Kasparhauser





Rivista di cultura filosofica

2013

Home


Ricerche


Culture Desk


Ateliers


Chi siamo


Info



Rahamim. Lingua, terra, misericordia
A cura di Francesca Brencio




Ripensare la nascita con Michel Henry e Claude Romano
di Claudio Tarditi

Settembre 2013


La questione, ad un tempo fenomenologica ed ermeneutica, del rapporto che l’esistenza intesse costantemente con la propria “terra natìa”, ossia con quello strato profondo di significati che influenzano e orientano costitutivamente la nostra vita pur senza lasciarsi oggettivare semplicemente in una mera serie di concetti strumentali di cui disporremmo sin dall’inizio, rimanda necessariamente ad uno dei problemi meno affrontati dalla nostra tradizione filosofica: quello della nascita. Fatte salve alcune eccezioni, di cui in epoca contemporanea H. Arendt è certamente la più autorevole, sembra legittimo affermare che la questione della nascita abbia sempre sofferto di una certa subordinazione a quella, molto più frequentata, della morte. Se le filosofie d’impostazione razionalista, tradizionalmente rivolte a questioni come la fondazione della conoscenza e del sapere scientifico, non vi hanno mai trovato un tema di specifico interesse in quanto mero evento che segna l’inizio della vita degli uomini nel mondo, è pur vero che neppure le filosofie d’ispirazione “esistenziale” — da Pascal a Kierkegaard, da Heidegger a Sartre — ne hanno mai fatto un oggetto di riflessione sistematica: nascere è “iniziare a esistere”, fare ingresso in un determinato contesto ambientale e temporale e, a partire da esso, esplicare la propria azione nel mondo. Emblematico è il caso di Heidegger e del ruolo chiave che l’essere-per-la-morte ricopre nella struttura di Essere e tempo: la radicale assunzione della «possibilità più propria» del Dasein come via d’accesso all’esistenza autentica ci induce a pensare lo stesso fenomeno della nascita alla luce della morte, «la fine per cui l’Esserci esistendo è.» [1] Scrive Heidegger: «La morte è un modo di essere che l’Esserci assume da quando c’è. L’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire.» [2] E ancora:
«La chiarificazione esistenziale dell’essere-per-la-fine offre una base adeguata per stabilire in qual senso si possa discorrere della totalità dell’Esserci, visto che questa totalità si deve costituire attraverso la morte come fine.» [3]
Dunque, l’esistenza nella sua totalità può e dev’essere pensata unicamente a partire dalla morte come suo orizzonte costitutivo: la nascita, tutt’al più, è l’atto a partire dal quale il Dasein inizia ad «essere-per-la-morte». Ma sul senso della nascita come fenomeno sui generis, in Essere e tempo non troviamo nemmeno una parola. D’altra parte, non bisogna stupirsi di tale silenzio heideggeriano sulla nascita: se la Seinsfrage — la domanda sul senso dell’essere — è riconosciuta come il compito fondamentale della filosofia, allora nascere non può che significare «venire all’essere», «entrare nell’esistenza», cioè assumere il proprio Dasein nella sua «possibilità più propria», che è appunto la morte. Si dirà che Heidegger è massicciamente influenzato dalla visione cristiana della temporalità, tutta orientata verso il futuro escatologico come redenzione dalla “nascita al peccato”; eppure anche in Sartre, caposcuola dell’esistenzialismo ateo, ritroviamo la medesima tesi: è la stessa struttura della coscienza — del per-sé — a proiettare l’io fuori di sé, in avanti, verso le proprie scelte possibili, sullo sfondo di un “tentativo impossibile di essere Dio”. Benché l’esito de L’essere e il nulla sia fondamentalmente nichilista e approdi ad una concezione della libertà così radicale da essere consegnata unicamente al “proprio nulla”, il Sartre successivo s’impegna nell’elaborazione di una filosofia della storia (di stampo marxista) in grado di fornire un orizzonte di senso alla prassi sociale e politica. L’umanismo militante, compimento della libertà radicale a cui ogni individuo è condannato, è dunque strutturalmente proiettato verso il futuro: la nascita non è nulla più dell’atto attraverso cui l’io, venendo al mondo, riceve il fardello della propria libera infondatezza.

Qual è la ragione filosofica profonda di una tale scelta? In altre parole, perché i maggiori esponenti della cosiddetta “filosofia dell’esistenza” hanno sempre mostrato una predilezione per il problema dell’avvenire — e dell’avvenire ultimo, la morte — attribuendo al passato immemoriale della nascita un ruolo del tutto subalterno e, in definitiva, privo d’interesse specifico? Così, l’orizzonte metafisico entro cui la temporalità è stata pensata da Aristotele a Heidegger non è riuscito a superare l’aporia derivante dalla sua considerazione nei termini di “fenomeno intratemporale”: che si tratti del movimento (Aristotele), della distensio animi (Agostino), del flusso temporale della coscienza intenzionale (Husserl) o della temporalità come determinazione ontologico-esistenziale del Dasein (Heidegger), assegnare all’io la sorgente della temporalità significa perderne — o peggio, falsificarne — il senso più originario e condannarsi al “silenzio sulla nascita.” Se davvero vogliamo cambiare “filo conduttore”, non converrà, anziché tentare una vana soluzione dell’aporia, revocare la validità di un tale modello tradizionale e sondare la possibilità di una nuova temporalità pensata radicalmente fuori o al di là del soggetto? Come concepire il cambiamento temporale al di fuori delle tre estasi, che finiscono per riattribuire alla soggettività la capacità di “temporalizzare il tempo”? È quel che si tenterà di fare in questo breve lavoro — in dialogo con le prospettive fenomenologiche di C. Romano e M. Henry — attraverso le figure dell’evento e della vita. Lungo questo itinerario, sarà forse possibile chiarire il senso profondo e la portata stupefacente della nascita per la comprensione di quello che Husserl era solito definire «il più difficile di tutti i problemi fenomenologici, il problema dell’analisi del tempo.» [4]


Venire al mondo e venire alla vita.

La fisiologia ci spiega con grande raffinatezza descrittiva ciò che accade al neonato non appena viene a contatto con l’ambiente esterno al grembo materno: il suo primo vagito segna il suo ingresso nel mondo, l’istante in cui la sua vita comincia, la sua prima “reazione” al trauma della sua nascita. Da quell’istante in poi, egli appartiene al mondo e alla propria “terra natìa”: husserlianamente, appartiene ad una certa Lebenswelt, cioè al mondo di significati pre-intenzionali che gli permetteranno d’intrecciare tutte le relazioni con le cose e con le persone che faranno della sua vita, appunto, la sua vita. In altri termini, egli “viene all’essere”, cioè inizia ad essere presente, impara a toccare e a toccarsi, sviluppando gradualmente ogni sua possibilità percettiva e cognitiva. Dal punto di vista della temporalità, egli fa ingresso nel tempo come “decorso orientato”, inizia ad ex-sistere nella forma dell’esteriorità, cioè a progettare le proprie possibilità future nell’orizzonte ultimo di quella che Heidegger definisce la “possibilità più propria”, la morte. Questa è la definizione comune della nascita, condivisa dalla scienza e dalla maggior parte dei filosofi da Aristotele in poi. Eppure, il tempo come fenomeno intra-temporale rende perfettamente ragione del decorso orientato degli oggetti che sono già immersi nel tempo, ma non può dire una sola parola sul tempo in sé, la cui scaturigine resta del tutto enigmatica: prova ne è il continuo ritorno di Husserl su tale nodo problematico, ad esempio in testi postumi come i Bernauer Manuskripte del 1917-’18. [5] Di essa si può tentare un’interpretazione indiretta — che rinuncia cioè a farne un oggetto e a sottoporlo alle categorie della soggettività — come evento, cioè come puro e libero “cominciamento” totalmente indipendente da qualunque altro fatto che lo preceda o lo segua. Ora, vi è un solo fenomeno che incarna perfettamente questa situazione del tutto sui generis del tempo nella sua fase germinale, ed è proprio la nascita.

Si obietterà certamente che della nascita possiamo fornire una descrizione in termini puramente scientifici, oggettivi, ricorrendo ad una serie di concause che conducono dal concepimento alla venuta al mondo del neonato. Già, ma in questo caso parleremo sempre e soltanto della nascita altrui, che abbiamo potuto osservare come un “evento del mondo”, ossia un progressivo mutamento di stati di fatto concatenati più o meno causalmente e che ci permettono di registrare la nascita come un accadimento databile e localizzabile. Si può anche assumere lo stesso punto di vista ed estenderlo analogicamente alla propria nascita, ma “scagli la prima pietra” colui che, almeno una volta, in cuor suo, non si è interrogato sulla ragione profonda della propria venuta al mondo in certo luogo e in un certo tempo, secondo certe modalità e non altre, incontrando certe persone, vivendo certe esperienze, provando certe sofferenze, gioie, difficoltà, ecc. Ebbene, dinanzi a questi interrogativi i rassicuranti principi della causalità intra-temporale si sbriciolano, ad un tratto le apparenti certezze sulla nascita come puro evento biologico non ci soddisfano più, il senso di infondatezza e abissalità della nostra esistenza ci invade e ci angoscia: l’enigma del “cominciamento” originario e inaugurale che possibilizza ogni nostra possibilità futura e che ci fa accedere alla temporalità oggettiva ci spiazza, ci decentra, destituisce la nostra soggettività granitica e ci espone pericolosamente al contraccolpo dell’idea che, in fin dei conti, riceviamo noi stessi soltanto da quell’evento assolutamente primo e che soltanto a partire da esso, nello spazio della sua libertà abissale, possiamo emettere quel primo vagito e concepire per la prima volta la parola “io”.

