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A cura di Jacopo Valli




Commentario sulla Verneinung di Freud
di Jean Hyppolite
(Traduzione di Jacopo Valli e Sophia Lucrezia Valli)


28 dicembre 2013

Innanzitutto, è mio dovere ringraziare il Dottor Lacan della sua insistenza affinché vi presentassi quest’articolo su Freud, perché ciò mi ha procurato una notte di lavoro, ed ha premesso ch’io portassi a voi il frutto di questa notte.
Mi auguro che tutto questo sia di vostro gradimento.
Il Dottor Lacan è stato tanto gentile da inviarmi il testo tedesco insieme a quello francese; la trovo una scelta assennata, poiché credo che non sarei stato in grado di comprendere nulla del testo francese, se non avessi potuto usufruire di quello tedesco.
Non ero a conoscenza di questo scritto. Ha una struttura assolutamente straordinaria, oltre che estremamente enigmatica. La costruzione non è aulica: non mi permetto di etichettarla come “dialettica” ; la trovo particolarmente sottile, e ciò mi ha imposto di abbandonarmi, sia attraverso il testo tedesco, che attraverso quello francese (la cui traduzione non è da ritenersi esatta, nonostante, se paragonata ad altre, possa essere considerata piuttosto onesta) ad un’interpretazione il più possibile veritiera.
È proprio questa interpretazione, che mi accingo a proporvi. Trovo che essa sia valida, ma non per questo dev’essere intesa come l’unica, e perciò, merita senza dubbio di essere discussa.
Freud comincia col presentare il titolo “Die Verneinung”, ed io mi sono accorto, apprendendolo attraverso Lacan, che il miglior modo per tradurlo sia “La Denegazione”.
Comunque, in seguito, voi vedrete impiegato “Etwas im Urteil verneinen”, che non è la negazione di qualche cosa nel giudizio, bensí una sorta di non-giudizio.
Credo che, al fine di comprendere appieno il testo, sia necessario attuare una distinzione tra la negazione interna ad un giudizio e l’attitudine alla negazione.
Lo scritto francese non mette abbastanza in rilievo lo stile estremamente concreto, quasi divertente, degli esempi di denegazione dai quali Freud prende spunto. Questo testo, infatti, contiene delle proiezioni a cui voi potrete facilmente attribuire il ruolo delle analisi perseguite in questo seminario, e dove il malato — lo “psicanalizzato” — confessa al proprio analista: «Senz’altro, voi penserete che voglia dirvi qualcosa di offensivo, ma questo non è affatto il mio intento».
Freud afferma che, in questo caso, noi comprendiamo che si tratta del rigetto dell’idea che sta emergendo mediante la proiezione.
«Mi sono reso conto, nella vita quotidiana, che quando — come spesso accade — sentiamo dire “non voglio assolutamente offendervi con ciò che sto per affermare” è necessario tradurre la frase con “la mia intenzione, è quella di offendervi”». Questa, è una volontà certa.
Tuttavia, questa osservazione porta Freud ad una generalizzazione assai ardita, in cui va a porsi il problema della denegazione, tanto che essa potrebbe venir considerata come l’origine dell’intelligenza. In questo modo, io sono stato in grado di capire il testo in tutta la sua portata filosofica.
Allo stesso modo, Freud espone l’esempio di colui che asserisce: «Ho visto nel mio sogno quella persona. Voi vi domandate di chi possa trattarsi. Certamente, non era mia madre» : in quel caso, si può affermare con certezza, che la persona in questione fosse proprio la madre.
Egli cita inoltre un procedimento adatto al metodo dello psicanalista — in realtà, adatto a chiunque — per fare chiarezza su ciò che è stato rimosso in una data situazione: «Ditemi ciò che vi sembra, in questa situazione, dover essere ritenuto il più inverosimile possibile; che vi sembra tale a cento leghe di distanza».
E il paziente, o, più semplicemente, l’avventore occasionale, quello del salone o della tavola, se cede al vostro tranello confidandovi ciò che gli sembra essere assolutamente incredibile, quel che dice è ciò a cui bisognerà credere.
Ecco, dunque, un’analisi dei processi concreti, generalizzata a tal punto da ritrovare il suo fondamento in un modo di presentare ciò che si è attraverso ciò che non si è, poiché è proprio in questo che risiede il fondamento stesso.
«Sto per dirvi ciò che non sono; attenzione: è precisamente questo che sono».
È proprio così che Freud si introduce nella funzione di denegazione, e, per farlo, utilizza un termine che non può che essermi familiare — Aufhebung: vocabolo che ha avuto diversi destini, non spetta certamente a me ricordarlo...

