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Rahamim. Lingua, terra, misericordia
A cura di Francesca Brencio




Ritorno alla parola
di Francesca Brencio

Settembre 2013


“Nuotatrice prigioniera dell’eterno, senti la corrente? Tu che già desideri, già rimpiangi […].
Eva disobbediente, creata per questa disobbedienza che doveva fendere l’eternità e farne sanguinare il fiotto ambiguo di linfa, grazie al quale tutto è iniziato in un unico istante: la coscienza e il tempo, il nome dell’inizio, la scelta di vivere e il sapere della morte.
E la possibilità di obbedire”


J. Hersch*


Rahamim — Nella lingua delle madri al tempo di Gesù indica il grembo della donna, l’utero; deriva da Rehem e la sua origine è strettamente connessa con la maternità. Nella lingua italiana questa parola è tradotta con “misericordia”, spesso è affiancata ad hesed indicando la bontà originaria e costitutiva di Dio, il suo amore sorgivo: «Ti farò mia sposa per sempre nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza (hesed) e nell’amore (rahamim)» (Os. 2, 21). Così, nell’ora della morte o della prova viene invocato Rehàm alei, Adonì, (ביאדו ,עלײ רחם,) “abbi misericordia di me, o Signore”.
Ma non solo. Rahamim rimanda anche ad uno dei novantanove nomi di Allah, “Al Rahim”, “il misericordioso”: Bi-smi ’llāhi al-Rahmāni al-Rahīmi, “nel nome di Dio, il Clemente il Misericordioso” recita la formula araba con cui si aprono tutte le Sure del Corano (eccetto la IX).
Il luogo si fa sentimento.
Il sentimento diventa la sostanza.
La sostanza accenna a Dio
.
Nella traduzione si gioca la storia della relazione dell’uomo alla terra, alla lingua, alla natalità — e per finire a Dio: nell’atto in cui il grembo diventa misericordia l’uomo nasce nel mondo già segnato dalla sua relazione con esso in direzione di un’appartenenza. È un nodo doppio: il legame con la terra è il legame con la lingua.
Nella triade terra, lingua, natalità si declina rahamim: prima ancora che una parola, un luogo. Rehem è della donna il suo costituivo, il suo proprium: la donna è il suo grembo e il contrario di esso:
La donna sarà il frumento della sua casa, quindi la donna sarà il pane quotidiano, quindi la donna sarà il male e la pietà per il male, il bene e la pietà per il bene. Quindi la donna avrà in sé tutte le contraddizioni care a Gesù: la tenerezza e l’oblio, la condanna e l’assoluzione, il parto e il figlio, la luce e la tenebra. [1]
La topologia di Rahamim, l’esser luogo dell’accoglienza, è il luogo della domanda, quella medesima domanda che sin dal Genesi percorre la storia dell’uomo: “dove?”. In Rahamim il “dove” è provenienza, non destinazione; è miracolo della nascita, non condanna e giudizio; è «il miracolo che salva il mondo […] dalla sua normale, “naturale” rovina» [2]: Rahamim è parola di natalità.
Il luogo è l’origine.
L’origine è la parola.
La parola racconta la carne.
L’origine è il ventre.
La parola dell’origine è una parola della carne: la poesia è il vivere secondo la carne. Rahamim diventa las entrañas nella lingua spagnola, la sede dei sentimenti. Questa declinazione dal ventre alla poesia attraverso il linguaggio ci viene consegnata intatta dalle parole di Maria Zambrano.
La parola della poesia è sempre poesia della carne, è il sentire, è l’elemento passionale e viscerale che scandisce il tempo del vivere.
