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Rahamim. Lingua, terra, misericordia
A cura di Francesca Brencio




Etty Hillesum, un’anima millenaria
di Marta Bartoni

Settembre 2013


«… E ogni giorno dirò addio»

E. Hillesum, Diario, 6.07.1942

Solo da poco tempo è stata pubblicata in Italia l’edizione integrale del Diario di Etty Hillesum (Middelburg 1914 — Auschwitz 1943). Un’occasione preziosa che ha incoraggiato e sostenuto lo spirito e le intenzioni del suddetto contributo: Etty Hillesum, un’“anima millenaria”.
Una figura — quella di Etty — fino a non molto tempo fa sconosciuta al grande pubblico, ma che oggi rivive grazie alla pregnanza di pagine in cui la lucidità di pensiero, l’ispirazione poetica e, non ultima, la meditazione religiosa si uniscono fino a creare una tessitura altamente significativa e di rara bellezza.
Avrebbe voluto diventare una scrittrice, Etty! Di certo, le pagine che ci ha lasciato vanno ben oltre il valore limitatamente biografico di un “diario” e sono titolate a far parte di un’opera, nel significato più profondo che questo termine può assumere.
Un’opera che è anche un “viaggio”: questa giovane donna ci invita ad accompagnarla lungo un faticoso cammino di crescita esistenziale e spirituale alla fine del quale ella “incontra” se stessa — «Questo è il traguardo più alto e importante che posso raggiungere: “riposare in me stessa”» [1] — il mondo e gli altri — «Ho un cuore molto appassionato, ma mai per una persona sola: per tutte le persone». [2]
E, nell’essenzialità della propria anima, scopre la “presenza” intima e quotidiana di Dio: «Ho ritrovato il contatto con me stessa, con la parte migliore e più profonda del mio essere, quella che io chiamo Dio». [3]
Un “viaggio” non verso luoghi remoti e sconosciuti. Ma un “ritorno a casa”.
Dopo tanto “peregrinare” — il processo di maturazione psicologico, esistenziale e religioso della Hillesum è tutt’altro che indolore e immediato — l’anima “ri-nasce”, perché ha ritrovato le proprie radici — ovvero il contatto con le proprie “origini” e la parte più profonda di sé — e il terreno — sul quale far germogliare il proprio destino.
È questo il senso della seguente considerazione: «È proprio così. Io sto cercando un tetto che mi ripari ma dovrò costruirmi una casa, pietra su pietra. E così ognuno cerca una casa, un rifugio per sé». [4]
Un’appassionata “ri-costruzione” delle proprie origini è funzionale al progetto di una “rinascita” autentica. E “rinascere” nel lessico esistenziale della Hillesum significa “ri-tornare” alla vita — «La sorgente di ogni cosa ha da essere la vita stessa». [5]
Nella convinzione che la Vita sia un Tutto dotato di bellezza e significatività e che questa “professione di fede” valga anche in un campo di concentramento — le “storture” prodotte dagli uomini non contaminano ma, al contrario, amplificano la magnificenza del creato — ella impara a “benedire” la vita. E a “sentirsi a casa” in essa. “Sempre e dovunque”.
Ecco perché anche nelle privazioni di Westerbork può arrivare a dire: «Io non ho nostalgia, io mi sento a casa. […] Si è “a casa”. Si è a casa sotto il cielo. Si è a casa dovunque su questa terra, se si porta tutto in noi stessi. […] Dobbiamo essere la nostra propria patria». [6]
Il termine “Rahamim” trova quindi nella sensibilità della Hillesum — lei che, pur non approdando a una formulazione di fede definitiva, non rinnegherà mai la propria appartenenza alla cultura ebraica — un forte radicamento. Il “sentirsi a casa” nella terra degli uomini e “in compagnia” di Dio, di cui la stessa non esita a lodarne la misericordia è il senso, mi pare, della declinazione dell’esperienza del “Rahamim” nell’opera, nella vita e nella prematura morte di Etty Hillesum.

Conoscevo da tempo la “storia” di Etty Hillesum. Appena laureata, mi ero imbattuta casualmente — quasi fosse un “incidente di percorso” rispetto ai miei consueti studi di filosofia — nelle pagine tratte dal suo Diario. Ma era il 2003, l’opera non era stata ancora pubblicata in edizione integrale nel nostro paese e il mio confronto con essa fu senz’altro “frettoloso”.
Dieci anni sono passati. Finalmente il Diario è stato consegnato al grande pubblico in versione completa — più di 900 pagine — ed io ho avuto modo di soffermarmi con maggiore accuratezza e con un coinvolgimento intellettuale ed emotivo diverso sulla breve, quanto straordinaria, “parabola” di una giovane donna che ha fatto “dono di sé” agli altri, alla Storia e, infine, a Dio. Fino all’estremo sacrificio di sé.
Attraverso le pagine scritte tra il marzo 1941 e l’ottobre 1942 [7] — a cui bisogna aggiungere il corpo di lettere inviate dal campo di Westerbork tra l’agosto 1942 e il 7 settembre 1943 [8] — possiamo seguire la sorprendente evoluzione spirituale di questa “singolare” figura che, superate le tensioni del proprio “caos interiore” — Etty parla di una vera e propria “costipazione spirituale” [9] —, riesce a «penetrare […] sino al fondo delle cose» [10] e a crescere in consapevolezza. Riesce cioè a “ri-scoprire” se stessa e gli altri e, in se stessa e negli altri, a vivere della presenza di Dio.

Etty Hillesum siede alla sua “vecchia cara” scrivania: di fronte i suoi libri e il suo gelsomino in fiore e dentro una confusione emotiva disarmante:
Qualcosa resta imprigionato nel profondo di me stessa. […] Nell’intimo, mi sento prigioniera di un gomitolo aggrovigliato, e malgrado tutta la mia lucidità di pensiero a volte non sono altro che una poveretta piena di paura. [11]
E ancora: «Sei debole, sei una nullità, quando rimani lì a sguazzare godendo di tutte quelle onde interiori». [12] È questo il ritratto di sé, impietoso quanto sincero, che Etty ci consegna nelle prime pagine del diario. Priva di una “dimora” interiore che possa contenere e “dare forma” ai propri vissuti emotivi, ella manca di un “centro” intorno al quale disporre le pieghe della propria sensibilità tormentata, di un “punto fisso” in grado di disciplinare il proprio mondo interiore, di una parola — “semplice” e “coerente” — capace di dire l’essenziale.
Etty ci appare inizialmente contratta in se stessa, senza tuttavia riuscire a dare un contenuto e una definizione al proprio “io” e, a ragione di ciò, incapace di costruire una relazione che possa dirsi sana con il mondo esterno. I genitori — con i quali il rapporto è assai problematico e sterile — non le offrono certezze. Anzi, le ricordano — con la loro sola presenza — tutto ciò che lei stessa non vorrebbe essere nella vita. [13] Teme di rimanere schiacciata dalle contraddizioni, l’unica pesante eredità che la sua “pittoresca famiglia” [14] è disposta a trasmettere. Al punto da arrivare a confessare a se stessa: «Ma certo, diventerò pazza anch’io, come tutta la mia famiglia». [15]
Sente di “non essere a casa”, di “non avere una casa”. Capisce di condurre una vita nella quale “non si sente a proprio agio”. Per sopperire a questa “mancanza d’essere”, per riempire questo vuoto interiore, ella arriva a sviluppare una personalità morbosa. Vorrebbe “possedere” gli altri: il suo atteggiamento con l’universo maschile è talmente disinibito, che alla lunga non potrà esimersi dal rimproverarsi “questo maledetto erotismo”. [16]
Anche la sua quotidianità fatta di letture e di studio rischia di declinare verso un esito “patologico”: «Anche il mio studio è altrettanto strano. Trascrivo brani dai libri, quasi in maniera istintiva: spesso mi soffermo su una sola frase, una parola che mi pare di dover conservare per il futuro». [17] Neanche lo studio risulta essere liberatorio: ella s’accorge come la foga intellettualistica di voler tutto comprendere, nasconda un ben più profondo desiderio di voler tutto asservire: «In fondo è quel che stai cercando di fare tutto il tempo, […] cerchi di rinchiudere la vita in poche formule ma non è possibile, la vita è infinitamente ricca di sfumature, non può essere imprigionata né semplificata». [18] E “semplificare” significa, ancora e nuovamente, “possedere”: «Comprendere non è, in fondo, possedere nella mente?». [19] Sì, il voler “comprendere” ogni cosa non ha altra valenza se non il soddisfare la propria elementare brama di assoluto. [20]
Vorrebbe fare dello scrivere la propria vocazione, ma scrivere non è se non un «altro modo di “possedere”, di attirare le cose a sé con parole e immagini». [21] Fino a voler godere della natura e delle cose — un godimento tutto sensuale e addirittura “bulimico”:
Una volta, se mi piaceva un fiore, avrei voluto premermelo sul cuore, o addirittura mangiarmelo. La cosa era più difficile quando si trattava di un paesaggio intero, ma il sentimento era identico. Ero troppo sensuale: vorrei quasi dire troppo “possessiva”; provavo un desiderio troppo fisico per le cose che mi piacevano, le volevo avere. [22]
Arriva a confidare a se stessa: «Volevo quindi assoggettare la natura, vale a dire il tutto; volevo contenerlo». [23]
Nella disperata impresa di scongiurare la propria carenza esistenziale, Etty finisce con il volersi “saziare” di tutto, in modo da “assimilare” tutto e poter esercitare sul mondo esterno e sugli altri il proprio “ego”. Ma, allo stesso tempo, precludendosi la possibilità di costruire relazioni significative.
Etty sa che non può continuare a vivere così. La sua anima — priva di un orizzonte di senso entro il quale collocarsi — rischia di «vaga[re] come attraverso un infinito nulla».
Progressivamente comprende che si tratta di disegnare dei “confini” entro i quali disporre se stessa.
Iniziato come processo di “individuazione”— uso volutamente un lessico junghiano dal momento che Etty deciderà di intraprendere un percorso psicoanalitico con Julius Spier, allievo di Jung e specializzato nella psicochirologia — la propria evoluzione esistenziale e spirituale assumerà i tratti di una decisa “trasformazione” di sé. “Trasformazione” di sé che è anche apertura — nei termini di una vera e propria “con-versione” — al mondo, agli altri e all’Altro.
Aiutata dal sostegno di Spier — con il quale verrà intessendo una relazione terapeutica, intellettuale e affettiva tutt’altro che lineare ma destinata ad incidere profondamente — Etty intraprende un cammino di “ri-scoperta” del proprio Sé attraverso un’opera di “ripulitura” della propria anima. L’espressione “igiene spirituale” ritorna frequentemente nel lessico della Hillesum.
Ciò significa concedersi una “nuova nascita”. Priva di un mondo familiare che l’accolga e che funga da “punto fermo” del proprio esistere — priva di un’“origine” — ella sceglie di “essere-l’inizio-di-sé”. [24]
Eppure, Etty sa bene che per “ri-nascere” deve “morire a se stessa”. “Morire a se stessa” — «Il mio cuore oggi è morto diverse volte, e di nuovo si è risvegliato» [25] — ovvero prendere congedo dall’universo familiare [26], dalle relazioni “sbagliate” perché, come abbiamo visto, basate su un coinvolgimento fisico e emotivo esasperato [27], dalle troppe cose e parole [28] che affollano il nostro quotidiano. “Morire a se stessa” significa cessare di voler possedere tutto — «e ora che non voglio più possedere nulla e che sono libera, ora possiedo tutto e la mia ricchezza interiore è immensa» [29] — e di voler comprendere tutto — «Trovo sempre che in ogni filosofia che si vuol difendere si insinua l’inganno». [30] Questo perché non si può “costringere” la vita in un sistema:
La vita non può essere costretta in un sistema. E neanche una persona. O la letteratura. […] La tendenza dell’uomo a sistematizzare, per poter comporre le molte contraddizioni in una struttura unitaria, è anch’essa reale, è un impulso autentico. […] Ma è anche necessario lasciare che le cose vadano avanti da sé. [31]
Questa la conclusione: «Se vivi solo attraverso il tuo intelletto la tua sarà una ben misera esistenza». [32]
Questo processo di affrancamento dal superfluo — «mille catene sono state spezzate» [33] — deve poter coinvolgere in maniera altrettanto decisa il proprio “io”.
Crescere significa “distanziar-si” e, nella distanza (da se stessi, dagli altri e dal mondo), erigere relazioni finalmente autentiche. Crescere significa “dimenticarsi” o, in altre parole, non fare del proprio “piccolo io” un assoluto: «Chiunque intraprenda un lavoro importante, deve dimenticare se stesso». [34] Ecco una tappa importante del processo evolutivo: «Ciò che conta è abbandonare il tuo piccolo ego». [35] Se il “piccolo ego” rischia di diventare un crogiuolo di emozioni incontrollate e desideri infantili di possesso, allora si deve procedere al superamento di questa soglia.
Superata — non senza “strappi” dolorosi — la “logica del possesso”, Etty giunge a sviluppare una più feconda capacità di accogliere dentro di sé la vita “così com’è”. Non si tratta più di “forzare” la realtà, ma di assottigliare — fino a farlo scomparire — il “piccolo io” in modo da lasciarsi attraversare dalla vita. Diventare “semplici” [36], diventare “trasparenti”. Fino a “scomparire”: «Vorrei sparire, dissolvermi, dimenticare e smarrire me stessa; non fuggire da me stessa, ma fondermi molto naturalmente e armoniosamente con terra e cielo». [37]
Fino a diventare quel “nulla” capace di accogliere il Tutto.
In questo graduale processo verso la “passività” [38] esistenziale e spirituale Etty incontra la vita. E si dice pronta a lasciarsi “percorrere” dalla vita. Senza opporre alcuna resistenza. Etty impara a non trattenere più le cose: «Ho goduto altrettanto intensamente di quel paesaggio tacito e misterioso nel crepuscolo, ma in modo, per così dire, “oggettivo”. Non volevo più “possederlo”». [39] A non “imprigionare” le parole, ma a lasciare che fioriscano dal “grande silenzio”: «Vorrei scrivere parole che siano organicamente inserite in un gran silenzio, e non parole che esistono solo per coprirlo e disperderlo: dovrebbero accentuarlo, piuttosto». [40]
Impara addirittura ad acconsentire all’alternarsi naturale del giorno e della notte, lei che più d’una volta si era sorpresa a voler “trattenere” il giorno per paura che questo si sbriciolasse tra le sue mani: «Devo di nuovo lasciar andare la presa sul mio giorno». [41] Accettare che il giorno scivoli nella notte, come più tardi accetterà che la propria vita scivoli nella morte: «Scivolare e fluire attraverso la giornata, attraverso il mondo intero, attraverso la vita». [42] Al punto tale che nel campo di Westerbork — lontano dalla sua amata scrivania, dal suo “centro”, e a contatto diretto con il dolore umano — ella si ritroverà a scrivere: «Il distacco si compie definitivamente, […] lascio che tutto scivoli, giorno dopo giorno». [43]
Non si può non notare come il percorso compiuto su se stessa dalla Hillesum — avviato dalla stessa per far fronte alle proprie problematiche psicologiche e esistenziali — si arricchisca progressivamente di contenuti decisamente spirituali e religiosi.
Questa giovane donna — nata e cresciuta in una famiglia di ebrei non praticanti e non intenzionati a definire il proprio rapporto con Dio e con la tradizione di appartenenza — inizia ad esplorare se stessa. E durante questo cammino di “ri-costruzione” di sé e delle proprie origini, incontra il mondo. E, in maniera alquanto imprevista, incontra Dio.
Si potrà dire che l’incontro con Spier sia stato decisivo. E di sicuro lo è stato se, al momento della morte di questi, Etty arriva a considerarlo responsabile dell’edificazione della sua anima religiosa: «Sei tu che hai liberato le mie forze, tu che mi hai insegnato a pronunciare con naturalezza il nome di Dio. Sei stato l’intermediario tra Dio e me, e ora che te ne sei andato la mia strada porta direttamente a Dio e sento che è un bene». [44] Si potrà dire che le letture quotidiane abbiano accompagnato questo avvicinamento al sacro: Etty legge con uguale trasporto e dedizione Rilke e Dostoevskij, Sant’Agostino e Meister Eckhart, ma anche la Bibbia — dal Vecchio al Nuovo Testamento, dai Salmi fino al Vangelo di Matteo, al quale fa più volte riferimento, in particolare al brano dedicato alla saggezza dell’“obbedienza” e della “semplicità” degli “uccelli del cielo e i gigli del campo”. [45]
Fatto sta che arretrando sempre più da se stessa — dal proprio “piccolo ego” — Etty costruisce quello “spazio” in cui “ospitare” gli altri e, soprattutto, Dio. Tutto lo sforzo di Etty è nel “mollare gli ormeggi”. Diventare “passiva” e “paziente”. Diventare silenzio per “ascoltare” la voce di Dio attraverso il mondo. Diventare un “nulla” — ben diverso da quello precedentemente sperimentato — per essere “abitata” da Dio.
L’incontro con il sacro determina anche un cambiamento nello stile della scrittura di Etty: la parola sembra dilatarsi e “respirare” autonomamente. Fino a sciogliersi diventando poesia. E, infine, diventando preghiera. Anzi, nella preghiera Etty trova una continuità da offrire alla propria vita, «un punto nel profondo dove [essere] sempre uguale». [46]
Prima l’esistenza di Etty era un incedere esitante e malfermo, fatto di continue interruzioni frutto delle innumerevoli tensioni interiori: «Mancava la continuità, e questo e[ra] il più grave pericolo che incombe[va] sulla mia vita interiore». [47] Ora, invece, si osserva “camminare” dentro la sua anima e in Dio. Pregare significa “respirare” continuità (o, se si vuole, eternità). La vita stessa deve farsi preghiera incessante e permanente. Così scriverà nel campo di Westerbork in mezzo alle privazioni e alle sofferenze: «La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio». [48]
C’è un “momento” in cui Etty si trova a fare esperienza di Dio. Nella quotidianità irrompe l’“inatteso” [49]: «Mi sono trovata improvvisamente in ginocchio nel mezzo di questa grande stanza, tra le sedie di acciaio sulla stuoia chiara. Un gesto spontaneo: spinta a terra da qualcosa che era più forte di me». [50] E subito dopo: «Queste parole mi accompagnano già da settimane: si deve avere il coraggio di dirlo. Avere il coraggio di pronunciare il nome di Dio». [51] Etty capisce che non ci si può “esercitare” ad inginocchiarsi, come lei più volte aveva tentato di fare: questo gesto — «così intimo come i gesti dell’amore» [52] — nasce come moto spontaneo dello spirito e, contemporaneamente, suscitato da “qualcosa di più forte”. Con questo gesto — quello dell’inginocchiarsi per rendere grazie a Dio — Etty non vuole esibire davanti a sé e agli altri la propria fede. Anzi, in un primo momento quasi prova imbarazzo nel sentire dentro di sé una profondità che difficilmente può essere comunicata e tradotta in parole.
Tenterà anche di dissimulare [53] — o comunque non parlerà mai volentieri del processo di “trasformazione” spirituale da lei subito [54] — per poi arrivare ad inginocchiarsi silenziosamente dentro di sé: «È così strano: non mi ero inginocchiata per mesi, perché in realtà continuavo a pregare interiormente». [55] E ancora: «A volte, la tentazione di inginocchiarmi attraversa il mio corpo come un’onda, un bisogno che è quasi irresistibile». [56]
Nella preghiera si verifica un doppio movimento: l’anima nega se stessa — dopo aver fatto esperienza suprema del “distacco” o, per usare un termine più specifico, della Gelassenheit [57] — per poi ritornare a sé e, nello “spazio” ri-disegnato, accogliere la “presenza” di Dio. Contrazione e dilatazione: l’anima riduce se stessa — arrivando fino a scomparire — per poi “espandersi ” in comunione perfetta con il Tutto e il divino. E, poi ancora, concentrazione e decentramento: «Sentire in sé il centro, senza però sentirsi troppo il centro». [58]
Attraverso la metafora del mare e il moto incessante e musicale delle onde — che, come le pieghe della sua anima, si allargano per poi dissolversi, queste «onde danzanti e leggere dalle creste bianche» [59] — la Hillesum riesce a trasmettere il senso della vita come profondità vibrante: «Sai come mi sento in questi ultimi giorni? Come un mare, un mare immenso, profondo, senza nome. […] Un mare così non conosce parole scritte, è soltanto profondo e immenso, e questo basta». [60] Il senso della vita come “corrente ininterrotta” che “va da sé” e la cui traiettoria non può essere cambiata o deviata, ma solo assecondata. Ecco, perché «bisogna acquisire senso del ritmo». [61]

Ma, non dimentichiamolo, Etty Hillesum è ebrea. Come può scrivere di continuo che la vita è “bella e ricca di significato”? Come può usare parole così riconoscenti quando un pezzo di storia sta per abbattersi sul suo popolo ebraico? Quando mezza Europa rischia di essere trasformata in un unico, grande, campo di concentramento?
«Molti mi dicono: come puoi pensare ancora ai fiori, di questi tempi». [62] In realtà, Etty non ha mai chiuso gli occhi di fronte al dolore di quel popolo al quale appartiene. Non lo ha mai fatto. Neanche nella sua stanza di Amsterdam, da lei vissuta non come una sorta di “pensatoio” costruito “sulle nuvole”, ma più propriamente come una “piccola officina” [63] in cui rielaborare i drammi dell’umanità. O, se si vuole, come una “piccola cella” [64] — preziosa riserva di silenzio dalla quale attingere quella forza interiore necessaria per far fronte alle devastazioni della storia. Né dobbiamo vedere una cesura tra il periodo trascorso seduta alla scrivania e quello successivo in un campo di prigionia. [65] Sorprende l’acutezza con cui sa guardare i singoli fatti per poi riannodarli in una totalità che, proprio in forza delle contraddizioni, sia dotata di senso. Non fugge la realtà. Sa che la vita è “bellezza” e “dolore”, “incanto” e “miseria” e che “c’è posto per tutto”:
Io sono quotidianamente in Polonia, su quelli che si possono ben chiamare dei campi di battaglia, talvolta mi opprime una visione di questi campi diventati verdi di veleno; sono accanto agli affamati, ai maltrattati e ai moribondi, ogni giorno — ma sono anche vicina al gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la mia finestra, in una vita c’è posto per tutto. Per una fede in Dio e per una misera fine. [66]
Sa che vivere significa accettare il confronto con la morte — lei che dice di aver «vissuto questa vita mille volte, e altrettante volte sono morta» [67]:
È vero ci portiamo dentro proprio tutto, Dio e il cielo e l’inferno e la terra e la vita e la morte e i secoli, tanti secoli. […] Ho guardato in faccia la nostra misera fine, che è già cominciata nei piccoli fatti quotidiani.[…] La possibilità della morte si è perfettamente integrata nella mia vita. […] Sembra quasi un paradosso: se si esclude la morte non si ha mai una vita completa; e se la si accetta nella propria vita, si amplia e si arricchisce quest’ultima. È la prima volta che mi tocca confrontarmi con la morte. […] E ora la morte è qui, in tutta la sua grandezza — e già è come una vecchia conoscenza che fa parte della vita e che si deve accettare. È tutto così semplice. Non c’è bisogno di fare profonde considerazioni. D’un tratto la morte — grande, semplice, e naturale — è entrata quasi tacitamente a far parte della mia vita. E adesso io so che appartiene alla vita. [68]
E, poco dopo, aggiunge: «Io so, ora, che vita e morte sono significativamente legate fra loro». [69]
La Hillesum non si è mai fatta alcuna illusione sul proprio destino e su quello della sua comunità. Il 3 luglio del 1942 scrive: «Dobbiamo fare spazio a una nuova certezza: vogliono la nostra fine e il nostro annientamento, non possiamo più farci nessuna illusione al riguardo. […] Bene, questa nuova certezza io l’accetto: vogliono il nostro totale annientamento». [70]
Non ha nessun dubbio sul proprio futuro: «La nostra distruzione si avvicina furtivamente da ogni parte, presto il cerchio sarà chiuso». [71]
«È tutto un mondo che va in pezzi» [72]: eppure, non riesce a odiare il proprio nemico — lei che si sente ricca d’amore indistintamente per tutti gli uomini. Né arriva a provare rancore per la vita. Si tratta di “guardare in faccia” il dolore e il male, come parte integranti della vita, e di “sopportare tutto”.
È interessante notare come, mentre il cerchio infernale della violenza nazista si stringe inesorabilmente — «C’è sempre meno spazio: noi ebrei veniamo ammassati in spazi sempre più ristretti» [73] — lo “spazio” interiore della Hillesum si allarga sempre di più.
Etty percepisce con sempre maggiore intensità il proprio “essere ricolma” di Dio: «Dio mio, ti ringrazio perché mi hai creata così come sono. Ti ringrazio perché talvolta posso essere così colma di vastità, quella vastità che poi non è nient’altro che il mio esser ricolma di te». [74]
Nel “guardare dentro se stessa” ha così modo di scrivere: «È sorprendente che una persona possa avere in sé un simile spazio». [75]
Nella “nudità” ritrovata del proprio spirito, trovano posto le atrocità degli uomini e la misericordia di Dio, il dolore patito dagli innocenti e lo splendore della natura. Il campo di concentramento e il gelsomino. Quel gelsomino così fiero e insieme fragile di cui la Hillesum non smarrirà mai il ricordo e la devozione.
Nel luglio del 1942 la Hillesum accetta, pur malvolentieri, la proposta di alcuni amici che la esortavano ad assumere un impiego presso il Consiglio ebraico, organismo amministrativo creato dagli occupanti tedeschi a partire dal febbraio 1941.
Mentre la maggioranza preferiva pensare che il Consiglio ebraico fosse l’unico strumento a disposizione per “salvare” quanti più ebrei possibili o, almeno, renderne la sorte meno scontata, Etty non ha alcun dubbio in merito e si accorge presto che questo altro non è se non un “teatro di burattini”, di cui i nazisti si servono per rendere più efficiente quella “macchina del male” che avrebbe provveduto a “liquidare” verso est la popolazione ebraica.
Eppure, anche in “quell’ambiente che sta a metà tra l’inferno e il manicomio” [76] e in cui si lavora per salvare la propria vita accelerando la morte di altri [77], ella trova conferma di sé.
Mentre gli altri si agitano rumorosamente per far valere le proprie ragioni [78], Etty si ritira nel silenzio.
E nel silenzio — «In me c’è un silenzio sempre più profondo» [79] — sperimenta un “raccoglimento” ormai diventato preghiera.
È così che, piena di amore per gli uomini e per Dio, decide di partire per il campo di smistamento di Westerbork. Lì avrebbe potuto aiutare gli altri, spargere amore sui cuori inariditi dalle sofferenze e dalle umiliazioni. Lì avrebbe potuto, soprattutto, condividere il destino del proprio popolo.
Una scelta “paradossale” — avrebbe potuto salvarsi? — che quelli intorno a lei non comprendono e non condividono. Perché andare volontariamente incontro alla morte?
Né avrebbero potuto capire l’atteggiamento di Etty di fronte al precipitare degli eventi.
Nessuna cessione a sentimenti di odio o di vendetta nella «consapevolezza di non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l’ingiustizia che ci sono al mondo». [80] E, sempre sullo stesso tono, scrive: «Credo che non sarò mai capace di odiare qualcuno, per via di quella che viene chiamata la sua “cattiveria”». [81]
Questo perché il male che viene compiuto — per quanto estreme siano le conseguenze patite — «è sempre da ricondurre a qualcosa di umano. È questa la ragione per cui molti eventi non mi spaventano, perché io continuo a pensare che originino dall’uomo, da ogni individuo, da me stessa, il che rende tutto comprensibile». [82]
La Hillesum mostra di non voler semplificare i termini del problema: non esistono i “buoni” — “noi”, totalmente immuni da colpe e responsabilità — e i “cattivi” — “loro”, senza riscatto e irrimediabilmente perduti. Esiste innanzitutto l’uomo con le sue nobili risorse e le sue deprecabili perdizioni. E l’amore deve profondere verso l’uomo, in quanto tale.
Indistintamente: «Io non odio nessuno, non sono amareggiata. Una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi dentro di noi, diventa infinito.» [83]
Nessuna umiliazione subita: «Per umiliare qualcuno si dev’essere in due: colui che umilia e colui che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria. […] Si deve insegnarlo agli ebrei». [84]
Non farsi abbrutire nelle proprie risorse interiori. Rimanere in ascolto della parte più vera di ciascuno di noi e, nonostante tutto, continuare a celebrare la vita. Capire che «non possono farci niente, non possono veramente farci niente». [85]
Possono inchiodarla in un campo circondato da filo spinato, ma «esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare, e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera». [86]
Possono spezzare il corpo, ma non l’anima: «Forse mi potranno ridurre a pezzi fisicamente, ma di più non potranno fare». [87]
Possono ucciderla, ma veramente non possono disporre della sua morte. A corroborare questo pensiero — l’indisponibilità da parte di altri della propria morte — il caso, menzionato nelle Lettere, di quel giudice romano che aveva detto a un martire: «Sai che io ho il potere di ucciderti?, al che il martire aveva risposto: “Ma sai che io ho il potere di essere ucciso?”». [88]
Né, tantomeno, il contatto diretto col dolore mette in discussione la pienezza di una fede intimamente vissuta. Dio non c’entra con Auschwitz e con tutti i campi di concentramento disseminati nel mondo. Auschwitz è una colpa imputabile solo ed esclusivamente all’uomo: «Dio non è responsabile verso di noi, siamo noi a esserlo verso di lui. […] Non riesco a trovare insensata la vita. E Dio non è nemmeno responsabile verso di noi per le assurdità che noi stessi commettiamo: i responsabili siamo noi!». [89]
E ancora: «Non è colpa di Dio, ma nostra, se le cose sono così come sono, ora». [90]
Dio stesso esce prostrato dal confronto con lo “scandalo” del male. È un Dio — quello interiorizzato e vissuto dalla Hillesum — che non può aiutare gli uomini, ma che va aiutato e custodito nella propria intimità: «E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio. […] Partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile». [91]
Tutto il sentimento religioso del vivere proprio della Hillesum viene riassunto in questa considerazione: Dio, dopo l’esperienza “infernale” dei campi, non può più aiutare l’uomo né soccorrerlo. È l’uomo che deve “salvare” in se stesso, alimentandola costantemente, la presenza del divino.
Siamo lontani da una concezione “consolatoria” della fede. Già precedentemente la stessa aveva sottolineato con forza: «Il non voler essere consolati. L’inchinarsi davanti al destino». [92]
L’atteggiamento della Hillesum non poteva non sortire incomprensioni e disapprovazione. Se, tuttavia, riusciamo a capire lo sforzo compiuto da chi le voleva bene al fine di salvarla da una fine certa e dolorosa, non altrettanto riusciamo a condividere le critiche di chi, venuto dopo, ha sottovalutato o, addirittura, negato il valore (di certo, testimoniale) della sua vita e, soprattutto, della sua morte. Ci ha insegnato, credo, che un’altra “resistenza” è possibile.
Che non è quella delle armi e della vendetta: «Per me, questa resa non si fonda sulla rassegnazione che è morire, ma s’indirizza là dove Dio per avventura mi manda ad aiutare come posso — e non a macerarmi nel mio dolore e nella mia rabbia». [93]
Che non è quella del “salvarsi ad ogni costo”, magari a danno altrui: «Io non so farmi avanti per garantirmi quella che può sembrare la mia salvezza, mi pare una cosa assurda e divento irrequieta e infelice». [94]
Una “resistenza” che non è quella del “fare”, ma che consiste ormai improrogabilmente nell’“essere”: essere in se stessa e per gli altri — nel senso di aiutarli a sopportare con dignità il destino di dolore — e per Dio — che deve essere ugualmente protetto dentro di noi.
Il 10 luglio 1943 in una lettera a una sua cara amica scrive: «La gente non vuole riconoscere che a un certo punto non si può più fare, ma soltanto essere e accettare. […] Io non posso fare nulla, non l’ho mai potuto, posso solo prendere le cose su di me e soffrire». [95]
Essere, ovvero “essere presenti” a se stessi e aiutare gli altri ad accettare il dolore.
Essere, ovvero “essere pazienti”, nel senso di riuscire a sopportare quel che non può essere cambiato.
«Essere: verbo da coniugare nel punto di tangenza del presente e dell’eternità». [96]

Ecco allora che diventa più facile rispondere a quella domanda che da più parti le veniva rivolta: «Molti mi dicono: come puoi pensare ancora ai fiori, di questi tempi».
Immersa nel fango e nella miseria di Westerbok, ella ha provato a se stessa come siano ugualmente “reali” la fame e la poesia [97], le vesciche ai piedi per il faticoso camminare e le rose. [98] E, ancora, il filo spinato e il gelsomino.
Non più fare, ma “essere”. Come i “gigli del campo” che “non faticano e non filano”, ma attendono e accettano l’alternarsi delle stagioni, così come il loro fiorire e, inesorabilmente, appassire.
Come la rosa che muore senza riserve sulla sua scrivania:
La mia rosa tea sta appassendo tra la macchina da scrivere, un fazzoletto e un rocchetto di filo nero. È quasi insostenibilmente bella e tenera. Appassendo gentilmente, e con rassegnazione, si prepara ad abbandonare questa breve, fredda vita. È così tenera e amabile, e ha una tale grazia nella sua lenta morte che potrebbe facilmente spezzarmi il cuore. Ma bisogna lasciar morire in pace anche una rosa tea e non cercare fervidamente e disperatamente di trattenerla. In passato riuscivo a essere inconsolabile e inspiegabilmente triste per un fiore che appassiva. Ma bisogna imparare ad accettare anche l’appassire della natura, senza opporvi resistenza. [99]
Etty ha atteso al proprio “appassire” nel fango del campo di Westerbork. Un’attesa attiva, per così dire, che non va assolutamente scambiata per rassegnazione. La vediamo aggirarsi per le baracche di legno del campo, recare parole di conforto a chi nell’inerzia della disperazione si lascia morire inesorabilmente. Spendersi per gli altri. Insegnare loro a “sopportare” — perché «“sopportare” è un’arte che dev’essere imparata» [100] — senza rinunciare alla propria dignità di uomini.
Insegnare loro che si può pensare anche in un campo — quello di Westerbork — sospeso tra il fango e il nulla. [101] Che si può anche amare. [102]
E che si può perfino pregare:
La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio. A volte, quando me ne sto in un angolino del campo, i miei piedi piantati sulla tua terra, i miei occhi rivolti al cielo, le lacrime mi scorrono sulla faccia, lacrime che sgorgano da una profonda emozione e riconoscenza. […] Io non combatto contro di te, mio Dio, tutta la mia vita è un grande colloquio con te. [103]
Etty, che all’inizio del diario lamentava l’assenza di una “patria”, ora si sente nuovamente a casa: «Si è a casa sotto il cielo. Si è a casa dovunque su questa terra, se si porta tutto in noi stessi». [104]

Nel campo di prigionia torna a “far pace” con se stessa e impara a “riposare” nella propria anima e a riconciliarsi coi propri genitori, ai quali vorrebbe risparmiare l’agonia della deportazione.
“Riposare” nella propria anima: è questo il senso dell’evoluzione esistenziale e spirituale della Hillesum. Un’anima che vive intensamente il presente, eppure sottratta al tempo. Un’anima “millenaria”, se come scrive la stessa proprio nelle ultime pagine del diario, «L’età dell’anima è diversa da quella registrata all’anagrafe. Credo che l’anima abbia una determinata età fin dalla nascita. […] Si può anche nascere con un’anima che ne ha mille». [105]
Etty ha offerto se stessa e la propria giovane età — muore non ancora trentenne nel campo di concentramento di Auschwitz — alla forza corrosiva del tempo e degli eventi.
Ha accettato di “invecchiare” [106] in fretta e farsi trascinare dall’ineluttabile. Un po’ come la rosa che lentamente continua a morire sulla sua scrivania.
Affinché la propria fine sia un nuovo “inizio” [107]: «E ascoltare, dappertutto ascoltare, e ascoltare fino al fondo delle cose. E amare e dire addio e con questo morire, ma poi rinascere: è tutto così doloroso ma anche tanto ricco di vita». [108]


[1] E. Hillesum, Diario, Edizione integrale, trad. it. di C. Passanti, T. Montone e A. Vigliani, Adelphi, Milano 2012, p. 169.
[2] Ivi, p. 212.
[3] Ivi, pp. 141-142.
[4] Ivi, p. 207.
[5] Ivi, p. 117.
[6] Ivi, p. 763.
[7] E. Hillesum, Diario, Edizione integrale, trad. it. di C. Passanti, T. Montone e A. Vigliani, Adelphi, Milano 2012.
[8] Id., Lettere 1942-1943, trad. it. di C. Passanti, Adelphi, Milano 2001.
[9] Id, Diario, op. cit., p. 33.
[10] Ivi, p. 31.
[11] Ibidem.
[12] Ivi, p. 37.
[13] È la stessa Etty a consegnarci un quadro a dir poco “patologico” della propria famiglia. Il rapporto con il padre, Louis Hillesum, rispettabile insegnante e preside del Liceo di Deventer, è incentrato sulla distanza, proprio a ragione del fatto che questi appare totalmente trincerato nel proprio mondo fatto esclusivamente di erudizione: «Mio padre, a un’età avanzata, ha sfumato tutte le sue insicurezze, dubbi, […] complessi d’inferiorità, […] difficoltà irrisolte nel suo matrimonio, […] grazie a una filosofia che giustifica tutto» (Ivi, p. 247). Molto più “difficile” è il confronto con la madre, Riva Bernstein, a proposito della quale la figlia usa toni particolarmente severi: «Mia madre è per me un esempio di tutto ciò che non devo diventare. […] Una vita disorganizzata trascorsa a sospirare e a lamentarsi di quanto si senta stanca, a rovinare l’atmosfera in casa, il che le è riuscito per tutta la sua vita. […] Credo di avere perennemente paura di diventare come mia madre» (Ivi, p. 221). Con il fratello Jaap le cose non vanno meglio: «Per un verso o per l’altro, Jaap mi irrita profondamente. […] Provo una grande compassione per lui, ma anche repulsione. Credo dipenda dal fatto che lui, almeno così mi sembra, un po’ mi disprezza» (Ivi, p. 222). Maggiore tenerezza e complicità delineano il rapporto tra Etty e Mischa, il fratello più piccolo, che già in tenera età aveva cominciato a dare segni di squilibrio psichico: «D’un tratto ho provato una compassione disperata per il piccolo fratello, per il mio fratellino» (Ivi, p. 462).
[14] «Un tempo la mia pittoresca famiglia mi costava, ogni notte, almeno un litro di lacrime disperate» (Ivi, p. 141).
[15] Ivi, p. 30.
[16] Ivi, p. 101.
[17] Ivi, p. 151.
[18] Ivi, p. 213.
[19] Ivi, p. 663.
[20] Un autore come Albert Camus, decisamente lontano dall’universo intellettuale di Etty, illustra molto bene questa dinamica tra sapere e potere destinata inevitabilmente al “dramma”: «Comprendere il mondo, per un uomo, significa ridurre quello all’umano, imprimergli il proprio suggello. […] Parimenti, lo spirito che cerca di capire la realtà, non può ritenersi soddisfatto se non quando la riduce in termini di pensiero. Se l’uomo riconoscesse che anche l’universo può amare e soffrire, si riconcilierebbe con questo. […] Questa nostalgia di unità, questa brama di assoluto spiega lo svolgimento del dramma umano nella sua essenza» (A. Camus, Il mito di Sisifo, trad. it. di A. Borelli, in Opere romanzi, racconti, saggi, Bompiani, Milano 2000, p. 218).
[21] E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 59.
[22] Ivi, p. 58. Scrive a tale proposito S. Weil: «Il grande dolore della vita umana è che guardare e mangiare siano due operazioni differenti. […] Forse i vizi, le depravazioni, i delitti sono sempre, o quasi sempre o addirittura sempre nella loro essenza, tentativi di mangiare la bellezza, di mangiare ciò che bisogna soltanto guardare. Aveva cominciato Eva» (S. Weil, Attesa di Dio, a cura di J.-M. Perrin, Rusconi, Milano 1972, p. 126).
[23] E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 61.
[24] «Nulla vi è che ti muova – tu stesso sei la ruota, che corre da sé e non ha posa» (Angelus Silesius, Il pellegrino cherubico, I, 37).
[25] E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 728.
[26] È interessante notare come, proprio nel momento in cui Etty sceglie di “prendere distanza” dai genitori, riesce in qualche modo a riconciliarsi con loro: «È una questione fondamentale, importante e difficile: nel proprio cuore voler bene ai propri genitori» (Ivi, p. 244). Non dimentichiamo che alla fine, proprio nel campo di Westerbork, Etty avrà per i genitori, anch’essi reclusi, parole di protezione e commovente tenerezza.
[27] Una relazione significativa non può prescindere dalla “giusta distanza”: «Una relazione non è altro che una presa continua di distanza, o forse non è destinata a essere altro, per potersi poi incontrare su un piano più elevato e in modo ancora più intenso» (Ivi, p. 428).
[28] Anche il rapporto con le parole – non dimentichiamolo Etty avrebbe voluto diventare una scrittrice! – cambia sostanzialmente. Se prima confidava: «Non riesco ancora a scrivere» (Ivi, p. 127), poi arriva a sostenere: «A volte credo che potrei scrivere, descrivere, ma poi divento così stanca, e penso: perché tutte quelle parole?» (Ivi, p. 503). