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A cura di Jacopo Valli




Immediatismo
di Peter Lamborn Wilson
(Traduzione di Jacopo Valli)


da «The Radio Sermonettes of The Moorish Orthodox Radio Collective», 1992.

28 dicembre 2013


C’è un tempo per il teatro. Quando la fantasia di un popolo viene meno, sorge in esso la fantasia a farsi rappresentare sulla scena le sue leggende, esso sopporta allora i grossolani surrogati della fantasia — ma per quell’età a cui appartiene il rapsodo epico, il teatro e il fattore travestito da eroe sono un ostacolo invece che un’ala alla fantasia: troppo vicini, troppo determinati, troppo pesanti, troppo poco sogno e volo d’uccello.

(Friedrich Nietzsche)

Eppure certamente il rapsode, che qui appare essere indirettamente correlato allo shamano (“[...] sono e volo d’uccello”), deve anche essere considerato una sorta di medium o ponte stante tra “un popolo” e la sua immaginazione. (Nota: useremo il termine “immaginazione” talvolta nel senso di William Blake e talaltra nel senso di Gaston Bachelard, senza optare per una determinazione “spirituale” o “estetica”, e senza ricorso alla metafisica). Un ponte trasmette (“traduce”, “metaforizza”), ma non è l’originale. E tradurre è tradire. Anche il rapsode fornisce un poco di veleno per l’immaginazione.

L’etnografia, tuttavia, ci permette di affermare la possibilità di società dove gli sciamani non sono specialisti dell’immaginazione, ma dove ogni individuo è un tipo speciale di sciamano. In queste società, tutti i membri (eccezion fatta per i fisicamente handicappati) agiscono come sciamani e bardi per se stessi e per le loro genti. Per esempio: certe tribù Amerinde delle Grandi Pianure svilupparono le più complesse di tutte le società di caccia/raccolta piuttosto tardi nella loro storia (forse in parte grazie alla pistola e al cavallo, tecnologie adottate dalla cultura Europea). Ogni persona acquisiva completa identità e piena appartenenza a “la Gente” solo attraverso il Rito della Visione, e nella sua messa in atto per la tribù. Perciò ogni persona diveniva un “rapsode epico” nello scambio di questa individualità con la collettività.

I Pigmei, tra le più “primitive” culture, non producono né consumano la loro musica, ma divengono en masse “la voce della foresta”. Da un’altra parte, tra le società agricole più complesse, come Bali all’orlo del Ventesimo secolo, “ognuno è un artista” (e nel 1980 un mistico giavanese mi ha detto: “Onuno deve essere un artista!”).

Il fine dell’Immediatismo giace da qualche parte lungo la traiettoria grossolanamente descritta entro questi tre punti (Pigmei, Grandi Pianure, Bali), che sono tutti stati connessi al concetto antropologico di “sciamanismo democratico”. Gli atti creativi, essi stessi risultati esteriori dell’interiorità dell’immaginazione, non sono mediati e alienati quando sono trasmessi da ognuno per ognuno — quando sono prodotti ma non riprodotti — quando sono condivisi ma non feticizzati. Certamente, questi atti sono prodotti attraverso una mediazione di qualche tipo ed entità, poiché sono atti — ma essi non sono divenuti forse di alienazione estrema tra esperto/sacerdote/produttore da una parte e qualche sventurato “inesperto profano” o consumatore dall’altra.

Differenti media conseguentemente mostrano differenti gradi di mediazione — e forse essi possono anche essere organizzati su tale base. Qui ogni cosa dipende dalla reciprocità, dal più o meno equivalente scambio di ciò che potrebbe essere chiamato “quanti di immaginazione”. Nel caso del rapsode epico che media visione per la tribù, una gran mole di lavoro — o sogno attivo — rimane da compiere per gli uditori. Essi debbono partecipare immaginativamente all’atto di raccontare/ascoltare, e debbono essi stessi evocare immagini dalla propria riserva di potenza creativa per completare l’agire del rapsode.

Nel caso della musica Pigmea la reciprocità diviene prossima alla massima forma di completezza, dacché l’intera tribù media visione soko e precisamente per l’intera tribù stessa; — mentre per il Balinese, la reciprocità assume un’economia più complessa nella quale la specializzazione è altamente articolata, nella quale “l’artista non è un tipo speciale di persona, ma ogni persona è un tipo speciale di artista”.

