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2012


Philosophical culture quarterly


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Sul rappresentazionale
A cura di Jacopo Valli




Cinema come cognizione: osservazioni preliminari
di Paul Sharits
(Traduzione di Jacopo Valli e Gerardo Moscariello)


28 dicembre 2013


Premessa: v’è la possibilità di sintetizzare vari, o addirittura contradditori concetti di percezione-coscienza/conoscenza-senso in un modello sistemico unificato e aperto (auto-riorganizzantesi), attraverso un’analisi rigorosa ed accurata dei più fondamentali livelli di ciò che io chiamo “cinema”. Bisogna guardare “al di sotto” del livello di utilizzo del cinema (le sue tipiche funzioni di “documentazione” e “narrazione”) verso le sue infrastrutture, verso le sue particelle significanti elementari. I film devono esser fatti in modo da amplificare le infrastrutture generali del cinema. Tale operazione è insolita in quanto, da un lato, bisogna (speculativamente) analizzare il cinema — costruendo modelli micromorfologici di struttura/funzione — in modo da ricostruire il cinema stesso. Due implicite sub-premesse sono “ciberneticamente” legate l’un l’altra. Primariamente: il cinema è sistema concettuale; secondariamente: vi è un senso sommerso afferibile ai livelli materiali-primari (“supporto”) dell’apparato cinematografico. In quest’ottica, sia il tipo di analisi “strutturalista” (anti-fenomenologica) proposta da Lévi-Strauss, sia l’analisi “fenomenologica” proposta in precedenza da Husserl, devono essere in qualche modo interfacciate per quanto improbabile possa sembrare.

Dopo svariati anni di coinvolgimento con la pittura, dai primi anni fino alla metà del 1960, ho poi abbandonato questo sistema, poiché non mi sembrava essere sufficientemente complesso per un’indagine filosofica generalizzata. La temporalizzazione di ciò che io chiamo “segni” nel cinema e l’ironia ri-rappresentazionale della proiezione del film-segno (la “granulosità” che si vede sullo schermo primariamente significa la granulosità stessa dell’emulsione della pellicola e solo successivamente significa, indicativamente, formazioni iconiche afferibili a precedenti spazio–tempi) presta all’impresa filmica un corredo di caratteristiche che ricordano i processi della conoscenza umana. Quando il cinema è visto nel modo che propongo, la sua analisi diventa così difficile e complessa da richiedere un team di ricerca investigativa che adoperi gli strumenti della linguistica, della matematica, dell’informazione, della teoria, dello strutturalismo, della fenomenologia, della psicofisiologia, della cibernetica, dei sistemi generali e della semiologia (incluse le sue implicazioni psico-analitico-politiche). Lo studio di una qualsiasi di tali materie è necessariamente l’ossessione di una vita ed io non ho pretese di aver pienamente compreso nemmeno una di queste. Cionondimeno sono più interessato al pensiero di certe figure come Wittgenstein, Peirce, Husserl, von Bertalanffy, Chomsky, Saussure e Derrida piuttosto che a certi storici o critici dell’arte. Non è sempre stato così, ma, dal 1971, ho considerato l’”arte” meramente come strumento, conveniente strumento, per generare un corpo di lavori filmici che fosse proposizionale (piuttosto che formale o espressionale).

Mi è stata posta la domanda: «Da quando l’Arte Concettuale impiega svariate note scritte, è, per lei, l’uso del film un sostituto del linguaggio scritto o una semplice “registrazione” delle sue performance fisiche?» («Questa domanda è probabilmente più utile per gli Artisti Concettuali che fanno film. Ma è difficile definire la sua posizione tra artista e filmmaker. Non trova?») [lettera da Ester Carla de Miro d’Ajeta, Università di Genova, Italia]. Poiché ho imparato la forma, e rispetto il lavoro di entrambi questi “gruppi”, mi risulta complicato rispondere alla domanda. Nonostante il fatto che i miei lavori più filosoficamente inquadrati, dal 1971 in avanti — spogliati delle strutture psicologico-drammatico-emozionali e delle “tattiche formaliste” dei miei lavori dal 1965 al 1971 — siano stati meglio accolti in contesti di gallerie d’arte museali piuttosto che in contesti di arte teatrale (“film-making”), non guardo a me stesso sia come “film-maker” che come “artista che fa i film”; piuttosto, guardo la mia attività come prototeoretica e mi considero un artigiano del cinema infrastrutturale. Se i miei modelli proposizionali falliscono nell’equivalere ad oggetti filosofici, allora sono, dovrei sperare, ponderati documenti analitici di rappresentazione temporalizzata. Ad ogni modo, in tutta umiltà, sono particolarmente grato al mondo delle gallerie-museo per avermi fornito le più fruibili ubicazioni, entro le quali, i miei più ambiziosi display proposizionali potessero funzionare. Secondo me, il modo teatrale lineare-direzionale-finito dello schermo filmico è strutturalmente antitetico rispetto alle più generali previsioni che avrei voluto progettare. Eppure, molti dei miei lavori sono fatti per questo modo di studio spazio temporale, proprio come le mie frasi ed i miei discorsi hanno la loro sequenzialità, e inizi e fini; ma, questi lavori, come le mie frasi ed i miei discorsi, sono solo frammenti, frammenti che, in una prospettiva eventuale, dovranno sincronicamente riflettersi vicendevolmente e quello che è deflesso verso l’esterno, attraverso questo indubbiamente fallace sistema paradigmatico, equivarrà forse alla definizione di cognizione. Innecessario specificare che una buona parte di ciò che costituisce il paradigma non saranno singoli o molteplici film proiettati ma anche diagrammi, film come oggetti, linguaggi scritti e qualsiasi altra cosa fosse necessaria a formare l’unione e l’interruzione tra i lavori proiettati, cosa che permetterà loro d’esser letti da altri.

Le mie esibizioni “locazionali” possono essere pensieri di un microcosmo concernenti il tipo di paradigma che ho proposto. In uno spazio “galleria–museale” posso mostrare insieme non solo l’esito di un’indagine (un film o un frammento di svariati continuanti, riciclanti, film variazionali-permutazionali in-relazione-l’un-l’altro) ma l’intera intenzione e processo creativo che ha formato il/i film/s (l’infrastrutturale “Blow Up”). In uno spazio approssimativo chiunque può osservare: graffi che hanno generato il film; film come oggetto (visto come nastri fisici serialmente arrangiati ed incapsulati in fogli di Plexiglass); la proiezione della mia mia analisi del suddetto film oggetto. Potrebbero anche esserci, a seguire, diagrammi e disegni riguardanti le risultante dell’indagine. Il critico di “mentalità estetica” potrebbe trovare una tale simultanea presentazione di concetti, sconcertante o fastidiosa, poiché egli rifiuta di collocare il significato di tale presentazione in un oggetto o in una gerarchia d’oggetti ed anche perché la riflettività sincronica delle parti implica l’intendere l’intenzionalità come un problema. Ad ogni modo, il critico, può facilmente ignorare il design paradigmatico dell’esibizione e godere nell’osservare gli elementi del sistema come oggetti discontinui.

Questa lettura [del film-oggetto], tradizionale ed estetica, è in qualche misura comprensibile; Eppure, così come ho tentato di spiegare in queste note, è la logica paradigmatica ad essere coinvolta nella tipologia di film che mi interessa.

Sono interessato alle domande che possono suggerire non domande come “Cosa costituisce uno scatto?” o “Che codice è impiegato nella “funzione zoom”?”, ma domande profonde, riguardanti la particella granulare, il fotogramma e la sua durata, l’otturatore e la sua rotazione ed altre unità infrastrutturali dell’informazione, la significanza e il senso.

Gérard Schneider, Ohne Titel, 1968-1970


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