Dottor Lacan — «Ma sì: a chi, se non a voi, questo termine potrà ri-tornare?»

Monsieur Hyppolite — «Si tratta del termine dialettico utilizzato da Hegel, che significa negare, sopprimere e conservare, e, fondamentalmente, sollevare. Nella realtà, può essere l’Aufhebung di una pietra, o anche la cessazione del mio abbonamento ad un giornale. Freud qui ci dice: “La denegazione è un Aufhebung della rimozione, ma non altrettanto un’accettazione del rimosso”.
Qui comincia qualche cosa di straordinario nell’analisi freudiana, che si libera di questi aneddoti, che noi avremmo potuto considerare come nulla di più che — appunto — aneddoti: una portata filosofica prodigiosa che io mi accingo immediatamente a riassumere.
Presentare ciò che si è attraverso ciò che non si è: a partire da ciò, ci si avvicina a quell’Aufhebung di rimozione che non è un’accettazione del rimosso. Colui che parla, dice: “Ecco quello che non sono”: a questo punto, non si potrebbe parlare di rimozione, se rimozione significa incoscienza, poiché è inconscio; ma la rimozione sussiste essenzialmente sotto la forma della non-accettazione. Ecco che Freud ci conduce verso un processo di immensa sottigliezza filosofica, nei confronti del quale la nostra attenzione sbaglierebbe a lasciar passare nella non riflessione del suo uso comune questa osservazione, alla quale Freud si attacca quando l’intellettuale si separa dall’affettivo. Questo perché si tratta, nel modo che l’autore ha di trattarla, di una scoperta veramente profonda. Io direi, spingendo la mia ipotesi, che per fare un’analisi dell’intellettuale, Freud non mostra come l’intellettuale si separi dall’affettivo, ma in che modo , l’intellettuale sia una sorta di sospensione del contenuto al quale non disconverrebbe in un linguaggio un po’ barbaro il concetto di “sublimazione”. Forse, ciò che qui nasce è il pensiero come tale, ma questo non prima che il contenuto sia stato influenzato da una denegazione».
Per ricordare un testo filosofico (quello di cui, per l’ennesima volta, mi scuso: ma il Dottor Lacan mi è qui il garante di una tale necessità) posto alla fine di un capitolo di Hegel, si tratta di sostituire la negatività vera all’appetito di distruzione che s’impossessa del desiderio, e che è qui concepito attraverso un modo profondamente mitico e non psicologico; sostituirla, dico io, a questo appetito di distruzione che s’impossessa del desiderio e che è tale che, all’estrema uscita dalla lotta primordiale ove i due combattenti si affrontano, nessuno sarà più in grado di constatare la vittoria o la sconfitta dell’uno o dell’altro: una negazione ideale.
La denegazione di cui parla Freud, per quanto sia differente dalla negazione ideale dove si costituisce ciò che è intellettuale, ci mostra, giustamente, questo tipo di genesi di cui l’autore, in conclusione, designa il vestigio nell’ambito del negativismo che caratterizza certi psicotici.
E noi ci rendiamo conto che, dal modo di trattare la negatività, Freud procede sempre miticamente parlando.
È, a mio avviso, quel che è necessario ammettere per arrivare a comprendere ciò di cui si sta parlando in questo articolo sotto il nome di denegazione, sebbene questo non sia ancora immediatamente visibile.
Similmente, bisogna riconoscere una dissimmetria espressa nel testo di Freud mediante due diversi termini, nonostante siano stati tradotti in francese, con il medesimo vocabolo; distinguere, cioè, tra l’affermazione a partire dalla tendenza unificatrice dell’amore, e la genesi, a partire dalla tendenza distruttrice, di questa denegazione, la cui vera funzione sta nel generare l’intelligenza e la posizione stessa del pensiero.

Camminiamo più dolcemente, però.

Abbiamo visto che Freud poneva l’intellettuale come separato dall’affettivo: che, se poi si aggiunge la modificazione desiderata attraverso l’analisi, “l’accettazione del rimosso”, la rimozione non è pertanto soppressa. Cerchiamo di rappresentarci la situazione.