La poesia, insegna la Zambrano, ha rinunciato all’eternità a favore di un tempo sfilacciato, sospeso, fragile — un tempo che è istante, un tempo che non abbraccia i lineamenti dell’Eterno ma sceglie la sensazione come sua guida. In tal senso, la parola della poesia è una parola incarnata, perché del corpo diventa l’oggetto; è una parola appassionata, perché canta la passione che proviene dal sentire; è una parole disperata perché non contempla nessuna forma di teodicea e non avalla le lusinghe della filosofia. [3] La parola della poesia non pretende di togliere all’Ade il suo miasma pestilente [4]; la parola della poesia è la parola della rivolta che non accetta nessun compromesso con l’Eterno e reclama con forza la durevolezza e la persistenza del suo oggetto. La parola della poesia è l’eterno presente del sentimento che non sconfina in regioni metafisiche.
La poesia si aggrappa all’istante e non ammette le speranze, le consolazioni della ragione […]. Nei tempi moderni, la desolazione è venuta dalla filosofia e la consolazione dalla poesia […]. Il poeta oblia ciò che il filosofo si affanna a ricordare ed ha sempre presente, in ogni istante, ciò che il filosofo ha allontanato per sempre da sé. [5]
Il vero termine di frattura è proprio lì, in quella frase: “ciò che il filosofo si affanna a ricordare”, volendo trovare una spiegazione o forse una soluzione, o forse ancora una consolazione: il vero spartiacque è la morte. Se la parola della poesia è frutto del ventre ed è parola di natalità, non potrà mai venir a patti con la morte, perché la morte è proprio ciò contro cui si ribella.
Forse in ciò sta la fedeltà paradossale della poesia alla parola ed alla morte: a differenza della filosofia che vuole appropriarsi della morte per renderla pensabile e superabile e che nel compiere ciò si appropria della parola, la poesia rinuncia sin da subito a queste appropriazioni. Il servizio del poeta risiede in questa carnale fedeltà alla propria finitezza e alla sua disperazione di fronte al negativo assoluto.
Il poeta è consacrato alla parola; il suo unico fare è questo farsi in lui […]. Ogni poeta è martire della poesia, le dona la propria vita, tutta la propria vita senza riservarsi alcun essere […]. Il poeta sopporta unicamente il vivere errabondo e senza appigli. Sopporta il vivere istante dopo istante. [6]
Proprio perché della carne parola e sentimento, la poesia è stata in tutti i tempi un vivere secondo la carne, dice la Zambrano. Seguendo la storia della grecità per intrattenersi con maestria su Platone, ella mostra con chiarezza come la poesia sia stata sempre l’esatto opposto della verità: il canto era lontano dall’ortothes greca, dall’esattezza.
Il poeta vive secondo la carne, anzi all’interno di essa. ma la penetra a poco a poco, si insinua al suo interno, s’impadronisce dei suoi segreti e, rendendola trasparente, la spiritualizza. La conquista a vantaggio dell’uomo, poiché l’accoglie in sé assorbendola, eliminando la sua estraneità. [7]
E proprio perché nato da questa progressiva penetrazione e dispersione, il canto del poeta trova la propria salvezza nel suo amore viscerale per il suo oggetto, nella tenerezza infinita per esso, nella tensione desiderante che lo reclama a lui. «E non sapevo che la carne / Potesse sparire / Per dar luogo a un pensiero creatore», scrive la Merini. [8]
Dalla carne all’esilio.
Dall’esilio al deserto.
Dal deserto al nome.
La poesia diventa frammento, luogo di contraddizione, possibilità di pensare all’infinito solo per riaffermare la propria finitezza, scacco sul tempo nel cerchio della vita.