Nel “teatro rituale” di Voodoo e Santeria, ogni presente deve partecipare visualizzando i Loa o Orisha (archetipi immaginali), e richiedendone (con canti e ritmi appropriati) la manifestazione. Ogni presente può diventare un “cavallo” o medium per uno di questi santos, le cui parole ed azioni assumono poi per i celebranti l’aspetto della presenza degli spiriti (per esempio, la persona posseduta non rappresenta ma presenta). Questa struttura, che sta alla base del teatro rituale indonesiano, può essere presa come esemplare per la produzione creativa di “sciamanesimo democratico” . Al fine di costruire la nostra scala immaginativa per tutti i media, potremmo iniziare comparando questo “teatro voodoo” col teatro europeo del Diciottesimo secolo descritto da Nietzsche.

Più tardi, nulla della originaria visione (o “spirito”) è propriamente presente — tutto è “mascherato”. Non ci si aspetta che alcun membro della compagnia o del pubblico si ritrovi improvvisamente impossessato (o anche solo “ispirato” ad un certo grado) dalle immagini del drammaturgo. Gli attori sono specialisti o esperti della rappresentazione, mentre il pubblico è composto da “profani” ai quali le immagini sono trasferite. Il pubblico è passivo, troppo è fatto per il pubblico, che invero sta immobile al buio ed in silenzio, immobilizzato dai soldi che ha pagato per questa esperienza delegata.

Artaud, che realizzò tutto ciò, tentò di ripristinare il teatro rituale voodoo (bandito dalla cultura occidentale da Aristotele) — ma portò avanti il tentativo entro i limiti della struttura propria (attore/pubblico) del teatro aristotelico; egli provò a distruggerlo o a mutarlo dall’interno. Egli fallì e impazzì dando avvio ad una serie di esperimenti che culminarono nell’assalto del Living Theater alla barriera attore/pubblico, un effettivo assalto che tentò di forzare i membri del pubblico a “partecipare” al rituale. Questi esperimenti produssero alcuni grandi momenti teatrali, ma tutti i profondi propositi fallirono. Nessuno riuscì ad abbattere l’alienazione che Artaud e Nietzsche ebbero a criticare.

Ciononostante, il teatro occupa maggior spazio nella scala immaginale di quanto non facciano gli altri e successivi media come il film. Almeno, nel teatro, gli attori ed il pubblico sono fisicamente compresenti nello stesso spazio, permettendo la creazione di ciò che Peter Brook chiama “l’invisibile catena d’oro” dell’attenzione e dell’empatia tra attori e pubblico — la ben nota “magia” del teatro. Col film, tuttavia, la catena è spezzata. Ora il pubblico siede solo al buio con nulla da fare, mentre gli attori assenti sono rappresentati da icone giganti. Sempre allo stesso modo indipendentemente dal numero di volte in cui viene “mostrato”, fatto per essere riprodotto meccanicamente, privato di ogni “aura”, il film propriamente vieta al pubblico di partecipare — il film non ha bisogno dell’immaginazione del pubblico. Certamente, il film ha bisogno dei soldi del pubblico, ed i soldi sono una sorta di residuo immaginale concretizzato, dopo tutto.

Eisenstein farebbe notare che il montaggio stabilisce una tensione dialettica nel film che coinvolge la mente dello spettatore — intelletto ed immaginazione — e Disney potrebbe aggiungere (se fosse capace di ideologia) che l’animazione aumenta questo effetto perché essa, in effetti, è completamente prodotta attraverso il montaggio. Anche il film ha la sua “magia”. Ci mancherebbe. Ma dal punto di vista della struttura abbiamo percorso una lunga via dal teatro voodoo allo sciamanesimo democratico — e siamo pericolosamente giunti nei pressi della mercificazione dell’immaginazione, e dell’alienazione delle relazioni d produzione. Abbiamo quasi del tutto licenziato la nostra capacità di volare, anche col sogno.

I libri? I libri come media trasmettono solo parole — non suoni, visioni, odori o sensazioni tattili, tutte cose che sono lasciate all’immaginazione del lettore. Bene... Ma non v’è nulla di “democratico” nei libri. L’autore/editore produce, tu consumi. I libri interessano alla gente “immaginativa”, forse, ma tutta l’attività immaginale di tale gente è passiva, e concerne il sedere soli con un libro, lasciando che qualcun altro racconti la storia. La magia dei libri ha qualcosa di sinistro in ciò, come si può dire della libreria di Borges. L’idea della Chiesa di un indice dei libri proibiti probabilmente non si spinge abbastanza lontano — poiché in un certo senso tutti i libri sono condannati. Lo eros del testo è una perversione — sebbene, tuttavia, una perversione alla quale noi siamo assuefatti, e della quale non abbiamo alcuna fretta di sbarazzarci.