Prima tappa: ecco ciò che non sono. Si è concluso ciò che sono. La rimozione sussiste sempre sottoforma di denegazione.

Seconda tappa: lo psicanalista mi costringe ad accettare nella mia intelligenza ciò ch’io negavo in precedenza; e Freud aggiunge, dopo un trattino: «Il processo stesso di rimozione non è stato ancora sollevato da ciò (Aufgehoben)».

Ciò che mi sembra assai profondo, se lo psicanalista accetta, ritorna sulla sua denegazione, pertanto, la rimozione c’è ancora! Io ne concludo che si debba dare, a ciò che si è prodotto, un termine filosofico, un termine che Freud non ha enunciato: cioè la negazione della negazione. Letteralmente, ciò che qui appare, è l’affermazione intellettuale, ma soltanto intellettuale, come negazione della negazione.
Questi vocaboli non sono presenti in Freud, tuttavia, credo che utilizzandoli si possa prolungare il suo pensiero.
È questo, ciò che s’intende spiegare.
Arrivati a questo punto, Freud (prestiamo molta attenzione a un testo tanto complicato!) è in grado di mostrare come l’intellettuale si separi [in atto] dall’affettivo, e di formulare una sorta di genesi del giudizio; insomma, una genesi del pensiero.
Mi scuso con gli psicologi che sono qui, ma non sono un grande amante della psicologia positiva in se stessa. Si potrebbe prendere questa genesi per della psicologia positiva: mi sembra più profonda, nella sua portata, intesa come afferibile all’ordine della storia e del mito.
Ritengo, inoltre, visto il ruolo che Freud attribuisce a questo affettivo primordiale, tanto che esso va a generare l’intelligenza, che si debba intenderlo come insegna il Dottor Lacan: ovvero, che la forma primaria di relazione che noi psicologicamente chiamiamo affettiva, è essa stessa situata nel campo distintivo della situazione umana, e che, se essa genera l’intelligenza, questo comporta sin dall’inizio una storicità fondamentale.
Da un lato, non esiste l’affettivo puro, tutto impegnato nel reale; e, dall’altro, l’intellettuale puro, che se ne disimpegna per riprenderlo. Nella genesi qui descritta, io vedo una sorta di grande mito, e, dietro l’apparenza della positività in Freud, c’è questo grande mito a sostenerla.

Cosa significa? Dietro l’affermazione, che cosa c’è? C’è la Verneinung, ossia l’Eros. E, dietro la denegazione (attenzione: la denegazione intellettuale sarà qualcosa di più) che cosa c’è? L’apparizione, qui, di un simbolo fondamentale dissimmetrico. L’affermazione primordiale, non è nient’altro che affermare; ma negare, è più di voler distruggere.

Il processo che ci porta, che si è tradotto per rifiuto, senza che Freud faccia uso del termine Verwerfung, è accentuato ancor più fortemente, poiché lui utilizza Ausstossung, che significa espulsione.
In qualche modo, qui si ha [la coppia formale] qualcosa di simile a due forze primarie: la forza di attrazione e la forza di espulsione; entrambe, sembra, sotto il dominio del principio del piacere. Il giudizio ha, quindi, la sua prima storia, e Freud ne distingue due tipi:

«Conformemente a ciò che ciascuno apprende dagli elementi di filosofia, ci sono un giudizio di attribuzione e un giudizio di esistenza».
«La funzione del giudizio... Deve, di una cosa, dire o disdire una proprietà, e questa deve, di una rappresentazione, o confessare o contestare l’esistenza nella realtà».
E Freud, allora, mostra ciò che vi è dietro il giudizio di attribuzione e dietro il giudizio di esistenza. Mi sembra che, per comprendere il suo articolo, sia necessario considerare la negazione del giudizio attributivo e quella del giudizio di esistenza, al di là della negazione nel momento in cui appare nella sua funzione simbolica. In fondo, non c’è ancora giudizio in questo momento d’emergenza; c’è un primo mito del fuori e del dentro, ed è questo che bisogna comprendere.
Voi sentite quale portata abbia questo mito della formazione del fuori e del dentro: è quella dell’alienazione che si forma nel caso di questi due termini. Ciò che si traduce nella loro opposizione formale, diventa alienazione e ostilità tra di loro.

Ciò che rende così dense queste quattro o cinque pagine, è dovuto al fatto che, come vedete, tutto viene messo in causa, e che si parte da osservazioni concrete, così spicciole in apparenza e così profonde nella loro generalità, fino ad arrivare a qualche cosa che travolge tutta una filosofia; noi avvertiamo tutta una struttura di pensiero.

Dietro il giudizio di attribuzione, che cosa c’è? C’è il «Io (mi) voglio appropriare, introiettare», oppure il «Io voglio espellere».

C’è “all’inizio”, sembra dire Freud, ma “all’inizio” non vuol dire altro, nel mito, che “c’era una volta” ...
In questa storia, c’era una volta un Io (intendiamo qui un soggetto) per il quale non c’era ancora nulla di strano.
La distinzione tra lo straniero e il se stesso, è un’operazione, un’espulsione. È ciò che rende comprensibile una proposizione che, emergendo così schiettamente, sembra, per un istante, contraddittoria:

«Das Schlechte, ciò che è malvagio, Das dem Ich Fremde, ciò che è estraneo all’Io, Das Aussenbefindliche, ciò che si trova al di fuori, istihm zunächst identisch, ciò che è sin dall’inizio identico».

Dunque, poco fa Freud ha affermato che si introietta e si espelle, e che c’è, dunque, un’operazione; un’operazione di espulsione senza la quale l’operazione di introiezione non avrebbe senso.
È quella, l’operazione primordiale su cui si fonda ciò che sarà il giudizio di attribuzione. Ma ciò che sta alla base del giudizio di esistenza, è il rapporto tra la rappresentazione e la percezione. Ed è qui assai difficile non comprendere il senso nel quale Freud approfondisce questo rapporto.
Ciò che importa, è che “all’inizio” è uguale e neutro sapere se quella cosa c’è oppure no. C’è. Il soggetto riproduce la sua rappresentazione delle cose partendo dalla percezione primitiva che ne ha avuto. Quando, adesso, egli dice che qualcosa esiste, la questione è di sapere [non] se questa rappresentazione conservi ancora il proprio stato nella realtà, ma se potrà o non potrà trovarla. Tale è il rapporto dove Freud mette l’accento [della prova] della rappresentazione della realtà; [egli la fonda] sulla possibilità di poter ritrovare nuovamente il suo oggetto. Questa istanza, accentuata dalla ripetizione, dimostra che Freud si muove in una dimensione più profonda rispetto a quella in cui Jung si situa, essendo, quest’ultima, una dimensione maggiormente legata alla memoria.
È qui che non bisogna perdere il filo della sua analisi (anche se io temo di farvelo perdere, vista la sua complessità e minuziosità).
Ciò di cui si trattava nel giudizio di attribuzione, era di espellere o di introiettare. Nel giudizio di esistenza, si tratta di attribuire all’Io, o, piuttosto, al soggetto (è più comprensibile) una rappresentazione alla quale non corrisponde più, ma ha corrisposto in un ritorno posteriore, il suo oggetto. Ciò che qui è in causa, è la genesi “dell’esteriore e dell’interiore”.

Si ha, qui, ci dice Freud, una “visione sulla nascita” del giudizio, “a partire dalle pulsioni primarie”. C’è, quindi, una sorta di “evoluzione finalizzata a questa attribuzione all’Io e di questa espulsione fuori dall’Io che conseguono al principio del piacere”.

“Die Bejahung”, l’affermazione, ci dice Freud, als Ersatz der Vereinigung, tanto che è semplicemente l’equivalente dell’unificazione, gehört dem Eros an, è il fatto dell’Eros”: ciò che sta alla fonte dell’affermazione, per esempio, nel giudizio di attribuzione, è il fatto di introiettare, di appropriarci del fuori anziché espellerlo.

Per la negazione, Freud non utilizza il termine Ersatz, ma usa Nachfolge. Tuttavia, l’autore francese lo traduce con lo stesso significato di Ersatz. Il testo tedesco, invece, dà: l’affermazione è l’Ersatz della Vereinigung, mentre la negazione è la Nachfolge dell’espulsione, o, più precisamente, dell’istinto di distruzione (Destruktionstrieb).