Tuttavia, questo discorso cela un duplice problema filosofico di una certa gravità: com’è possibile che l’esistenza, il Dasein protagonista di Essere e tempo, dismetta i propri “panni ontologici” per ritrovarsi ad un livello più originario come advenant, ossia come colui che riceve se stesso da un appello originario che lo interpella e lo coinvolge nel proprio evento? Insomma, il Dasein non rappresenta già il livello più originario — potremmo dire il “livello zero” — della soggettività? Non si tratta soltanto, come ipotizza lo stesso Heidegger nell’Introduzione alla metafisica, [6] dell’ipotesi che “noi diciamo no al nostro Dasein”, ma della possibilità che il Dasein stesso dica no al proprio essere, in modo tale da costituirsi come altro da quell’essere, o di nasconderlo completamente in se stesso. Ma cosa significa propriamente che il Dasein rifiuti il proprio essere? Quest’affermazione non contraddice semplicemente la determinazione stessa del Dasein come esser-ci, come colui che non può non essere? Insomma, un Dasein che rifiuti il proprio essere non è una figura in sé contraddittoria? Questo problema è già stato ampiamente chiarito da J. L. Marion che, in Riduzione e donazione, sostiene che «una delle caratteristiche più essenziali del Dasein offre il modo di pensare come questo stesso Dasein potrebbe […] sottrarsi al proprio essere.» [7] Infatti, il Dasein — secondo la ben nota definizione heideggeriana — è «quell’ente nel cui essere ne va dell’essere stesso», cioè mette in gioco, nel modo d’essere dell’esistenza, non solo la propria sussistenza ontica, ma il proprio modo d’essere: in altri termini, «il gioco del Dasein con se stesso rende manifesto il gioco dell’essere con se stesso.» [8] Ora, questa dignità ontologica del Dasein offre due punti su cui è possibile che si verifichi la sua sospensione: a) da un lato, il modo d’essere proprio del Dasein, l’esistenza come possibilità, implica sempre — come Heidegger ammette — «una possibilità per lui stesso di essere o no se stesso» [9], cioè la possibilità per il Dasein di esistere autenticamente o inautenticamente. Ma se essere se stesso significa accogliere l’apertura dell’essere permettendone lo svelamento, cioè rispondendo alla sua chiamata, la possibilità di non essere se stesso non è allora riconducibile ad una revoca dell’appello dell’essere? Non si tratta di esaltare l’inautenticità, ma di assumerla come possibilità ontologica di eguale livello dell’autenticità: essa rinvia ad un altro rapporto essenziale con l’essere, il rifiuto. Scrive Marion:
«L’inautenticità non nega certo l’istanza del Dasein in se stessa, poiché essa la esemplifica ancora; ma ne sospende già il carattere essenziale: nega che il rinvio all’essere stesso costituisca la possibilità ultima di ciò che io sono. L’inautenticità si disinteressa della propria messa in gioco nel gioco dell’essere; essa pretende così di partecipare ad un gioco che non deve nulla all’essere o […] come se l’essere non c’entrasse per nulla.» [10]
b) Dall’altro lato, il modo d’essere del Dasein implica che «egli abbia da essere ogni volta il suo essere come il proprio.» [11] Il Dasein non è semplicemente ciò che è, ma gli è proprio, come un carattere tipico del suo modo d’essere, l’“aver da essere”: non è se stesso se non rivendicando che l’essere in gioco è il suo, se non prendendolo su di sé, dunque il Dasein è se stesso solo se si dona al gioco in cui la posta in gioco è l’essere stesso. L’Io assume su di sé il proprio Dasein solo esponendosi in prima persona con l’essere, facendolo proprio senza riserve, o meglio abbandonandosi senza riserve al suo gioco. Ora, un tale aver-da-essere (l’essere come il proprio essere), osserva Marion, lascia intravedere un secondo anello debole della catena, che si ricollega in qualche modo al fenomeno d’essere: l’analitica esistenziale non può svilupparsi come fenomenologia dell’essere se il Dasein non accoglie il destino dell’essere come quello del proprio essere a titolo di ente. Ecco il punto di rottura. Se il Dasein dev’essere il proprio essere, a meno di ammettere un’oscura necessità di improba attestazione, esso può benissimo anche non esserlo, nel senso che può sottrarsi al gioco dell’essere come proprio gioco, come ciò che lo riguarda più direttamente: poiché il Dasein si costituisce anche in base al dover-essere, ha la possibilità di non ritenere l’essere che dovrebbe essere come ciò che gli è più proprio. Distogliendosi dall’essere, il rifiuto distrae il Dasein dal proprio dover-essere. Tuttavia, questa volta il rifiuto potrebbe operare a favore dell’autenticità poiché, distogliendo il Dasein dall’essere che dovrebbe essere, tende a liberarlo affinché si offra ad una sua proprietà più essenziale, cioè lascia che esso si costituisca come il -ci, dunque per un’istanza ulteriore all’essere dell’ente. In questo modo, sospendendo la rivendicazione dell’essere rivolta al Dasein, il rifiuto non solo si inscrive a pieno titolo nei momenti fondamentali dell’analitica esistenziale, ma soprattutto riapre l’intera questione del Dasein, insinuando la possibilità che un altro, ancora più originario dell’essere in quanto capace di sospenderne la rivendicazione, contenga la possibilità stessa del -ci. Scrive Marion, in un passo alquanto complesso ma allo stesso tempo decisivo:
«Colui che non ha da essere […] non rompe tuttavia totalmente col Dasein. Tenta di succedergli nel possesso, dunque nell’identificazione del -ci: perché il -ci, che Io sono, si mantiene ? Quando il -ci si determina come un Dasein, un esser-ci, si mantiene come -ci per essere, dunque più essenzialmente per l’essere; infatti, l’essere lo rivendica e la rivendicazione dell’essere destina il -ci a tale essere, a mantenersi come esser-ci. […] così, il -ci liberato si espone alla possibilità non ontologica di un’altra rivendicazione, che lo qualificherebbe per mantenersi in favore di un altro — di un altro favore.» [12]
Nella prospettiva di Marion, si tratta qui di delineare una nuova apertura, ossia rinvenire un sito filosofico ancora più originario rispetto all’Io trascendentale e al Dasein. Infatti, l’ingiunzione al Dasein “ascolta!” non si pone come un appello fra altri possibili nel nome o in vista di questa o quell’autorità originaria, ma performa l’appello come tale — la chiamata a presentarsi dinanzi all’appello stesso, con la sola intenzione di attenervisi e di esporvisi. L’appello stesso interviene come tale, senza o prima di qualunque altro messaggio, con la sola intenzione di sorprendere colui che non lo attendeva: il modello dell’appello si esercita quindi ben prima la rivendicazione dell’essere, e in modo più ampio. Prima che l’essere abbia rivendicato il Dasein, la pura forma dell’appello lo ha già interpellato. Ora, pensare l’appello nella sua struttura più pura comporta una completa messa fuori gioco di ogni priorità dell’essere sull’evento, nella sua più originaria struttura di esposizione e coinvolgimento nella manifestazione. In altri termini, il -ci dell’Esserci non dev’essere più concepito necessariamente come “appello dell’essere” all’esistenza autentica (cioè al proprio essere-per-la-morte), ma come appello ed esposizione provenienti da un altrove inoggettivabile in cui l’io riceve se stesso dall’appello e nell’appello stesso: in questa prospettiva l’unico privilegio che possiamo attribuire all’a-donato — o, secondo l’espressione di Romano, l’advenant — non risiede più nella sua costituzione ontico-ontologica, come sostiene Heidegger a proposito del Dasein, [13] ma nel suo originario “poter rispondere” a quell’“appello silenzioso” che, rivendicandolo costantemente, lo pone in relazione con tutti i suoi possibili.


Già da sempre nati.

Dunque, secondo l’indicazione di Romano, l’evento si manifesta nell’appello originario rivolto alla determinazione “minima” della soggettività, l’ad-venant. A ben vedere, quell’evento originario che apre la nostra esistenza configurando le nostre possibilità e che, così facendo, ci espone all’avventura dell’abitare l’intra-temporalità pur provenendo da quel luogo intemporale di cui siamo la cifra, offre un senso profondo — per quanto problematico, perfino enigmatico — a ciò che abitualmente chiamiamo vita. Scrive M. Henry in un breve ma illuminante saggio intitolato proprio Fenomenologia della nascita:
«Nascere è affare dell’essere vivente e di lui solo. Nascere non può dunque derivare dall’essere considerato come universale, nel senso dell’essere in generale — un senso adatto tanto alla pietra quanto all’essere vivente. Tale inadeguazione del senso dell’essere richiede una rivalutazione del tema dell’ontologia che equivale al suo smantellamento.» [14]
Che nascere sia tratto essenziale dei viventi sembra, almeno di primo acchito, un’ovvia tautologia. Tuttavia, in questo passo Henry sottolinea che il nascere non ha nulla che fare con l’essere, poiché l’essere è la modalità di fenomenalizzazione propria degli oggetti, ossia di tutto ciò che è visibile. Se è vero che i viventi sono visibili al pari delle pietre, la loro fenomenalità è toto genere differente rispetto a quella di qualunque altro oggetto, se non altro in quanto essi hanno la possibilità non solo di essere guardati, ma di guardare. Una tale differenza ci autorizza dunque a porre la questione del rapporto tra il nascere e il problema fenomenologico generale dell’apparire: se i viventi condividono con gli oggetti il loro venire all’essere nella visibilità, allora perché dovremmo attribuire alla nascita uno statuto diverso rispetto all’apparire comune delle cose? Venire all’essere, secondo il senso comune, significa “venire al mondo” e tale è l’abituale definizione che diamo del nascere: in questa prospettiva, non vi sarebbe alcuna differenza tra il “venire all’essere (o al mondo)” e il nascere, poiché l’essere che si attribuisce agli oggetti nel loro apparire e quello che si attribuisce ai viventi con la nascita si troverebbero in un rapporto, se non di identità, almeno di analogia: l’apparire della pietra sarebbe il medesimo a cui si apre il vivente nascendo, cioè l’“apparire del mondo”, l’esteriorità.