E per quanto concerne la radio, essa è chiaramente un medium di assenza — come il libro ma ancor di più, giacché i libri ti lasciano da solo alla luce; la radio, al buio. La più esacerbata passività dell’”ascoltatore” è rivelata dal fatto che gli inserzionisti paghino per gli spot radiofonici, e non per avere spot nei libri (o non così tanto). Tuttavia, la radio lascia una mole di “lavoro” immaginativo all’ascoltatore ben più grande di quella che, per esempio, la televisione lascia allo spettatore. La magia della radio: uno può usarla per ascoltare le radiazioni provenienti dalle macchie solari, le tempeste su Giove, il ronzio delle comete. La radio è fuori moda; in ciò giace la sua seduttività. Il predicatore radiofonico: “Mettete le vostre maaani sulla radio, fratelli e sorelle, e sentite il potere cuuuratiiivo della Parola!”. Radio Voodoo?

(Una simile analisi può essere fatta per la musica registrata: per esempio, essa è alienante ma non ancora alienata. I dischi hanno rimpiazzato la musica amatoriale prodotta in famiglia. La musica registrata è ubiqua e troppo facile da reperire — al punto che ciò che non è presente non è raro. E ancora molto v’è da dire sui vecchi 78 giri scricchiolanti suonati dalle stazioni radio a notte fonda — un lampo d’illuminazione che sembra balenare attraverso rutti i livelli di mediazione raggiungendo una paradossale presenza).

È in questo senso che potremmo forse dare credito alla altrimenti dubbiosa affermazione: “la radio è buona e la televisione è cattiva!”. Poiché la televisione occupa l’ultimo gradino della scala riguardante media ed immaginazione. No, non è vero. La “Realtà Virtuale” occupa un gradino ancor più basso. Ma la TV è il media al quale i situazionisti si riferiscono quando parlano di “Spettacolo”. La televisione è il media che l’Immediatismo intende propriamente abbattere. I libri, il teatro, il film e la radio pertengono tutti a ciò che Benjamin chiamò “la traccia utopica” (almeno in potentia) — l’ultimo vestigio di un impulso contro l’alienazione, l’ultimo profumo di immaginazione. Ad ogni modo, la TV ebbe inizio cancellando anche quella traccia. Non sorprende che i primi broadcasters furono i Nazisti. La TV è per l’immaginazione ciò che il virus è per il DNA. La fine. Oltre la TV giace solo il reame infra–mediale del non–tempo/non–spazio, dell’istantaneità e estasi della CommTech, la pura velocità, il downloading di coscienza nella macchina e nel programma — in altre parole, l’inferno.

Ciò significa che l’Immediatismo voglia “abolire la televisione”? No, certamente no — perché l’Immediatismo vuole essere un gioco, non un movimento politico, e certamente non una rivoluzione col potere di abolire qualsivoglia medium. Il fine dell’Immediatismo deve essere positivo, non negativo. Non sentiamo la vocazione ad eliminare qualche “mezzo di produzione” (o anche di ri-produzione) che potrebbe dopo tutto in qualche modo ricadere nelle mani della “gente”.

Abbiamo analizzato i media interrogandoci su quanto l’immaginazione sia coinvolta in ognuno di essi, e sui rapporti di reciprocità implicati, esclusivamente al fine di rendere per noi stessi effettivi i più efficaci mezzi di risoluzione del problema delineata da Nietzsche e vissuto così dolorosamente da Artaud, il problema dell’alienazione. Per questo fine, abbiamo bisogno di una rozza gerarchia dei media, un mezzo per misurare il loro potenziale in relazione ai nostri fini. Volgarmente, quindi, più l’immaginazione è liberata e condivisa, più il medium è servibile.

Forse non possiamo più invocare spiriti affinché ci posseggano, o visitare i loro regni come gli sciamani facevano. Forse spiriti del genere non esistono, o forse siamo troppo “civilizzati” per riconoscerli. O forse no. L’immaginazione creativa, in ogni caso, rimane per noi una realtà — ed una realtà che dobbiamo sperare, anche nella vana speranza della nostra salvezza.


André Lanskoy, Contre attaque, 1959


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