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2013

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Rahamim. Lingua, terra, misericordia
A cura di Francesca Brencio




Il grido di Cristo crocifisso.
Parola di misericordia per l’uomo fatto di terra

di Roberta Vinerba

Settembre 2013


INTRODUZIONE

I temi del linguaggio, della misericordia-raªmim e della terra natia, in ambito teologico, costituiscono il cuore della riflessione circa la Rivelazione, ovvero l’auto-comunicazione di Dio all’uomo attraverso «eventi e parole tra loro intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto». [1]

L’auto-comunicazione di Dio all’uomo, la comunicazione di sé che è, al contempo, dono di tutto se stesso nel Figlio, è fin dal principio una parola che crea perché è parola-misericordiosa capace di strappare al nulla del non-essere, la realtà, perché-sia. Dalle viscere della Trinità, potremmo dire dalla Trinità-raªmim, è tratto l’uomo e tutto ciò che esiste.

Un uomo fatto di terra che ha come luogo natio il seno della comunione trinitaria al quale è chiamato, in una sorta di redditio salvifica, a ritornare.

La misericordia è dunque l’utero nel quale tutto è mosso all’esistenza, da cui tutto prende consistenza, un utero generativo che è svelato, definitivamente, nel costato trafitto del Cristo crocifisso, terra natia della Chiesa e dei rinati nel battesimo, generati alla vita eterna.

L’articolazione dell’argomentazione avrà pertanto la scaturigine nella “teologia della parola” che illuminerà anche l’idea di “terra”, così come si è dipanata nella rivelazione giudeo-cristiana. Il tema si declinerà, finalmente, a partire dall’etimo del termine “misericordia” negli scritti biblici, nella definitiva rivelazione della misericordia come atto salvifico e generativo della Pasqua del Signore, luogo nel quale la Parola fatta carne riconduce la terra umana al luogo natio della comunione trinitaria, al seno misericordioso del Padre.

Per l’ampiezza dei temi trattati, l’argomentazione che segue non si presenta come un trattato articolato ed esaustivo di tali argomenti, ma come l’offerta di una lettura della storia della salvezza dall’angolazione della misericordia, quale utero che genera.



LA PAROLA SI FA TERRA, STORIA, CARNE


1. Il dabar nella creazione

Il termine ebraico che, per eccellenza indica la parola, è dabar. Nell’Antico Testamento dabar è usato più di 1500 volte, così il verbo derivante dibber. Per circa 400 volte il soggetto del dabar e del dibber è Dio. Dabar Jhwh compare ben 241 volte. L’etimologia del termine dabar non aiuta più di tanto a comprendere la reale portata del termine nella rivelazione giudeo-cristiana. [2] Aiuta invece considerane il contesto d’uso.

Nell’esperienza biblica, Dio per comunicare con l’uomo usa il linguaggio degli uomini [3], si rivolge a loro parlandogli. Per comprendere la portata di questa affermazione occorre astrarsi dalla valutazione negativa che l’uomo moderno ha nei confronti della parola, che di norma, contrappone ai fatti. La parola è volant mentre i fatti restano. [4]

Non così è il dabar, la parola divina che è al contempo, un evento, «la parola è, nello stesso tempo, parola parlata, impresa e avvenimento. È per questo che nell’Antico Testamento quando si vuole esprimere qualcosa si presenta non un ragionamento logico, ma un’esperienza storica». [5] Non c’è sporgenza, in Dio tra il dire e il fare. [6]

L’atto creativo di Dio che apre la storia, si compie parlando: Dio disse (cfr. Gen 1). Il dire di Dio trae all’esistenza le cose che prima non esistevano, un atto creativo che accade nella parola che è, anche, avvenimento totalmente gratuito — Dio non è necessitato a creare — e che i padri presentano come un atto di sovrabbondanza di amore intra-trinitario che si rovescia ad-extra, senza altro motivo che l’amore. Ora, se l’amore è il motivo della creazione, per Dio, parlare, comunicare ed amare, sono la stessa cosa, lo stesso momento.

Parlando, Dio ama e ama parlando, tutto l’articolare del linguaggio divino, anche quando si presenta duro, è sempre un atto d’amore, perché è gratuità fedele da parte di un Dio che ha scelto di legarsi all’uomo senza altro motivo che renderlo termine dei propri doni. « Poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure creata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l'avessi chiamata all’esistenza? Tu risparmi tutte le cose, perché tutte son tue, Signore, amante della vita» (Sap 11,24-26).

L’interlocutore del dialogo è, prima di tutto e sopra tutto, l’uomo, «la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa». [7] Anche egli è, prima di tutto terra, «il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo» (Gen 2,7a), una terra che riceve la vita dall’esterno, dal soffio di Dio stesso (cfr. Gen 2,7).

L’uomo è ’ādām perché viene dal suolo — ’ādāmâ — condivide lo statuto di creatura con tutte le realtà create, ma a differenza di queste, riceve lo spirito, — rûah — stagliandosi al di sopra di tutte. Questo statuto coincide con quello dell’amministratore, non del dominus: l’amministratore dispone dei beni del suo signore e partecipa su di loro della signoria del padrone, ma non ne dispone in assoluto perché ha un rendiconto da farne.

Il fatto che egli possa dare un nome alle cose che Dio chiama all’esistenza, è una partecipazione della signoria di Dio sul creato — dare un nome significa essere superiore a colui che si nomina — ma le realtà nominate non sono uscite dalle sue mani, gli vengono condotte da Dio (cfr. Gen 2,18-20).

L’uomo dovrà così sempre fare i conti con questa paradossale identità: fatto di terra, condivide con gli altri esseri viventi l’appartenenza al regno della materia, delle cose. Fatto essere vivente — nepeš — si staglia al di sopra del regno vegetale e animale non potendosi mai farsi bastare la terra che stringe fra le mani, essendo fatto per gli spazi siderali.

