Kasparhauser
come si accede al pensiero





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2012


Philosophical culture quarterly


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Sul rappresentazionale
A cura di Jacopo Valli




Noia e senso
di Jacopo Valli


La philosophie doit être ontologie, elle ne peut pas être autre chose; mais il n’y a pas d’ontologie de l’essence, il n’y a d’ontologie que du sens.

(Gilles Deleuze)

Ogni umano — ma anche ogni altro ente/modo, con la differenza che l’umano, per ragioni neurofisiologiche, vive la proiezione temporale in modo differente da altri animali non umani, e da altri enti vegetali, minerali, et cetera — è sia tempo che spazio, che in sé non esistono, coincidentemente. Nondimeno: valutando la questione in senso percezionale, antropologico, concernente le modalità di produzione esistenziale, ritengo che gli umani siano più temporali che spaziali; e aggiungo che la ferita d’accesso alla coscienza del proprio essere morenti, del proprio essere il proprio stesso morire/vivere, è secondo me la noia (e non serve stare in una baita nella foresta nera per sentirla: va bene anche una spiaggia californiana, un bistrot belga, una strada trafficata di Las Vegas o Milano...), l’oppressione di un indefinito senso del tempo come Altro e schiacciante — e per Bataille il tempo è il desiderio che il tempo non esista —, o meglio, l’oppressione di un desiderio “represso” o forse non cosciente, e disattivato (per Leopardi, la noia è il desiderio di felicità allo stato puro: io non so cosa voglia dire puro; anzi, ritengo non significhi nulla in sé; tuttavia, in questo caso, intendo il termine “puro” in un senso a mio parere più corretto, al di là del comune senso attribuitogli, in un senso più propriamente immanente e afferibile al possibile): come nel passaggio dal “nichilismo” passivo a quello attivo: il chiaroveggente non vede ciò che crede di vedere come Altro che prende per vero (questo è dei finti visionari amanti del noumenico, ed è quanto troppo spesso si ritiene accada ai chiaroveggenti intesi come coloro che leggono il futuro e altre turpi dabbenaggini exoterico-superstiziose), sulla scorta di tante pre-comprensioni e di una volontà di senso, irrazionale [nondimeno mossa da desiderio, germinalmente estetico]: egli vede che nulla di Altro c’è da vedere; ossia, si disfa della rappresentazione; o meglio, della rappresentazione univoca e/o percepita come Verità particolare, stabile, come senso/verità/forma del Mondo, come se questo non fosse invece senso/verità/forma di se stesso, cioè senza senso ma senso di sé (l’assenza di senso non è il Nulla di senso): possibile immanente — perché non si esce dalla rappresentazione, ma ci si può disidentificare da essa, da una rappresentazione cristallizzata in Verità, in senso unico — e prende coscienza del fatto di non essere escluso dal gioco che [anch’egli] È, di non essere disattivato ed impossibilitato ad agire in un contesto — immaginale, anche, primariamente —, che, piatto, vede come statico e inerte, come un possibile però visto come sbiadito, come grigio, dove questo grigio non è riconosciuto come già anche colore dantesi in complesse plurime nuances (se la metafisica serve a far fuori la metafisica; se al “metafisico” tutto può occorrere, gnosticamente: Henri Matisse ci/si rivela che il nero è già anche colore; Gerhard Richter ci/si ricorda che l’occhio umano riconosce circa 400 sfumature di grigio: anch’esso colore, e non celeste condanna e sciabola di boia).


Gerhard Richter, Wolken, 1969


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