collections / Rare Books and Manuscripts / University of Pennsylvania




Home » Ateliers » Transmoderno


© 2016 kasparhauser.net