La poesia è il luogo dell’esilio — e non solo di quell’esilio storico che Maria Zambrano patì in vita, ma anche e soprattutto è l’esilio dalla conciliazione, dalla sintesi, dalla teodicea.
È l’esilio del ventre che patisce la mancanza della terra.
In questo esilio di consuma la tensione fra il ritorno e il desiderio dell’impossibile. Nell’esilio la poesia diventa ancor più carnale, viva, concreta, perché la rammemorazione si accompagna alla volontà di riappropriazione. L’esilio è il luogo privilegiato per il compiersi della patria e questo è vero non solo per l’esilio della persona, ma anche per l’esilio della parola.
La parola è esiliata perì physeos: è segnata dall’esilio dopo lo strappo che si generò a partire dalla caduta e che dette vita alla moltiplicazione delle lingue, lo strappo che fondò Babele e che pose la parola dall’altro capo della verità. Mentre lo sradicato è colui che non ha radici, non ha patria, non ha parola, l’esiliato è colui che ha radici a cui non può tornare, ha una patria che non può abitare, ha una parola che non può condividere. L’esiliato vive con lo sguardo rivolto al ritorno: alla terra, alla lingua, al luogo.
Poter parlare, poter scrivere, poter nominare le cose nel tempo dell’esilio significa nascere: nuovamente. L’esilio è paradossalmente fecondo per la nascita: “Vivere umanamente è andare nascendo” ha scritto Maria Zambrano. Proprio in questa condizione di esilio (personale ma anche linguistica) si affaccia la certezza che la parola ricevuta, l’iniziale, la prima, diventa in un modo unico una parola unica.
Questa unicità della parola che conosce l’esilio può diventare la parola dell’assenza — come accade nelle opere di Edmond Jabès. È parola scardinata che vive su di una ferita, sopra ad un margine e si affaccia continuamente sopra ad un abisso. La separazione e la ferita non sono solo quelli dell’uomo, dello scrittore, ma sono anche quelli che hanno luogo fra la lettera e il senso. Il senso spesso è paragonato al deserto, alla sabbia, al silenzio, al bianco della pagina; la lettera si perde in questi spazi, cerca di appropriarsi di una parola da costruire per poi perderla subito dopo: «La scrittura non è mai una vittoria sul nulla, ma l’esplorazione del nulla attraverso il vocabolo». Il libro diventa così il luogo vero e proprio dell’esilio, al pari di come il libro sacro è il luogo dell’esilio del Nome (di Dio).
Jabès ripropone la tematica tipica dell’ebraismo, il rapporto fra la scrittura e la Scrittura. Pur essendo i suoi testi privi di afflato religioso o di quella fede che invece attraversa le opere dei maggiori rappresentati della letteratura ebraica, Jabès è “assediato” da Dio — il grande assente costantemente presente nei suoi testi.
Queste pagine testimoniano l’impossibilità di venire a capo non soltanto del proprio pensiero, ma di se stessi, dicono il nostro disorientamento di fronte all’impotenza ad essere che ci costituisce.
Ogni durata è legata al ricordo.
Al reale succede una irrealtà più che reale, e d’essa la memoria s’appropria.
Il pensiero segue un cammino opposto. Dispiegandosi, esso va incontro all’assenza della quale contribuisce a fissare il percorso.
Il pensiero è un lampo che squarcia il vuoto. L’oblio è l’attimo del suo folgorare. [9]
La religione ebraica, la filosofia ebraica, la profezia tipica del misticismo ebraico non trovano posto nelle opere di Jabès: c’è piuttosto l’oralità della tradizione popolare, il ricordo dei sopravvissuti all’Olocausto, la pazzia di chi ha visto l’abbandono di Dio nei campi; ci sono le eco dei midrash, la favolistica.

