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Rahamim. Lingua, terra, misericordia
A cura di Francesca Brencio




L’oltrepassarsi corporeo del divenire fecondo
di Antonella Pierangeli


Sttembre 2013


È come una luminosità dissonante prima della folgore. Tutto accade quando il buio deposto sul fondo delle viscere dissente dalla tenebra e rivela la sua inaccessibilità. In questa armonia oscura, ancora inattingibile, solo il desiderio dà forma a qualcosa che ancora manca, nella ricerca di un’immagine che infrange ogni anticipazione, irrompe nel ricamo immaginativo inaugurato dallo sguardo e abbandona lo stato acquatico e germinante del desiderio alla sua piena incarnazione.

Un tocco di materia soffiante che giunge inaspettato, preso nel suo guizzante materializzarsi, può rendere contatto primordiale con l’essere quel maestoso abisso di materia soggiacente che è rehém, utero, guscio di corporeo strazio, accogliente arcano maggiore, il cui sangue precipita a fiotti da altezze segrete per farsi lingua della pre-nascita, carne ancora muta di tutte le nostre parole.

La reale intensità di un corpo di donna — madre feconda intraducibile e forte, ospite accogliente di una pluralità di parti — porta dunque sempre inscritta in sé la sua cifra più segreta, più forte di qualsiasi altra marchiatura di senso: la proliferazione senza fine della soggettività umana, colta nel suo dispiegamento materico, organico, di girino muto in un acquario corporeo in cui il cuore passi da un corpo all’altro e le parole s’incidano, con dolore, nell’alfabeto orfico della nudità prenatale.

Così, sebbene sembri il simbolo stesso della singolarità, il corpo in effetti non può che essere a pezzi. La sua pluralità è conquistata solo nel momento in cui esso nasce, conservando memoria di labirinti, di forme, di parole, di discontinuità permanenti, di separazioni. Espulso da un non-luogo esclusivo, di sacrale anestesia della coscienza, il corpo trova così, nello spazio antistante le sue umbratili tracimazioni, lo scarto tra il placido nulla dell’iperuranio uterino e la deriva assoluta della propria centralità nel mondo.

Nella sua esclusività, questa dicotomia malinconica diviene parola per sforzo di ermeneusi, si deposita nel fondo della propria aporia e si fa informe, sovvertendo ogni principio di linearità.

È così che il cuore aperto che si chiude sul proprio battito, riprende forza, si anima, deborda dai limiti che conosceva prima. La fecondità del ventre si congiunge carnalmente alla cantabilità della parola, la fusione dell’etimo si compie sulla pelle, sulla carne, diviene un segno di riconoscimento, il codice della sua rivelazione, irrompendo come nudo fatto, in tutta l’intensità della sua crudezza.

È allora che assume il tocco della grazia, invadente e invasivo, evocando una memoria emozionale che è articolazione ipertrofica del legame profondo tra viscere e cuore. Rahamìm, viscere, è infatti il plurale di rehém utero.

Esprime l’amore nel suo stato di grazia, il prendersi cura di ciò che è infinitamente piccolo per portarlo a compimento; è slancio materno e paterno. Rappresenta la sfida che deriva dall’amare l’altro, offerta come un dono dalla pienezza della fecondità.

Il paradigma fondante per dissonante fecondità è infatti solo quello che è tangibile anche biologicamente. La madre diviene feconda nel proprio figlio. Essa si riprende, si raccoglie nel suo “corporalizzarsi” — si fa vuota — per offrire spazio in se stessa al figlio, che nutre con la propria carne e il proprio sangue. Gli dona la vita con l’accoglierlo attraverso il suo temporalizzarsi e, simultaneamente, gli offre spazio. In tal senso, la fecondità diviene quel fenomeno in cui arriva in maniera emblematica, all’accadere del raccoglimento: rimettendomi a ciò che è altro, pervengo a me stesso.

Il “fare vuoto” dentro di sé, proprio della madre che accoglie nel suo grembo il figlio, è il temporalizzarsi dell’ “io sono” corporeo che, nell’oltrepassarsi, accoglie il dono e coglie se stesso come colui al quale viene fatto lo stesso dono: lo straziante “mio corpo per te”.

Non è forse da questo gesto fondamentale dell’essere che scaturisce ogni pienezza e sacralità? Nell’accadimento dell’oltrepassarsi corporeo, a cui l’Altro nella sua corporeità invita? In questo senso, la carne diventa parola per il solo fatto di venire dalla carne e dal sangue della madre, a sua volta centro di ogni parola.

Ma che cosa significa questo divenire feconda della madre nel proprio “corporalizzarsi”? Significa che la madre ama nel figlio delle possibilità che essa stessa non aveva e che vanno al di là delle sue personali, attraverso il temporalizzarsi del figlio, che è la madre e insieme non lo è.

Allo stesso modo, il figlio è il padre e, simultaneamente, non lo è. Ma nel figlio, in cui il padre diviene a sua volta fecondo, il padre acquisisce parimenti possibilità non realizzate che aveva nel proprio corpo. In tal modo, nella fecondità, si mostra anche il senso del mortale Dasein corporeo, senso che va al di là delle sue capacità e che, al tempo stesso, le esige pienamente.

Il senso della nostra corporeità sta, in linea di principio, nella maternità, nella trascendenza della fecondità, nella “misericordia delle viscere” (come dice Lévinas impiegando il termine ebraico rahamim) in cui s’annida quello che possiamo definire il passato pre-ontologico della maternità, il farsi garanti con il proprio corpo della vita dell’altro: misericordia, “commozione di visceri”, sensibilità, responsabilità, espiazione.

Essere responsabili di un altro in un costante trascendersi, consapevoli e insieme fiduciosi che quell’oltrepassarsi è un debordare a tutti gli effetti dell’intensità di un impegno immenso, può significare l’intuizione inappellabile del compimento di una sacralità che disvela, nella comprensione originaria di questa espressione, l’alfa e l’omega nel divenire fecondi, con il proprio corpo, per l’altro.

Un brivido nelle viscere che diventa spasimo, a dispetto di ogni volontà di possesso, che trabocca e si rivela nell’amore supremo come se trovasse l’inizio per una nuova lingua, disabitata e spogliata della sua egotica visione e tutta avvinta al suo compimento.


Antonella Pierangeli (Roma, 1964). Ha tenuto corsi di lingua italiana presso il Dipartimento di Studi Romanzi dell’Università di Utrecht e svolto seminari su Anne Sexton presso il Dipartimento Vrouwen Studies del medesimo ateneo. Ha pubblicato saggi su varie riviste letterarie e storiografiche tra cui L’Area di Broca, Vernice, Storia & Storici. Ha curato l’apparato bibliografico del volume Romanzi e Racconti di P.P. Pasolini nei Meridiani Mondadori (1998). Ha inoltre collaborato con il Fondo Pasolini e il Gabinetto Vieusseux di Firenze, collazionando le carte di autori come Pasolini, Penna, Montale. Ha curato il volume Pasolini, visioni e profezie tra presente e passato (Sulle orme della Storia) (GoWare, 2012).



Mark Rothko, No. 17 Green on blue on blue, 1957


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