Ora, è precisamente questa presunta identità che si tratta di mettere in questione, seguendo l’argomentazione di Henry. In che modo l’apparire attribuisce l’essere all’oggetto? Per l’appunto, facendolo apparire: dunque l’essere dell’oggetto si risolve nella sua visibilità, il suo apparire dipende dal suo essere posto “fuori di sé”. Non a caso — osserva Henry — Heidegger ha potuto pensare la temporalità come il “fuori di sé originario in sé e per sé”. [15] In che modo invece l’apparire conferisce l’essere al vivente? Forse ponendolo fuori di sé affinché sia visibile allo stesso modo dell’oggetto? Se così fosse, la situazione fenomenologica del vivente e dell’oggetto sarebbe la stessa; tutt’al più, le loro differenze riguarderebbero meramente il piano ontico/oggettivo. Tuttavia, l’essere vivente vede l’oggetto, mentre quest’ultimo non vede niente. Ma com’è possibile che, pur derivando per ipotesi da un solo modo di fenomenalizzazione, gli oggetti e gli esseri viventi presentino una differenza fenomenologica così essenziale, tale da influenzare in modo decisivo il loro rapporto con la fenomenalità in generale? In altri termini, com’è possibile accomunare due “enti” — ammesso che l’essere vivente sia ancora definibile in questi termini — il cui rapporto con la fenomenalità è del tutto differente? Prosegue Henry:
«In che modo, pur venendo all’essere in un solo e medesimo apparire, illuminati da una sola luce, l’essere vivente riceverebbe l’insigne favore di trasformarsi interiormente in quella luce, nell’illuminazione dell’apparire, in modo tale da non essere più null’altro che quest’ultimo, mentre la pietra resterebbe estranea a questo rischiaramento, cieca, per sempre opaca, abbandonata ad una notte così profonda da non poter essere concepita se non come la negazione astratta della luce del mondo in cui si mostra tutto ciò che può essere per noi?» [16]
Ecco sorgere una difficoltà inaggirabile: se da un lato l’apparire rende visibile un ente, lasciandolo apparire fuori di sé come oggetto, dall’altro lato gli conferisce il privilegio di ricevere in se stesso l’apparire in modo da quasi coincidervi e non essere più nient’altro che una sorta di “materia fenomenologica pura.” [17] Nel corso della storia del pensiero, questa difficoltà ha preso la forma della distinzione tra soggetto e oggetto, considerata essenziale e tuttavia del tutto inspiegata: se l’oggetto è l’ente stesso nel suo apparire, cioè il suo “essere-fuori-di-sé”, la sua esteriorità, in che cosa si differenzierebbe il soggetto da quel “fuori-di-sé” in cui appare l’ente? In altre parole, se lo stesso soggetto è pensato come coscienza (Husserl) o come esistenza (Heidegger), i cui caratteri rispettivi sono l’intenzionalità o l’essere-nel-mondo, ossia ulteriori forme del “fuori-di-sé”, non vi sarà altro apparire da questo “fuori-di-sé” dell’ente, cosicché diverrà impossibile giustificare ogni differenza essenziale tra soggetto e oggetto. Così,
«parliamo della nascita interpretata come venuta all’essere, la quale non può che significare una venuta all’apparire, a sua volta interpretata come venuta al mondo, che tuttavia designa due condizioni totalmente diverse di cui soltanto una si riferisce alla nascita e può servire a definirla, mentre l’ente intramondano, limitandosi ad entrare e uscire da questo luogo finito di luce che è il mondo, è in sé estraneo tanto al fenomeno della nascita quanto a quello della morte.» [18]
In ultima analisi, la manifestazione del “venire al mondo”, cioè dell’apparire nell’esteriorità come un oggetto, è completamente irriducibile al nascere, che va piuttosto compreso come un “venire alla vita.” È questo punto decisivo. Va osservato che, nel contesto dell’analitica esistenziale di Essere e tempo, il legame dell’essere-nel-mondo con la vita risulta completamente coperto: infatti, il § 10 — intitolato «Delimitazione dell’analitica esistenziale rispetto all’antropologia, alla psicologia e alla biologia» — liquida rapidamente tale rapporto affermando che “la vita è un modo di essere particolare, ma accessibile essenzialmente solo nell’Esserci.” [19] Di conseguenza, dal punto di vista heideggeriano, se l’accesso alla vita dipende dal Dasein, esso non può che assumere la forma di un ingresso nel mondo degli enti, ossia nel mondo dell’esteriorità: ancora una volta, nascere significherebbe semplicemente venire all’essere, cioè venire al mondo. Tuttavia, osserva Henry, è lecito domandarsi: il Dasein può fondare l’accesso all’essere non-vivente (l’ente intramondano nella presenza della sua Zuhandenheit, l’“essere-a-portata-di-mano”), all’essere vivente e alla stessa vita che fa di quest’ultimo un vivente? Per quanto riguarda l’ente intramondano, il Dasein è in grado di garantirne l’accesso in quanto ne condivide la struttura fenomenologica dell’esteriorità, dell’“essere-fuori-di-sé” — inteso come “stare di fronte” dell’oggetto nei confronti della coscienza — in ciò che concerne invece l’essere vivente, il Dasein, proprio in virtù del proprio “essere-fuori-di-sé”, per quanto faccia apparire tale essere, lo riduce appunto alla visibilità, ossia al rango di un qualunque altro ente. In ultima analisi, l’accesso all’essere vivente attraverso il Dasein finisce per equiparare la vita stessa al manifestarsi nella visibilità, il nascere al venire al mondo, rendendo filosoficamente indistinguibili l’essere vivente e la pietra. Nel momento stesso in cui l’essere vivente si scopre come tale, accede ad un livello fenomenologico ulteriore alla determinazione ontologica del Dasein: per l’appunto, accede alla vita. In altri termini, l’essere vivente scopre il carattere fondamentale dell’apparire, ossia il suo costitutivo “essere-fuori-di-sé”: lo svelamento compiuto in un tale apparire non spiega in nessun modo ciò che è reso visibile dall’apparire stesso, cioè la vita dell’essere vivente. Sorge qui una questione decisiva: se il carattere essenziale dell’essere vivente — ciò che lo rende irriducibile all’apparire nell’esteriorità — non deriva dall’apparire proprio del Dasein, qual è la sua origine fenomenologica? Insomma, perché l’apparire in cui si manifesta il Dasein non è in grado di fornire un accesso alla vita? La ragione è tanto semplice quanto enigmatica: nell’esteriorità del Dasein, ogni determinazione ontologica non è soltanto esteriore ad ogni altra — come un punto è “esteriore” agli altri punti nello spazio —, ma è esteriore a se stessa, in modo tale che la sua esteriorità corrisponde al suo apparire, un apparire che lascia spazio in sé unicamente all’esteriorità. Conclude Henry:
«A questo livello di esteriorizzazione radicale, nessun vivere è possibile se vivere significa sentire se stessi e non sentire qualche altra cosa — sentire se stessi in un’immediatezza così radicale che mai nulla saprebbe rompere il pathos di cui tale sentire è fatto e che ogni messa fuori di sé di tale pathos per essenza inestatico condurrebbe alla sua distruzione. L’eterogeneità fenomenologica materiale dell’apparire patetico in cui la vita si compie e dell’apparire estatico che si esplica nella differenza tra il mondo e le cose è radicale, irriducibile, insormontabile.» [20]
Emerge così che, per Henry, la vita si compie in un atto di auto-affezione e che, dal punto di vista fenomenologico, tale affezione originaria è esperibile come pathos, ossia come processo infinito per mezzo del quale la vita perviene a se stessa e, per così dire, “sente” se stessa: conseguentemente, nessun apparire mondano è in grado di accedere al “vivere della vita”, in quanto nel mondo la vita viene necessariamente rappresentata sotto forma di una “significazione irreale”, [21] cioè di un oggetto. Ecco perché l’illusione — di cui è vittima anche Heidegger — secondo cui l’accesso alla vita avviene esclusivamente attraverso il Dasein implica la confusione tra il vivere della vita e la manifestazione esteriore di ogni essere vivente la cui proprietà essenziale rinvia al suo stesso vivere e lo presuppone, pur senza poterlo fondare o esibire nella piena visibilità. L’incapacità del Dasein di offrire un autentico accesso alla vita deriva in ultima analisi dalla sua stessa incapacità di diventare lui stesso un essere vivente a causa del suo costitutivo essere-nel-mondo come essere-fuori-di-sé. Per dimostrare quest’affermazione, occorre formulare correttamente la domanda seguente: il Dasein ha la possibilità di decidere se “venire al Dasein”, ossia — secondo la prospettiva heideggeriana — “venire al mondo”? La risposta è ovviamente negativa: la nascita è una sorta di inizio assoluto e che, tuttavia, implica un “prima”, per così dire una paradossale “derivazione all’origine.” Che il Dasein non abbia a disposizione alcuna decisione in merito alla propria nascita è cosa ovvia: ciò presupporrebbe la possibilità di porsi in quel “prima” originario e di deciderne, inficiandone ipso facto l’originarietà. Che il Dasein non decida da sé di venire al mondo, cioè non si auto-installi nel Da del proprio Da-sein, significa che non è attraverso la propria esteriorità che il Dasein diventa tale, ossia progettando le proprie possibilità nell’orizzonte del mondo. Ma allora, come assumiamo la nostra condizione di Dasein in modo però che tale assunzione non derivi dall’esteriorità dell’essere-nel-mondo? Ancora una volta: con e attraverso la vita. Ben lungi dall’accedere alla vita unicamente attraverso il Dasein, accediamo a quest’ultimo solo grazie alla vita. In altre parole, se assumiamo la nostra condizione esistenziale di Dasein venendo non “al mondo”, ma “alla vita”, la questione della nascita dev’essere articolata nuovamente ad un livello ben più radicale rispetto a quanto la tradizione filosofica — almeno fino a Heidegger — abbia fatto: infatti, se venire al Dasein significa innanzitutto venire alla vita, resta da comprendere cosa significhi esattamente tale “venuta alla vita”.

Dunque, nascere significa «venire alla vita», cioè entrare in essa, accedere a questa straordinaria e misteriosa dimensione di «essere vivente». Tuttavia, significa innanzitutto che solo a partire dalla vita una tale venuta è possibile, cioè che soltanto la vita può generare e produrre una tale entrata in essa: utilizzando un termine che Henry non impiega ma che ci pare coerente col movimento della sua argomentazione, si potrebbe affermare che, nella nascita, la vita “chiama” a sé il vivente, lo “coinvolge” e lo “include” nella sua eterna generazione. Non a caso, si tratta delle determinazioni attribuite poc’anzi all’evento secondo la propria evenemenzialità. Dunque, il venire alla vita sottende in primo luogo il venire della vita. Scrive Henry:
«Questo radicamento di ogni nascita […] nell’essenza della vita spiega la ragione per cui l’uomo in quanto essere vivente - non l’uomo intramondano, l’ente-uomo privo di questo carattere di essere vivente - non è nulla di originario, nulla che possa essere compreso a partire da se stesso ma soltanto a partire dall’essenza della vita che lo precede eternamente nel processo stesso attraverso cui essa non cessa di generarlo […], cioè non cessa di farlo nascere.» [22]
Così, la vita si auto-genera nel processo di auto-affezione, processo attraverso cui essa viene a sé, si scontra contro di sé, gioisce e soffre di sé, in una parola sente se stessa, non essendo altro da questo eterno sentire e “patire” se stessa. Di conseguenza, vivere consiste in questo originario sentire se stessi: ogni altra determinazione è successiva e derivata. Inoltre, l’auto-affezione è sempre un movimento, ossia un processo costante attraverso cui la vita non cessa mai di venire a se stessa: in questo movimento dobbiamo situare anche l’origine della temporalizzazione originaria, radicalmente immanente e inestatica, dunque unicamente “patetica”, che ci permette di pensare la temporalità propria della nascita. «La vita si auto-genera come Sé singolo. La generazione del Sé singolo che io sono nell’auto-generazione della vita assoluta è la mia nascita trascendentale.» [23] Ciò significa evidentemente che la generazione dell’Io singolo non è disgiungibile dall’auto-generazione della vita: l’Io singolo che io sono non viene a sé se non nella venuta a sé della vita e la conserva come il proprio presupposto, come la propria condizione necessaria. Così la vita attraversa e coinvolge nel proprio movimento tutti coloro che genera in modo tale che non vi sia niente in essa che non contenga questa essenza autogenerativa della vita.

Dunque l’Io proviene dalla propria “nascita trascendentale” alla vita: l’Io non sorge se non pervenendo a sé, cioè se la vita non viene a se stessa. Nell’auto-temporalizzazione della propria auto-affezione, la vita sente se stessa coinvolgendo nel proprio movimento inestatico l’Io singolo, in un’immanenza così assoluta da escludere qualunque esteriorità, dunque ogni venuta al mondo: come sottolinea Henry, non occorre immaginare degli esseri puramente spirituali — forse degli angeli? — per concepire la totale estraneità al mondo, poiché questa è la nostra condizione più radicale e autentica. Tuttavia, resta da affrontare un’ultima fondamentale questione: come si rivela la vita all’Io, come gli si dà ciò che lo costituisce come tale? Oppure, più precisamente: nella sua “nascita trascendentale”, come si riferisce l’essere vivente all’auto-generazione della vita assoluta e quale rapporto può instaurare con essa? In questo punto particolare, ci sembra che i percorsi di Henry e Romano si saldino perfettamente: infatti, la dinamica dell’evenemenzialità mette precisamente in relazione un tipo di fenomenalità che “accade” all’io — o meglio, all’advenant — esponendolo alla propria radice più profonda, ossia l’esser costantemente costituito da altrove in un movimento che lo coinvolge e lo interpella mettendone fuori gioco ogni certezza metafisica, logica e ontologica. Facendo «reagire» queste due prospettive teoriche, scopriamo che la vita, nel suo movimento inestatico di auto-affezione, fa sorgere ogni soggettività — ne pone la nascita trascendentale come originario “sentire” se stesso in un’immanenza così assoluta da escludere qualunque esteriorità, qualunque “venuta al mondo” — proprio coinvolgendolo e, per così dire, chiamandolo all’infinito processo di generazione vitale. Spetterà poi all’io accogliere la propria genesi trascendentale come ciò che lo presuppone ab origine e che, ben lungi dall’attribuirgli la capacità di auto-fondarsi, lo fa “essere” a titolo di destinatario dell’evento e di — per utilizzare una celebre espressione di J. L. Marion — “affittuario della soggettività.” [24] Scrive Henry:
«La venuta dell’Io nell’auto-generazione della vita assoluta non è dunque nessun evento assimilabile a ciò che intendiamo abitualmente per nascita. Non siamo nati per poter in seguito condurre in proprio la nostra vita. […] L’Io si impadronisce dei propri poteri e innanzitutto di se stesso solo in quanto la vita assoluta non smette di auto-sentirsi in lui, e ciò perché non vi è che una sola vita e una sola auto-affezione, quella stessa in cui l’Io si trova affetto come il Sé singolo che egli è.» [25]
Non siamo dunque nati un giorno particolare — tutt’al più, il nostro corpo fisico è entrato ad un certo punto nella rete di relazioni intra-temporali tra enti caratterizzati dal proprio “essere-fuori-di-sé.” Al contrario, siamo costantemente generati nell’auto-generazione della vita: “veniamo al mondo” in quanto unità psico-fisiche, ma “veniamo alla vita” in quanto originariamente coinvolti nel suo movimento di continua generazione. Se questo flusso generativo continuo s’interrompesse, l’io ne risulterebbe distrutto per sempre. In ultima analisi, le riflessioni di Henry e Romano ci consegnano l’esigenza di ripensare il paradosso abissale della nascita in tutta la sua inestaticità, ossia come processo immanente di auto-temporalizzazione della vita. Se, dal punto di vista dell’intra-temporalità, ciò che genera non può che precedere ciò che è generato, nella prospettiva evenemenziale qui difesa ciò che è generato dal e nel movimento di auto-affezione della vita non si rapporta mai a ciò che lo genera come ad un prima estatico. Un tale paradosso — sostiene Henry — può essere compreso distinguendo le forme di rapporto strutturalmente estatiche, ossia quelle che si risolvono nell’esteriorità, da quelle puramente inestatiche, innervate unicamente dal pathos trascendentale. Infatti, ogni determinazione affettiva o patetica non si rapporta a se stessa in modo estatico ma soltanto nella sua affettività trascendentale; tale è il caso della nascita: la sua temporalità originaria è precisamente quella della sua affettività e del suo “sentire se stessa” che, sebbene si modifichi costantemente, non cessa mai. «L’Io vivente radica il proprio vivere nella vita assoluta, così come egli deriva la propria auto-temporalizzazione dalla vita e dalla sua auto-generazione eterna. L’auto-temporalizzazione della vita assoluta è una legge fenomenologica materiale di questa vita.» [26] Conseguentemente, l’io si rapporta a se stesso soltanto rapportandosi alla vita assoluta, cioè lasciandosi coinvolgere in quell’appello originario attraverso cui la vita lo genera e lo fa nascere. In questo senso, giova ripeterlo, egli “viene al mondo” (o, in termini heideggeriani, “viene al Dasein”) solo in quanto è già da sempre coinvolto e generato dalla e nell’auto-affezione e auto-temporalizzazione della vita. Conclude Henry: «La condizione dell’Io è il pathos del proprio presupposto. La vita dell’io trascendentale è la fenomenologia della sua nascita. La condizione dell’io è il pathos del proprio presupposto.» [27]


Il tempo e l’immemoriale

Ricapitoliamo. Nella misura in cui è nato, l’advenant è raggiunto originariamente da un evento di cui non può mai appropriarsi pienamente: nascere, in questa prospettiva, significa non essere la propria origine ma venire a sé secondo il ritardo costitutivo di un tale evento inaugurale. Per l’advenant, la nascita è inappropriabile in quanto il mio cominciamento non è mai il cominciamento tout court: nello stesso atto con cui sono gettato nel mondo, il mondo mi si manifesta come a me pre-esistente. Così, la nascita mi apre un mondo soltanto esponendomi ad una preistoria pre-personale che già da sempre mi sovrasta: in altri termini, la nascita mi consegna ad una storia consegnandomi delle possibilità che precedono la mia storia, mi getta in un destino esponendomi a dei possibili che eccedono largamente il mio destino — una lingua particolare, un ambiente culturale determinato, un’eredità sociale o etnica di cui spesso pagherò il prezzo. Inoltre, l’appropriazione di un evento implica la possibilità di farne un’esperienza propria, laddove al contrario la nascita precede ogni ipseità di colui che la riceve. Pertanto, se per un verso la nascita accade in modo impersonale e anonimo, per l’altro chi la riceve non è neppure in grado di rapportarvisi consapevolmente, rispondendo di essa. È per questa ragione che, strettamente parlando, sarebbe più opportuno descrivere la nascita come un “proto-evento” attraverso cui l’advenant riceve per la prima volta la capacità futura di rispondere agli eventi: così la nascita condiziona da parte a parte la sua avventura mondana attribuendogli un’“originarietà derivata” — o, se si preferisce, una “derivazione originaria” — per la quale la sua ipseità sorge già da sempre come una risposta all’appello dell’evenemenzialità. In breve, la nascita insinua uno scarto ineliminabile tra l’originario e l’originale, scarto di cui l’advenant farà aspra esperienza proprio nello iato, di cui si farà carico, tra la temporalità ordinaria (intra-temporale) e la temporalità evenemenziale, ossia tra il suo “essere al mondo” e il suo “venire alla vita”.

Proprio in questo luogo liminare in cui il proto-evento tocca il punto più profondo dell’origine del tempo e vi instilla la necessità del ritardo e del “contraccolpo”, l’advenant inaugura la propria esistenza attraverso un’esperienza-limite, contemporaneamente sottratta (in quanto evenemenziale) e soggetta (in quanto possibilità mondana) alle costrizioni della temporalità. Infatti, la nascita è strictu sensu immemoriale, ma non solo nel senso in cui di essa è impossibile un ricordo diretto: per quanto l’advenant possa risalire nella serie dei propri ricordi, non vi ritroverà mai la nascita, per quanto riesca a ricostruire ciò che ha avuto luogo per lui, la nascita gli parrà sempre “più vecchia”. Più propriamente, per quanto degli eventi si declinino per lui come passati, la nascita non farà mai parte di quella serie: il suo stesso accadere segna l’impossibilità per l’io di essere la propria origine, dunque di appropriarsi e dominare tutte le possibilità che lo hanno preceduto e che hanno tracciato la storia di cui egli è erede. Così, il suo mondo-ambiente non è costituito soltanto dal contesto socio-economico e culturale dove nasce, ma dal fascio infinito delle possibilità che lo hanno preceduto e tra le quali egli non saprebbe in alcun modo scegliere: tuttavia, esse costituiscono lo sfondo di ogni sua scelta futura. In sostanza, egli non potrà mai rivendicare per sé il titolo di origine e principio di sé e del possibile. Scrive Romano:
«Inoltre la nascita, nello stesso tempo in cui attribuisce all’advenant delle eventualità che trascendono ogni potere di appropriazione, apre la sua storia ad un pre-tempo immemoriale […] e manifesta l’immemoriale nel suo senso positivo: essa supera l’advenant a partire dall’anteriorità di un iper-passato che non è mai un mero modo del suo aver avuto luogo. […] La nascita supera allo stesso tempo ogni istante e ogni presente possibile. Del fatto di cui l’evento è evento, infatti, egli può di diritto avere un ricordo; ma la nascita è un evento che non è mai stato un fatto per colui al quale accade.» [28]
Certo, essa può essere ridotta e “piegata” al rango di un mero fatto, ma a patto che se ne descriva un’esperienza analogica modellata sulla nascita altrui: la propria nascita è sempre un evento inapparente, mai dato nella forma di un fatto, poiché essa costituisce la struttura mediante cui l’advenant è dato a se stesso.

Infine, questa preistoria che conferisce alla mia storia le sue possibilità originarie, questa preistoria che per me non è mai avvenuta, irriducibile a qualunque fatto particolare nella forma dell’aver-avuto-luogo, questa preistoria di cui mi vorrei appropriare ma che mi si offre come un compito e un’apertura infiniti, non riguarda solo ciò che è “dietro” di me, il mio passato immemoriale, ma si colloca “dinanzi” a me, in anticipo rispetto a ogni mio progetto:
«Reinterpretata temporalmente, l’ipseità significa dunque la disponibilità per l’avvenire, come fuga dall’eventualità inanticipabile che arriva a sorprenderci in tutti gli eventi, indissociabile dalla responsabilità di una memoria, cioè dalla liberazione da ogni ripetizione di attitudini o di comportamenti in se stessi inassumibili, in quanto precedente qualunque distinzione tra il proprio e l’improprio, tra la fatticità e il progetto, poiché l’una e l’altra — disponibilità e responsabilità — condizionano la trasformazione decisiva dell’advenant.» [29]
Ed è proprio sulla figura della finitezza che vorremmo concludere queste riflessioni. Come pensare la finitezza dell’avventura umana, sempre situata in uno spazio liminare, al confine tra la mera esteriorità delle cose nel loro decorso temporale immutabile e l’assoluta immanenza della vita che si manifesta e, per così dire, si rapprende in una soggettività ormai del tutto decentrata, non più padrona del tempo ma semplicemente attributaria dell’evento originario che la costituisce e, così facendo, la fa venire alla vita? Tradizionalmente, la finitezza è stata pensata a partire dall’orizzonte della morte come “possibilità più propria dell’esistenza”: infatti, quale altro evento segna irrimediabilmente la caducità dell’esistenza, costitutivamente “un’avventura senza totalizzazione possibile”? Tuttavia, lungo il percorso seguito in queste pagine, è emerso chiaramente come la finitezza umana debba essere pensata, innanzitutto, ex parte originis. Infatti, come si è visto, la finitezza dell’advenant nasce precisamente dall’eccedenza del possibile su qualunque potere d’appropriazione dell’origine: non è in quanto essere mortale che l’advenant possiede un potere d’appropriazione finito delle possibilità che lo precedono, ma al contrario, in quanto egli è già da sempre esposto alla nascita, ossia in quanto l’infinità di un possibile anonimo lo precede eternamente, cioè deve rispondere di un evento che lo supera e che ne trascende i poteri. Scrive ancora Romano:
«La finitezza non dev’essere pensata innanzitutto a partire dalla morte come ciò che pone un termine ai poteri dell’advenant, ma a partire dalla sua nascita, cioè da ciò che inscrive nei suoi poteri l’impotenza di un ritardo sul possibile che attraversa la sua avventura e la struttura da parte a parte.» [30]
In virtù di tale ritardo, il possibile si offre all’advenant sempre a partire da un passato immemoriale e lo supera al di là della sua stessa morte, in modo tale che questa infinità determina il senso originario della sua finitezza. È proprio perché per lui vi è sempre un pre-tempo impossibile da trasformare in presenza dominabile, e tuttavia costitutivamente coinvolto nel carattere evenemenziale dell’esistenza stessa, che la sua “avventura temporale” è finita, mentre il suo senso è in-finito. L’advenant, venendo alla vita, si trova ad abitare quella soglia che segna lo scarto tra la sua radicale e originaria finitezza e l’in-finitezza del senso della vita che in lui si manifesta — si auto-affetta, direbbe Henry. In altre parole, questo “cominciamento” irrappresentabile è la radice della sua finitezza.

È proprio a partire dall’eccedenza assoluta dell’evento sull’advenant — che inaugura l’esperienza del “ritardo costitutivo” e che fa dell’appropriazione delle proprie possibilità un compito mai del tutto concluso — che la finitezza dell’advenant emerge e si manifesta apertamente. Così, la finitezza non ha alcun senso se non in relazione all’infinità del possibile che lo precede e che si rivolge all’advenant per mezzo della vicinanza dei suoi prossimi, dalla famiglia d’origine a tutte le relazioni in cui s’inserisce nascendo. Infine, una tale finitezza proviene dunque dal primato indiscusso dell’evento che, possibilizzando il possibile, temporalizza la temporalità e ne vieta qualunque “totalizzazione”: esso consegna l’advenant alle falle di una presenza costantemente infiltrata d’assenza.

Il fenomeno della nascita ci ha dunque condotto in questo luogo paradossale in cui la presenza e l’assenza si compenetrano facendo letteralmente esplodere le categorie meramente soggettive con cui ci rapportiamo abitualmente alle “le cose del mondo”: ebbene, l’esplosione del primo vagito di un neonato ci pone brutalmente dinanzi alla necessità di rapportarci ad una temporalità altra, non più nella semplice forma del decorso orientato che dal passato punta al futuro, ma nella forma dell’appello che ci espone rischiosamente alle nostre possibilità più estreme. Dinanzi a un tale appello coinvolgente si sbriciola ogni certezza autofondata e l’io si ritrova nell’umiltà — perfino nell’indigenza ontologica — dell’advenant, cioè di colui che riceve se stesso dall’evento a cui è esposto. In quel primo vagito la vita viene a sé, liberamente, in un movimento che non è più dell’ordine della generazione dell’essere, ma dell’affettività. Per questo la vita che viene a sé nella nascita non chiede di essere giustificata, fondata, valutata: chiede esclusivamente di essere amata.


[1] M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Milano, Longanesi 1976, § 48, p. 301.
[2] Ivi, p. 300.
[3] Ibidem.
[4] E. Husserl, «Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins», in “Husserliana”, X, L’Aia, Nijhoff 1966, p. 276.
[5] E. Husserl, «Die Bernauer Manuskripte», in “Husserliana”, XXXIII, Dordrecht, Kluwer 2001.
[6] M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, trad. it. di G. Vattimo, Milano, Mursia 1968, §4 e segg..
[7] J. L. Marion, Réduction et donation, Parigi, PUF 1989, p. 292 [trad. nostra].
[8] Ibidem.
[9] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 29.
[10] J. L. Marion, Réduction et donation, cit., pp. 292-293.
[11] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 30.
[12] J. L. Marion, Réduction et donation, cit., p. 294 [corsivo nostro].
[13] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., §2.
[14] M. Henry, Phénoménologie de la naissance, in Phénoménologie de la vie, I, Paris, PUF 2003, p. 124, trad. nostra.
[15] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 329.
[16] M. Henry, Phénoménologie de la naissance, cit., p. 126.
[17] Ibidem.
[18] Ivi, p. 127.
[19] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 75.
[20] M. Henry, Phénoménologie de la naissance, cit., pp. 128-129.
[21] Ivi, p. 129.
[22] Ivi, p. 132.
[23] Ivi, p. 133.
[24] J. L. Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001, p. 393.
[25] M. Henry, Phénoménologie de la naissance, cit., p. 139.
[26] Ivi, p. 141.
[27] Ivi, p. 142.
[28] C. Romano, L’événement et le temps, Parigi, PUF 1998, p. 277 (trad. nostra).
[29] Ibidem.
[30] Ivi, p 290.


Claudio Tarditi (1978) è attualmente Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Torino e Visiting Researcher presso l’Università di Nijmegen (Paesi Bassi). È autore di vari saggi, tra cui Con e oltre la fenomenologia. Le “eresie” fenomenologiche di J. Derrida e J. L. Marion (2008); René Girard interprete del Novecento (2009); Introduzione alla fenomenologia francese. Temi e percorsi (2011) e Abitare la soglia. Percorsi di fenomenologia francese (2012).



Mark Rothko, Four-darks-in-red, 1958


Home » Mongrafie » Rahamim

© 2013 kasparhauser.net