Eppure, come scrive Jabès, la parola di Dio rimane la più vuota del vocabolario e della religione.
La grammatica si incrocia con la fede.
Il bianco è vasto. La lettera non riesce a manifestarsi nella corona dei nomi non attribuiti.
Sovversivo è il foglio su cui la parola crede d’accamparsi; sovversiva è la parola attorno alla quale il foglio dispiega il suo bianco è […]. Il patto tra la carta e il vocabolo – tra il bianco e il nero – è l’accoppiamento di due sovversioni rivolte l’una contro l’altra, nel cuore stesso della loro unione: lo scrittore ne fa le spese. [10]

Forse sovversivo è quel libro che denuncia, dentro la scia d’un pensiero aggredito, la sovversione della parola nei confronti della pagina e della pagina nei confronti della parola e l’una contro l’altra confonde.
In questo senso, fare un libro vuol dire offrire un sostegno alle forze sovversive che attraversano il linguaggio e il silenzio, un sostegno che segua il ritmo delle loro riprese. [11]
La scrittura di Jabès procede e si inoltra nello spazio bianco della pagina come fosse drammaturgia: la lettera e la pagina, il bianco e il nero, la parola e il silenzio, il nome e il Nome (di Dio), dialogano, interagiscono si fendono reciprocamente.
Tuttavia l’esperienza più radicale che in Jabès la parola esperisce è l’esperienza del deserto: esperienza di silenzio, di assoluto vuoto, di solitudine della lingua. Il silenzio della lettera è il silenzio del Libro, il silenzio di Dio.
La parola sperimenta la vertigine, il pensiero fissa vuoti; esperienze reali si accavallano ad esperienze immaginarie e per questo ancor più reali. Scrittura nella scrittura, il cui confine scivola lentamente in uno spazio indistinto dove scrittore e lettore si alternano sovversivamente al cospetto della parola: «Le mie parole, un giorno, mi sono divenute estranee e ho taciuto». Forse solo i beati possono raccogliere questa estraneità: «Sono esseri di silenzio, ritirati dalla parola. Salvati dalla parola». [12]
Dal deserto al nome.
Dal nome al luogo.
Dal luogo al ventre.
Rahamim parola che erra nel deserto, come il popolo guidato da Mosheh. Parola che si infrange sulla sabbia, come le tavole dell’alleanza. Parola che torna alla sua terra, nella natalità della lingua che la reclama.
Che sia questo il volto di Dio: la sua maternità?


[*] J. Hersch, La nascita di Eva, trad. it. a cura di F. Leoni, Interlinea Edizioni, Novara 2000, p. 17 e s.

[1] A. Merini, «Corpo d’amore», in Mistica d’amore, Frassinelli, Milano 2008, p. 30 e s.
[2] H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. it. a cura di S. Finzi, Bompiani, Milano 1994, p. 127.
[3] Cfr. M. Zambrano, Filosofia e poesia, trad. it. a cura di L. Sessa, Pendragon, Bologna 2002, p. 46 e s.
[4] Cfr. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, trad. it. a cura di M. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1996, p. 4.
[5] M. Zambrano, Filosofia e poesia, cit., p. 49.
[6] M. Zambrano, Filosofia e poesia, cit., p. 54 e ss.
[7] M. Zambrano, Filosofia e poesia, cit., p. 72.
[8] A. Merini, «Magnificat», in Mistica d’amore, Op. cit., p. 76.
[9] E. Jabès, Il Libro della sovversione non sospetta, trad. it. a cura di A. Prete, SE ed., Milano 2005, p. 24.
[10] E. Jabès, Il Libro della sovversione non sospetta, cit., p. 34.
[11] E. Jabès, Il Libro della sovversione non sospetta, cit. p. 35.
[12] M. Zambrano, I Beati, trad. it. a cura di C. Ferrucci, SE ed., Milano 2010, p. 60.


Francesca Brencio (Spoleto, 1976), PhD in Filosofia e Scienze Umane, è Adjunct Fellow nella School of Humanities and Communication Arts della University of Western Sydney (Australia). Dal 2000 al 2007 ha collaborato con la cattedra di Estetica dell’Università degli Studi di Perugia. Attualmente conduce le sue ricerche presso la Albert-Ludwigs Universität in Freiburg sotto la supervisione del Prof. Dr. Bernhard Casper. Tra le sue pubblicazioni: La negatività in Heidegger e Hegel (Aracne, 2010) e Scritti su Heidegger (Aracne, 2013).



Mark Rothko, white band No. 27,


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