Tutto questo diventa, dunque, completamente mitico: due istinti che sono, per così dire, intrecciati in questo mito che porta il soggetto: l’uno, quello di unificazione; l’altro, quello di distruzione.
Un grande mito, lo vedete, e che ne ripete altri. Ma la piccola sfumatura per cui l’affermazione non fa, in qualche modo, che sostituirsi puramente e semplicemente all’unificazione, mentre la negazione risulta, da allora in poi, dall’espulsione, mi sembra la sola in grado di spiegare la frase che segue, dove si tratta soltanto di negativismo e di istinto di distruzione. Questo spiega, in effetti, che possa esserci un piacere di negare, un negativismo che risulta semplicemente dalla soppressione delle componenti libidinose; cioè, ciò che è scomparso da questo piacere di negare, (scomparso = rimosso) sono le componenti libidinose.
Di conseguenza, anche l’istinto di istruzione dipende dal [principio del piacere] ? Io trovo che questo sia molto importante, capitale per la tecnica. Soltanto, dice Freud, “il compimento della funzione di giudizio, non è reso possibile che dalla creazione del simbolo della negazione”.

Come mai Freud non ci dice : «Il compimento della funzione di giudizio è reso possibile dall’affermazione»?
È che la negazione va a giocare un ruolo non come tendenza alla distruzione, non all’interno di una forma di giudizio, ma come attitudine fondamentale di simbolicità esplicitata.

«Creazione del simbolo della negazione che ha permesso un primo grado d’indipendenza dagli effetti della rimozione e delle sue concatenazioni, e, conseguentemente, della costrizione (Zwang) del principio del piacere».

Frase il cui senso non mi creerebbe problemi, se non avessi da subito riallacciato la tendenza alla distruzione al principio del piacere.

C’è, infatti, una difficoltà. Che cosa significa questa dissimmetria tra la negazione e l’affermazione? Significa che tutto il rimosso possa essere ripreso e riutilizzato in una specie di sospensione, e che, in qualche modo, anziché essere sotto il dominio degli istinti di attrazione e di repulsione, possa prodursi un margine di pensiero, un’apparizione dell’esserlo sotto la forma del non esserlo, che si produce con la denegazione, ossia dove il simbolo di negazione è riallacciato all’attitudine concreta della denegazione.

Poiché è così che bisogna comprendere il testo se si ammette la sua conclusione, la quale, inizialmente, mi è parsa un po’ strana.

«A questo modo di comprendere la denegazione, corrisponde benissimo che non si scopra alcun “non” a partire dall’inconscio...»

Tuttavia, vi si può trovare della distruzione. È necessario, quindi, separare l’istinto di distruzione dalla forma di distruzione, perché, altrimenti, non si comprenderebbe affatto ciò Freud intende dire. Bisogna scorgere, nella negazione, un’attitudine concreta all’origine del simbolo esplicito della negazione; questo simbolo esplicito è il solo capace di rendere possibile qualcosa come l’utilizzo dell’inconscio, mantenendo comunque la rimozione.

Questo mi pare essere il senso della fine della frase conclusiva : «... E che il riconoscimento dell’inconscio da parte dell’Io si esprima con una formula negativa».

È là, il riassunto: non si trova, nell’analisi, alcun “non” a partire dall’inconscio, ma il riconoscimento dell’inconscio da parte dell’Io, mostra che lo ‘Io” è sempre ignoranza; anche nella conoscenza da parte dell’Io si trova sempre, in forma negativa, l’osservazione della possibilità di detenere l’inconscio, sempre rifiutandola.

«Non c’è prova più forte che siamo riusciti a scoprire l’inconscio dal momento che l’analizzato reagisce con questa frase: “Non ho pensato a questo” oppure “sono ben lungi dall’aver [mai] pensato a quello”».

C’è, quindi, in questo testo di Freud di quattro o cinque pagine, rispetto al quale mi scuso per aver mostrato qualche difficoltà a trovare ciò che credo esserne il filo conduttore, da una parte l’analisi di questo tipo di attitudine concreta, che si libera dall’osservazione stessa della denegazione; dall’altra parte, la possibilità di vedere l’intellettuale dissociarsi in [atto] dall’affettivo; infine, e soprattutto, una genesi di tutto ciò che precede al livello del primario, e, di conseguenza, l’origine del giudizio e del pensiero stesso (sotto la forma del pensiero come tale, poiché il pensiero è già ben prima, nel primario, ma non è inteso come pensiero) colta attraverso l’intermediazione della denegazione.


Jean Fautrier, Tête d'otage - nº 1, 1943


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