Così la prima terra che l’uomo conosce e che abita, è la sua finitudine, ma al contempo, il suo apparentamento con il Creatore: «a immagine di Dio li creò» (Gen 1,27b). [8]

Una terra che, dopo la caduta del peccato (cfr. Gen 3), diventerà a somiglianza di una faglia, instabile, sottoposta a torsioni, fratture, scosse, sempre in pericolo di distruzione. Il dramma della sfiducia a Dio rompe, da parte dell’uomo, il dialogo con il Creatore, la creatura diventa sorda alla parola che non trova più un interlocutore che voglia e possa rispondere. Il linguaggio è diventato incomprensibile, adesso l’incomunicabilità che nasce nel rapporto con Dio, si allarga ad ogni relazione fino a Babele, con la dispersione della famiglia umana (cfr. Gen11).

La terra natia si rende presente nella coscienza dell’uomo, da allora in poi, sotto forma di nostalgia che si manifesta nella ricerca, da parte delle differenti religioni, dei differenti miti, della risposta all’inquietudine mana.

L’uomo sente di avere dinanzi a sé qualcosa o qualcuno che era già all’inizio, e nebulosamente, ma insopprimibilmente, ne ricerca sempre il volto.


2. Il dabar nella storia

La parola creatrice di Dio resterà, nei momenti più bui per la fede di Israele — si pensi all’esilio babilonese, tempo nel quale furono composti i testi relativi alla creazione — la garanzia che quel Dio che scelse Israele, continuerà a mantenere la sua fedeltà all’alleanza stipulata in Abramo.

Creazione e ritorno dalla schiavitù babilonese si presentano allora polarità della stessa realtà: Dio saprà creare un nuovo esodo perché nulla può opporvisi essendo lui l’unico Dio, esistente e padrone di tutta la terra, in quanto ne è il Creatore. La creazione dunque, resta la cifra di comprensione e del monoteismo, e della predilezione di Dio per Israele, scelto di mezzo a tutti gli altri popoli per farne un popolo santo. Da Babilonia, per il suo popolo, Dio creerà una strada in mezzo al deserto per ricondurlo alla terra data ai padri, sul modello dell’esodo dall’Egitto, manterrà la parola data in Abramo e ai padri.
Per primo io l’ho annunciato in Sion […] I primi fatti, ecco, sono avvenuti e i nuovi io preannuncio; prima che spuntino, ve li faccio sentire […] Così dice il Signore che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo […] Non ricordate più le cose passare, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada (Is 41,27. 42,9. 43,16-19).
Se la creazione è dalla Parola, così l’evento fondante della fede d’Israele, quello che, come si è appena detto, resterà il prototipo di ogni intervento divino di salvezza verso Giacobbe — la liberazione dalla schiavitù d’Egitto — anch’esso è dalla Parola. «Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile» (Sap 18,14-15).

Il dabar crea dal nulla e crea nuove condizioni perché si formi un popolo e un popolo libero. Essendo parola-evento, il dabar è sempre salvezza dal caos e dalla solitudine: strappa l’uomo dal nulla, lo strappa dalla solitudine e lo pone soggetto di una comunità. Tutto questo perché egli è il termine di una parola che lo appella e che lo coinvolge, lo pro-voca ad una risposta. In tale maniera, tutto l’atto creativo di Dio, inteso e come creazione in senso stretto e come creazione di eventi salvifici storici, la relazione salvifica con Israele, si qualifica secondo la categoria del dialogo.

Al modo umano, nel quale la parola stabilisce una comunicazione-comunione tra gli uomini, in ultimo un dono — l’uscire da sé mediante la parola è dono fatto all’altro che ricevendolo, entra in una donazione reciproca — così il dabar divino è comunicazione e comunione.

Esso crea una conoscenza di Dio non tanto di natura intellettuale — Dio come oggetto di speculazione — ma di natura interpersonale, un rapporto fatto di riconoscenza e amore nel quale, attraverso l’atteggiamento del timor di Dio, è tutelata l’asimmetria: Dio resta trascendente e l’uomo la creatura finita.

Lungo tutta la storia della salvezza, Dio continuerà a rivolgere la parola a Israele, anche quando questi tradirà l’alleanza stipulata con Lui. Dio che continua a parlare resterà la speranza di Israele: Dio non si è stancato del suo popolo, la sua parola continua a farlo sussistere: «a te grido, Signore, mia roccia, con me non tacere: se tu non mi parli sono come chi scende nella fosse» (Sal 28, 1). Da Abramo in poi, attraversando tutta la rivelazione profetica [9], la parola di Dio rivelata attraverso sogni, pratiche sacerdotali — ad esempio mediante gli urim — e, finalmente la tradizione profetica, costituirà la certezza del Dio vicino.
Vedete, io vi ho insegnato leggi e norme come il Signore mio Dio mi ha ordinato, perché le mettiate in pratica nel paese in cui state per entrare per prenderne possesso. Le osserverete dunque e le metterete in pratica perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente. Infatti qual grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E qual grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi espongo? (Dt 4,5-8).
Una parola che è immancabilmente efficace, dice e realizza perché la parola è Dio stesso: «questa rigorosa unità fra Dio e la sua parola va tenuta presente in tutti i passi che parlano della parola come qualcosa di efficace: essa non lo è per se stessa, ma in quanto Dio la pronunzia: “Io, il Signore, parlerò, la parola che dirò si attuerà” (Ez 12,25.28». [10]

Pur avendo Dio parlato «molte volte e in diversi modi ai padri» (Eb 1,1), il rapporto tra Jhwh e Israele avviene prevalentemente attraverso la parola — «per mezzo dei profeti» (ibidem), ed è contrapposta
a tutti i tipi di rapporti naturalistici fra la divinità e i seguaci delle religioni cananee dell’ambiente circostante. L’incontro con Jhwh non avviene attraverso la fertilità dei campi o la fecondità del bestiame, né attraverso i rapporti sessuali che pure servono alla riproduzione della vita: quindi i riti intesi a celebrare o propiziare il risveglio della natura e la sua fertilità non hanno spazio nel culto. [11]
Già da questo contesto è facile comprendere come la relazione tra fecondità e terra, pensata questa come un grembo da fecondare mediante pratiche cultuali, spesso di matrice sessuale mediante l’incontro tra il sacerdote e le prostitute sacre, sia assolutamente esclusa dal culto e dalla religione di Israele.

La terra è demitizzata, non è principio divino ma creatura di Dio, fatta da lui mediante la sua parola. Mentre il dabar è un tutt’uno con la sovrana libertà di Dio, la terra è data in possesso all’uomo perché la soggiogasse (cfr. Gen 1, 28-31). Mentre nei culti pagani la terra è in sé scintilla del divino e divina essa stessa, nella rivelazione giudaica, essa è altro da Dio e costituisce l’evidenza della fedeltà di Dio a Israele. [12]

Questi è il Dio fedele perché mantiene la promessa di regalare una terra a coloro che erano non-popolo, dove possano riposare in pace e servire il loro Dio. La legislazione dell’anno sabbatico (Lv 25), novità assoluta nel contesto storico-geografico di Israele, è prolungata perché questi è stanziato su una terra che lo fa nazione libera: il sabato per riposare, il giubileo per riscattare gli schiavi e far rigenerare la terra, sono il segno della natura spirituale dell’uomo che è fatto per un altro riposo.

Il dono della terra, dunque, è contestuale alla proclamazione della dignità dell’uomo e della sua libertà da qualunque faraone che voglia asservirlo. Non è un caso che l’idea del riposo dal lavoro, dell’ozium come rigenerazione, compaia storicamente con il compimento del sabato giudaico, ovvero il dies Domin che è la vera terra promessa, il vero riposo (cfr. Eb 3,7-19).


3. La parola si è fatta carne

Finalmente Dio «che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,1-2).

Se i profeti erano stati una «lampada che brilla in un luogo oscuro» (2Pt 1,19), ora è arrivata all’uomo la luce vera (cfr. Gv 1,9). La parola che tutto ha creato e che tutto sostiene si è fatta carne: «in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1,1-3). Si tratta del prologo di Giovanni, che è un
inno (protocristiano) che identifica Cristo stesso — in un uso assoluto della parola — con il λόγoϛ personale. […] Gli enunciati deducibili dal testo stesso […] riguardano il percorso redentore di Cristo: nella sua preesistenza eterna (v. 1a) e nella sua unione personale con Dio (vv. 1b.2) il Logos svolge un’ampia attività causale nella creazione (v. 3) e una funzione salvifica (che comunica “luce” e “vita”) a favore del mondo (v. 4). [13]
Per quanto concerne l’uso del vocabolo λόγoϛ, «possono essere confluiti il λόγoϛ stoico (principio razionale dell’universo), la parola creatrice dell’Antico Testamento, la sapienza personificata del giudaismo post-esilico» [14], ma certamente su tutti questi affluenti centrale è il tema
della parola creatrice che si sviluppa in armonia con Is 55, 10-11: inviata da Dio […] nel mondo […] per fecondarlo […] fa ritorno a Dio dopo aver compiuto la sua missione […]. Presenza presso Dio, ruolo nella creazione, invio nel mondo per insegnare all’umanità, questo insieme di temi riguardano la Sapienza così come la Parola (Pr 8,22-36+; Sir3-32; Sap 9,9-12). Nel Nuovo Testamento tocca a Giovanni, grazie al fatto dell’incarnazione […], rivelare pienamente la natura personale di questa parola (Sapienza) sussistente ed eterna. [15]
Gesù, essendo la parola fatta carne, «proferisce le parole di Dio» (Gv 3,34) ed è il compimento della Rivelazione, della salvezza del Padre all’uomo. Gesù «con la sua stessa presenza e con la manifestazione completa di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e gloriosa risurrezione dai morti, e infine con l’invio dello Spirito di verità» [16] mostra il vero volto del Padre, la sua fedele intenzionalità salvifica che si declina in comunione: «in mezzo a loro sarà la mia dimora: io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ez 37,27). L’intenzionalità divina che si compie nel dono dell’inabitazione dello Spirito Santo nel cuore dell’uomo, dono del Cristo pasquale, è la comunione con l’uomo: questi è la terra di Dio e Dio è il cielo dell’uomo. [17]

Nella unione con Dio l’uomo trova la sua salvezza, la stabilità, l’eredità, il possesso della vita. Se Cristo è la vera terra promessa, il vero riposo là dove i nemici non hanno accesso, al contempo l’uomo è la terra dove Dio trova riposo: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).

Cristo, è dunque parola ed è anche terra, di lui, della sua vicenda profetizza il salmo: «amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo» (Sal 85,11-12).

La sua persona umano-divina è il linguaggio perfetto parlato da Dio e dall’uomo, il lui la parola divina ha trovato l’interlocutore pronto alla risposta, nell’alterità delle due nature in un’unica persona, si è realizzato il dialogo perfetto che è dato, nel tempo del già e non ancora, per dono, ad ogni uomo che risponde all’offerta di amicizia di Dio accogliendo lo Spirito Santo. [18]



UTERO DI MISERICORDIA


1. Misericordia come hesed e come rahªmim

La storia della salvezza si presenta nella forma del mistero. Mistero nel senso paolino, ovvero non di una realtà che non è data di comprendere, ma di un disvelamento progressivo di una verità già presente fin dall’inizio e che si dà da conoscere: «il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi. A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1,26-27).

Ciò che era nel cuore dei secoli, era il Cristo risuscitato datore dello Spirito: una storia inspiegabile dal punto di vista del tornaconto, ma comprensibile solo se ci poniamo dal punto di vista della gratuità, della grazia. Dio non solo non era necessitato alla creazione, ma men che meno alla redenzione: «è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere, affinché nessuno se ne vanti». (Ef 2,8). [19]

Ogni intervento suo, altri non è che un atto di benevolenza, di condiscendenza, in completa perdita, potremmo dire.

In altre parole, la ragione della storia della salvezza altri non è che la misericordia divina [20] che culmina nello scandalo inaudito di un Dio che muore per l’uomo.
In Cristo e mediante Cristo, diventa anche particolarmente visibile Dio nella sua misericordia, cioè si mette in risalto quell’attributo della divinità che già l’Antico Testamento, valendosi di diversi concetti e termini, ha definito “misericordia”. Cristo conferisce a tutta la tradizione veterotestamentaria della misericordia divina un significato definitivo. Non soltanto parla di essa e la spiega con l’uso di similitudini e di parabole, ma soprattutto egli stesso la incarna e la personifica. Egli stesso è, in un certo senso, la misericordia. Per chi la vede in lui — e in lui la trova — Dio diventa particolarmente “visibile” quale Padre “ricco di misericordia” (Ef 2,4). [21]
Prima ancora nei patriarchi nelle loro vicende personali, poi per Israele come popolo tutto, è all’esodo che va fatta risalire la convinzione che Dio è un Dio di amore e di compassione, che si muove a pietà per le miserie del suo popolo. Miserie che sono anche dal peccato, come ben esprime la vicenda del vitello d’oro nella quale brilla la decisione del Signore di perdonare al popolo infedele: «Dio di tenerezza e di grazia, lento all’ira e ricco di misericordia e di fedeltà» (Es 34,6).

«Tutte le sfumature dell’amore si manifestano nella misericordia del Signore verso i suoi; egli è il loro padre poiché Israele è suo figlio primogenito, egli è anche lo sposo di colei a cui il profeta annuncia un nome nuovo ruāmāh, “beneamata”, perché a lei sarà usata misericordia». Così la misericordia è per gli israeliti «il contenuto dell’intimità con il loro Signore, il contenuto del loro dialogo con lui». [23]

Questo contenuto è proclamato attraverso molti termini, ma vi sono soprattutto due espressioni che ricorrono più frequentemente. Il primo è hesed e indica l’atteggiamento di sue uomini che sono tra di loro legati da legami di bontà sulla base di un obbligo interiore. Se primariamente hesed suole indicare la fedeltà, è perché l’amore ne è la causa. Nasce «da una deliberazione cosciente, a seguito di una deliberazione comportante diritti e doveri, che in genere si ha da parte del superiore verso ‘inferiore». [24] Dio si è legato ad Israele come impegno di hesed e per fedeltà verso se stesso resta fedele al patto di alleanza anche quando tale fedeltà sarà solo unilaterale: «io agisco non per riguardo a voi, gente d’Israele, ma per amore del mio nome santo» (Ez 36,22). Questa fedeltà a sé si traduce, per Israele in un amore più forte del tradimento, un amore capace di donarsi senza contraccambio, capace di offrire perdono e ricostruzione. Si tratta, potremmo dire, di una manifestazione di un amore responsabile, che è maggiormente indicativo del geno maschile.

Infine nella radice ebraica di hesed, troviamo anche l’apparentamento con termini che richiamano «l’atteggiamento paziente di colui che è trattato male dall’altro ma non vuole separarsi da lui (Mt 7,18). Si tratta, [ancora], dell’atteggiamento con cui Dio si mantiene fedele alla sua alleanza». [25]

Nella LXX hesed è tradotto con éleos, anche se «non si colloca nella sfera giuridica, bensì in quella psicologica, muovendo da una profonda commozione d’animo per tradursi in gesti di pietà o di compassione, di bontà o di misericordia» [26].

Il secondo vocabolo che l’Antico Testamento usa per definire la misericordia, è quello che maggiormente interessa in questa sede.

Si tratta di rahªmim, che indica le viscere e, al singolare, l’utero. «Essendo questo legame riposto nella parte più intima dell’uomo (le viscere, appunto, come quando noi parliamo di amore viscerale o di odio viscerale, ma in genere preferiamo il termine “cuore”), il sentimento che ne scaturisce è spontaneo e aperto ad ogni forma di tenerezza». [27] Una tenerezza che è anche correzione, ma che non resiste alla compassione per la durezza del castigo: «Non è un figlio carissimo per me Efraim, il mio bambino prediletto? Ogni volta che lo minaccio, me ne ricordo sempre con affetto. Per questo il mio cuore si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza» (Ger 31,20). Ancora: «come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Adma, ridurti allo stato di Seboìm? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os 11,8).

L’amore di rahªmim però, prima di tutto, esprime l’amore della madre verso il proprio figlio, il legame più viscerale e indistruttibile che esista sulla terra. Ed è proprio l’immagine della madre che ama teneramente e fedelmente il figlio, quella che è maggiormente calzante per dire l’atteggiamento di Dio verso il proprio popolo: «si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15).

Un Dio di tenerezza infinita, che parla dei propri sentimenti come sgorganti direttamente dal suo utero, paragonandosi ad una madre, Egli pone in evidenza il tratto debole dell’amore: una madre non può resistere al proprio figlio, una madre sa solo perdonare ed attendere.

Dio è grembo materno che genera un popolo nuovo perché lo trae dalle proprie viscere. [28] In questo sta la scandalosa novità del Dio di Israele, in questo abbassarsi e farsi bisognoso della sua creatura e del suo amore. Per sua libera scelta, Dio ha deciso di rendersi vulnerabile all’amore.
Questo amore, fedele e invincibile grazie alla misteriosa forza della maternità, viene espresso nei testi veterotestamentari in vari modi: sia come salvezza dai pericoli, specialmente dai nemici, sia anche come perdono dei peccati — nei riguardi degli individui e anche di tutto Israele — e, infine, nella prontezza ad adempiere la promessa e la speranza (escatologiche), nonostante l’infedeltà umana, come leggiamo in Osea: “Io i guarirò dalla loro infedeltà, li amerò di vero cuore” (Os 14,5). [29]
Nel Nuovo Testamento il termine che rende rahªmim è oiktirmós che spesso esprime compassione, commiserazione, pietà.

Infine, il termine che letteralmente equivale a rahªmim nel testo greco è splánchna, ed esprime benignità, tenerezza, misericordia, compassione, accondiscendenza (cfr. Lc 10,25-37). Zaccaria che canta la bontà fedele di Dio alla nascita di Giovanni Battista, afferma che questi «ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza» (Lc 1,72).

Siamo di fronte al significato più letterale di rahªmim, tanto che la traduzione latina è di viscera misericordiae «che identifica […] la misericordia divina con l’amore materno». [30]


2. La Pasqua di Cristo, amore viscerale di Dio

I Vangeli sono l’icona di Dio chino sulle ferite umane. In ogni gesto, in ogni parola, in ogni atteggiamento del Signore, troviamo la condiscendenza del Padre verso l’uomo.

Le viscere paterne si sono manifestate nella carne del Figlio, il quale passò sanando e beneficando tutti coloro che incontrò (cfr. At 10,38). La parabola del Padre misericordioso (cfr. Lc 15,11-32) da lui narrata è, in sé, storia dell’umanità tutta e di ciascuno, offerta delle viscere d’amore di Dio ad ogni uomo che voglia entrarvi. [31] Eppure è negli eventi del venerdì santo, del sabato e della domenica di resurrezione che accade la piena manifestazione del Dio ricco di misericordia. Colui che era nel seno del Padre (cfr. Gv 1,18), nelle sue viscere, nella parte più profonda di sé, è dato agli uomini.

Il venerdì è il giorno nel quale Gesù non trova, sulla terra, misericordia. E non ne trova neppure nei cieli: «si rivolge al Padre, a quel Padre il cui amore egli ha predicato agli uomini, la cui misericordia ha testimoniato con tutto il suo agire. Ma non gli viene risparmiata — proprio a lui — la tremenda sofferenza della morte in croce». [32] Eppure sulla croce si consuma il dialogo del Figlio al Padre. In quell’abbandono confidente: «Padre nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46) è ristabilito il linguaggio originario di intima comunione tra il Creatore e la creatura. Nella croce è ristabilita la giustizia nella forma della misericordia, una misericordia che va fino agli inferi, fino al luogo nel quale nessuno, una volta discesovi, poteva risalirne.

Il Figlio, seppellito nelle viscere della terra, vivo in spirito, andrà ad annunziare la liberazione a coloro che erano negli inferi e aspettavano la liberazione. Nella reale sepoltura di Gesù, vi è contenuto il mistero della terra che si apre e dalle sue viscere restituisce i morti. Già realmente, il sabato del silenzio, il sabato santo, è accaduto che per la discesa di Cristo agli inferi, «il mare restituì i morti che esso custodiva, la Morte e gli inferi resero i morti la loro custoditi» (Ap 20,13).
È nel mistero della Croce che si rivela appieno la potenza incontenibile della misericordia del Padre celeste. Per riconquistare l’amore della sua creatura, Egli ha accettato di pagare un prezzo altissimo: il sangue del suo Unigenito Figlio. La morte, che per il primo Adamo era segno estremo di solitudine e di impotenza, si è così trasformata nel supremo atto d’amore e di libertà del nuovo Adamo. Ben si può allora affermare, con san Massimo il Confessore, che Cristo “morì, se così si può dire, divinamente, poiché morì liberamente” (Ambigua, 91, 1056). Nella Croce si manifesta l’eros di Dio per noi. Eros è infatti — come si esprime lo Pseudo Dionigi — quella forza “che non permette all’amante di rimanere in se stesso, ma lo spinge a unirsi all’amato” (De divinis nominibus, IV, 13: PG 3, 712). Quale più “folle eros” (N. Cabasilas, Vita in Cristo, 648) di quello che ha portato il Figlio di Dio ad unirsi a noi fino al punto di soffrire come proprie le conseguenze dei nostri delitti? [33]
E infine, solo con l’alba di risurrezione si rendono comprensibili le paradossali parole della lettera agli Ebrei: «proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà» (Eb 5,7). Dio ha fatto giustizia sulla morte, nel chinarsi sull’uomo e sul Figlio.
Questo far giustizia della morte avviene a prezzo della morte di colui che era senza peccato e che unico poteva — mediante la propria morte — infliggere morte alla morte. In tal modo la croce di Cristo, sulla quale il Figlio consostanziale al Padre rende piena giustizia a Dio, è anche una rivelazione radicale della misericordia, ossia deamore che va contro a ciò che costituisce la radice stessa del male nella storia dell'uomo: contro al peccato e alla morte. La croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull'uomo e su ciò che l'uomo — specialmente nei momenti difficili e dolorosi — chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell'eterno amore sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo, è il compimento sino alla fine del programma messianico, che Cristo formulò una volta nella sinagoga di Nazaret e ripeté poi dinanzi agli inviati di Giovanni Battista. Secondo le parole scritte già nella profezia di Isaia, tale programma consisteva nella rivelazione dell'amore misericordioso verso i poveri, i sofferenti e i prigionieri, verso i non vedenti, gli oppressi e i peccatori. Nel mistero pasquale viene oltrepassato il limite del molteplice male di cui l'uomo diventa partecipe nell'esistenza terrena: la croce di Cristo infatti ci fa comprendere le più profonde radici del male che affondano nel peccato e nella morte, e cosi diventa un segno escatologico. Soltanto nel compimento escatologico e nel definitivo rinnovamento del mondo, l'amore in tutti gli eletti vincerà le sorgenti più profonde del male, portando quale frutto pienamente maturo il Regno della vita e della santità e dell'immortalità gloriosa. Il fondamento di tale compimento escatologico è già racchiuso nella croce di Cristo e nella sua morte. Il fatto che Cristo “è risuscitato il terzo giorno” costituisce il segno finale della missione messianica, segno che corona l'intera rivelazione dell'amore misericordioso nel mondo soggetto al male. Ciò costituisce al tempo stesso il segno che preannuncia “un nuovo cielo e una nuova terra”, quando Dio “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”. [34]
Cristo risuscitato è «l'incarnazione definitiva della misericordia, il suo segno vivente: storico-salvifìco ed insieme escatologico. Nel medesimo spirito, la liturgia del tempo pasquale pone sulle nostre labbra le parole del Salmo: Canterò in eterno le misericordie del Signore». [35]

Il termine della storia della salvezza è dunque il corpo glorioso del Signore risorto, che nel tempo del nostro pellegrinaggio terreno rivela l’amore divino come misericordia, e nel dono dello Spirito Santo, la comunica all’uomo come Presenza che deve farsi storia nelle relazioni umane.

Sulla terra degli uomini, nell’uomo fatto di terra, dimora la Misericordia, le viscere stesse del Padre che sono date, per mezzo del Figlio crocifisso all’uomo, perché divenga, egli stesso adesso, grembo di vita, capace di parlare il linguaggio nuovo dei salvati (cfr. Ap 5,9).


— 2.1 Il costato dell’Uomo nuovo, grembo fecondo di nuova terra

Nella vicenda pasquale del Signore vi è una sequenza di accadimenti che sono determinanti per la nostra riflessione. L’evangelista Luca racconta così gli ultimi istanti di vita di Gesù: «Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Il velo del tempio si squarciò nel mezzo. Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Detto questo spirò» (Lc 23,44-46). Il grido di Gesù è riportato anche da Marco: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37) e da Matteo: «Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito» (Mt 27,50).

Gli evangelisti riportano un primo grido di Gesù, quell’Elì, Elì, lemà sabactàni (Mt 27,45) che porta al cielo il grido dell’angoscia cosmica dell’uomo, del creato sottoposto al peccato e alla morte.

Il secondo grido con il quale avviene la morte, ha invece un altro significato, siamo di fronte ad un’altra realtà.
Questo secondo è la voce potente del Verbo creatore che si diffonde nelle tenebre e crea la vita. È il vagito potente della creatura nuova: il Figlio di Dio, nel quale tutto è fatto, nasce sulla terra! Dall’alto della croce, è inviato sulle tenebre lo Spirito del Figlio, che a tutto dà vita. Nel battesimo di Gesù si squarciò il cielo, scese lo Spirito e risuonò la voce che lo proclamò Figlio; nella sua morte si squarcia il velo del tempio e il Figlio di Dio nasce sulla terra, riempiendo il cosmo del suo Spirito. Dio non è più dietro il velo del tempio, in cielo; è nella nudità del Figlio, che lo svela sulla terra. [37]
La via d’accesso a Dio è aperta a tutti, il corpo esposto di Gesù è la via nuova (cfr. Eb 10,20) che conduce alle profondità divine: Dio nell’uomo, l’uomo in Dio.

Il grido di Gesù è sia il primo vagito della nuova umanità — dal Figlio, nuovo Adamo, prende vita la nuova stirpe, la nuova generazione dei figli di Dio, che «diventando figli col Figlio, [possono] pregare esclamando nello Spirito: Abba, Padre» [38] — ma è anche il grido della donna partoriente che fa nascere da sé la nuova creatura.

Se questa nascita è sottesa allo spirito che è consegnato nel grido, «ed emise lo spirito» (Mt 27,50b) [39], al contempo è confermata dal colpo di lancia che apre il costato al crocifisso, aprendo nella sua carne, il varco d’accesso dell’umanità tutta alla vita divina, al paradiso — la terra di Dio, l’Eden — e fecondando la terra degli uomini col sangue e l’acqua.

Ora, mentre i Sinottici riportano lo squarciarsi del velo del Tempio, Giovanni invece riporta l’apertura del costato di Gesù con la lancia da parte del soldato.
Era il giorno della Preparazione e i Giudei, perché i corpi non rimanessero in croce durante il sabato (era infatti un giorno solenne quel sabato), chiesero a Pilato che fossero loro spezzate le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe al primo e poi all'altro che era stato crocifisso insieme con lui. Venuti però da Gesù e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera e egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto (Gv 19,31-37).
Il velo aperto e il costato trafitto, stanno ad indicare la medesima realtà: adesso il santuario è il corpo del Signore. Nella esperienza di fede di Israele l’acqua che esce dal lato destro del santuario, e che diventa un fiume in piena capace anche di risanare le acque del mare, era una parola ben conosciuta. Ezechiele la riceve in visione, in tempo d’esilio, come promessa di un tempo nuovo nel quale dal tempio riedificato sarebbe sgorgata la sorgente capace di lavare il peccato e sanare l’umanità (cfr. Ez 47,1-12).

Così il profeta Zaccaria vede in visione il giorno del Signore nel quale «non vi sarà né luce né freddo, né gelo: sarà un unico giorno, il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte; verso sera risplenderà la luce. In quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme e scenderanno parte verso il mare orientale, parte verso il Mar Mediterraneo, sempre, estate e inverno. Il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore soltanto, e soltanto il suo nome» (Zc 14,6-9).

Un giorno nel quale Dio si impegna, per bocca del profeta a «distruggere tutte le genti che verranno contro Gerusalemme. Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito» (Zc 12,9-10). Quello che accade sul Golgota era stato preannunziato dalla parola profetica che adesso è diventata carne, storia. [40]
Il Figlio “uscì” dal Padre perché da lui uscisse per noi “sangue ed acqua”. L’avverbio “subito” fa vedere che quel sangue e quell’acqua premevano per uscire: il Figlio fin da prima della fondazione del mondo […] vuol comunicarci l’amore con il quale il Padre ama noi come lui (Gv 17,23). […] Il sangue, vita quando sta nel corpo, quando è versato diventa segno di morte. Questo sangue effuso evidenzia che la vita del Figlio è tutta offerta ai fratelli, fino al dono di sé sulla croce. Così Gesù si realizza pienamente come il “Figlio”, uguale al Padre, principio di ogni dono. […] Dal suo sangue, dalla sua vita donata a noi, nasce la nostra risposta di amore: riceviamo lo Spirito, simboleggiato dall’acqua che irriga la terra, quella terra arida che è l’uomo. […] Sangue ed acqua, oltre a richiamare la Pasqua e la Pentecoste, la salvezza e il perdono, l’alleanza nuova e il dono dello Spirito, sono anche simbolo di nascita. Nasciamo dall’alto (cfr. Gv 3,1ss), da acqua e spirito (Gv 3,5), generati dall’amore di un Dio crocifisso. […] Come dal fianco di Adamo addormentato viene Eva, così dal fianco del Signore addormentato esce la sposa. L’umanità nuova, che risponde all’amore con l’amore, nasce dalla ferita d’amore di un Dio trafitto. L’uomo esiste come uomo e sa amare solo quando si sa amato così: allora diventa l’altra parte di Dio, suo interlocutore. [41]

CONCLUSIONE

Il luogo, dove rahªmim, terra e linguaggio si intersecano, è dunque, il costato trafitto del Signore.

È lì che finalmente la Parola trova la risposta, il linguaggio diventa dialogo, chiamata-risposta, dono-accogliemento. Lì l’uomo è reso capace di porsi come interlocutore al suo Dio, finalmente a lui data la possibilità, nello Spirito, di costituirsi parola che ascolta e risponde.

È sempre lì che la terra è irrigata ed è costituita nuova. Si realizza il desiderio dell’orante: «o Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco, di te ha sete l'anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz'acqua» (Sal 62,2).

L’uomo è reso fecondo perché guarito dalla sterilità del peccato che lo condannava ad essere «terra deserta, […] landa di ululati solitari» (Dt 32,10) e fatto capace di amore, di vita. E di vita di comunione.

Tutto questo solo per misericordia, per rahªmim: le viscere di Dio si sono svelate definitivamente nel parto della Pasqua.

I simboli femminili della partoriente che grida, del vagito del bambino, della carne lacerata per lasciar uscire la vita, dicono che il linguaggi delle viscere materne, della rahªmim è quello parlato nelle profondità della Trinità. Cristo crocifisso «ha svelato la verità intorno a Dio “Padre delle misericordie”». [42]


[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum, 18.11.1965, 2.
[2] Cfr. B. Corsani, voce «Parola» in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, a cura di P. Rossano, G. Ravasi, A. Girlanda, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1988, 1097-1114, 1098.
[3] Ibidem.
[4] Cfr. C. Scilironi, «Il linguaggio nel pensiero contemporaneo», in “Ad Gentes”, n. 2 (2000), 197-214.
[5] O. Ruiz-Arenas, Teologia della Rivelazione. Gesù epifania dell’amore del Padre, Casale Monferrato (AL), Piemme, 1989, 42.
[6] Cfr. V. Lopasso, «La Parola nella Bibbia», in “Vivarium” n. 2 (2007), 145-155; D. Dozzi, «La Bibbia ha un autore e degli autori. Parola di Dio in parola umana», in “Parola, spirito e vita” n. 2 (2008), 67-84; S. Carotta, «Una ‘Parola viva ed efficace’ (cf. Eb 4, 12). Per una teologia della Parola», in “Forma Sororum” nn. 3-4 (2002), 175-189; P. G. Paolini, «Spirito e parola: alcune riflessioni sull’ispirazione», in “Vivens Homo” n. 2 (2001), 329-358.
[7] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 12.1965, 24.
[8] Nel merito, è interessante esaminare, nella produzione di C. S. Lewis, così come in J. R. R. Tolkien, l’idea di sub-creazione. La parola umana partecipa in qualche misura al potere creatore di quella divina. Stupefacente, ad esempio, la bellezza dell’immagine ne Il nipote del mago del Leone che cantando crea le cose, un modo originale in un mondo differente dal nostro, di raccontare il dabar. In C. S. Lewis, Le cronache di Narnia, Milano, Mondadori, 2000, 90-96.
[9] Cfr. «Dio nell’Antico Testamento. Il Dio dei profeti», a cura della Redazione, in “La Civiltà Cattolica” n. 3514 (1996), 317-329.
[10] B. Corsani, voce «Parola», 1104.
[11] Corsani, «Parola», 1098.
[12] Cfr. P. Stefani, «L’ebraismo: Torà, popolo, terra», in “CredereOggi”, n. 3 (2003), 7-20; G. Guglielmi, «“Creatio in sinu Trinitatis”. Schizzo di ontologia trinitaria della creazione», in “Ricerche Teologiche”, n. 2 (2009), 359-382.
[13] H. Ritt, voce « λόγoϛ », in Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, a cura di H. Balz e G. Shneider, edizione italiana a cura di O. Soffritti, Brescia, Paideia Editrice, 2004, 202-210, 209; Cfr. R. Repole, «“E il Verbo si fece carne” (Gv 1. 14). Lettura teologica in margine al Prologo giovanneo», in “Filosofia e Teologia”, n. 3 (2006), 485-494.
[14] Corsani, «Parola», 1111.
[15] Bibbia di Gerusalemme, Bologna, EDB, 2009, nota 1,1, 2515; cfr. W. Kasper, Il Dio di Gesù Cristo, Brescia, Queriniana, 251-256, (Biblioteca di Teologia Contemporanea 45); R. Penna, «‘Il Logos carne divenne': la radicale novità del Nuovo Testamento», in “Path”, VII 1(2008), 53-67.
[16] Concilio Ecumenico Vaticano II, Dei verbum, 4.
[17] S. Gimenez – E. Rico, «El don de una tierra que nunca se vio. Un Dios de misericordia en Nm 13-14?» in “Gregorianum”, n. 2 (2007), 245-272.
[18] Cfr. M. Sodi, «Nella logiké latréia il Dabar-Logos si fa carne. La perenne novità nel tempo della Chiesa», in “Path”, VII 1(2008), 179-188.
[19] Cfr. W. Dabrowski, «Dio Padre misericordioso alla luce dei commenti di san Tommaso d'Aquino alle lettere di san Paolo apostolo», in “Angelicum” n. 3 (2011), 439-477.
[20] Cfr. La divina misericordia. Atti del 1° Congresso apostolico mondiale della divina misericordia, Città del Vaticano, LEV, 2010, 260 p; W. Kasper, Misericordia¸ Brescia, Queriniana, 2013, p. 336.
[21] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica sulla divina misericordia, Dives in misericordia, 30.11.1980, 2.
[22] Ivi, 4.
[23] Ibidem.
[24] A. Sisti, voce «Misericordia» in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, 978-974, 978.
[25] M. Holland Korntal, voce «Misericordia» in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Casale Monferrato (AL), Piemme, 2005, 665-666, 666.
[26] A. Sisti, voce «Misericordia», 978; cfr. F. Staudinger, voce «ἒλεoϛ», in Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, 1143-1149.
[27] A. Sisti, voce «Misericordia», 978.
[28] Cfr. A. Nepi, «Sal 112. L'uomo dalle viscere di misericordia, immagine e somiglianza di Dio», in “Firmana”, nn. 1-2 (1999), 49-67.
[29] Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, nota 52.
[30] Ivi, nota 61.
[31] Drammatico l’incipit del capitolo 15 di Luca nel quale troviamo le parabole della misericordia: la pecora perduta, la dramma perduta e il figlio perduto. Luca mette in evidenza differenti categorie di ascoltatori delle parole di Gesù: «si avvicinarono a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano» (Lc 15,1-2). Mentre i poveri sono aperti all’ascolto, gli altri, i farisei e gli scribi, già pieni della loro presunta sapienza e giustizia, restano chiusi nel loro circolo di mormoratori, senza aprirsi alla novità della misericordia portata da Gesù. Cfr. F. Mosetto, «Teologia lucana. Misericordia», in “Parole di vita”, n. 5 (2010), 37-42; G. Benzi, «La pecora, la moneta e il figlio perduto e ritrovato. Le parabole di Lc 15», in “Parole di vita”. n. 5 (2010), 9-15.
[32] Ivi, 7. «“Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore” scriverà san Paolo, riassumendo in poche parole tutta la profondità del mistero della croce ed insieme la dimensione divina della realtà della redenzione. Proprio questa redenzione è l'ultima e definitiva rivelazione della santità di Dio, che è la pienezza assoluta della perfezione: pienezza della giustizia e dell’amore, poiché la giustizia si fonda sull’amore, da esso promana e ad esso tende. Nella passione e morte di Cristo? nel fatto che il Padre non risparmiò il suo Figlio, ma “lo trattò da peccato in nostro favore”? si esprime la giustizia assoluta, perché Cristo subisce la passione e la croce a causa dei peccati dell’umanità. Ciò è addirittura una “sovrabbondanza” della giustizia, perché i peccati dell’uomo vengono “compensati” dal sacrificio dell’Uomo-Dio. Tuttavia, tale giustizia, che è propriamente giustizia “su misura” di Dio, nasce tutta dall’amore: dall’amore del Padre e del Figlio, e fruttifica tutta nell’amore. Proprio per questo la giustizia divina rivelata nella croce di Cristo è “su misura” di Dio, perché nasce dall’amore e nell’amore si compie, generando frutti di salvezza. La dimensione divina della redenzione non si attua soltanto nel far giustizia del peccato, ma nel restituire all'amore quella forza creativa nell’uomo, grazie alla quale egli ha nuovamente accesso alla pienezza di vita e di santità che proviene da Dio. In tal modo, la redenzione porta in sé la rivelazione della misericordia nella sua pienezza. Ibidem.
[33] Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima 2007, 21.11.2006, Città del Vaticano, LEV, 2007, 5.
[34] Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 8.
[35] Ibidem. Anche R. Tremblay, L’«innalzamento» del Figlio fulcro della Vita morale, Roma, PUL, 2001, 62-76., (Sapientia christiana 6).
[36] «Avendo Dio insito nelle sue proprie viscere il Verbo di Sè stesso, lo generò con la sua Sapienza». Teofilo d’Antiochia, Secondo libro ad Autolico, XIII, in http://www.larici.it/culturadellest/icone/apologeti/teofilo/IIautolico.pdf
[37] S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Matteo, II; Bologna, EDB, 1999, 580. Il velo del tempio a cui si fa riferimento è il tendaggio che chiudeva e il Santo e il Santo dei Santi nel tempio di Erode a Gerusalemme. Il Santo dei Santi era il luogo inaccessibile a tutti tranne che al Sommo Sacerdote il quale poteva entrarvi una volta l’anno, il giorno della grande espiazione (yom kippur) per pronunciare l’impronunciabile Nome ed aspergere l’altare con il sangue del sacrificio. Era il luogo nel quale dimorava la Santità stessa di Dio.
[38] Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, 22.
[39] «È l’ora della gloria, prefigurata nel principio dei segni: è donata l’alleanza nuova, il vino bello, l’amore perfetto dello Sposo. Sono le nozze tra Dio e uomo: nella carne di Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, uomo e Dio vivono dello stesso amore, aperto a tutti». S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Giovanni, II, Bologna, EDB, 2004, 192.
[40] Cfr. G. Crocetti, «La Passione di Gesù secondo Giovanni. 1. Uno sguardo d'insieme a Gv 18-19», in “La nuova alleanza”, n. 1 (2009), 13-22; Id., «La Passione di Gesù secondo Giovanni. 11. 'Subito ne uscì sangue e acqua’», in “La nuova alleanza”, n. 5 (2010), 26-35; Id., «La Passione di Gesù secondo Giovanni 9. Le ultime parole e la morte di Gesù», in “La nuova alleanza”, n. 3 (2010), 26-35; A. Ruberti, «Una passione appassionata. Appunti sulla storia, l’interpretazione e la rappresentazione della croce», in “Rassegna di Teologia”, n. 3 (2011), 447-471.
[41] S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Giovanni, 197.
[42] Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 2.


Roberta Vinerba, PhD in Sacra Teologia, docente incaricato di Teologia Morale presso l’Istituto Teologico di Assisi. Collabora con diverse riviste di Teologia, fra le quali Rivista di Teologia Morale, per la quale è Consulente di Direzione. Fra le sue pubblicazioni, ricordiamo: La testimonianza morale del cristiano in campo politico. L’esempio di Giorgio La Pira, Perugia, 2003; Se questo è amore. ABC dell’affettività e della sessualità, Paoline, Milano 2006; Fare i padri essere figli, Paoline, Milano 2008; La vita non è un parcheggio. Giovani in cerca di futuro, Paoline, Milano 2010; Alla luce dei tuoi occhi. Guarire l’amore attraverso lo sguardo, Cittadella Editrice, Assisi 2013; Cristiani perseguitati. Cristianofobia a cavallo tra secondo e terzo millennio, (a.c.), Cittadella editrice, Assisi 2013.



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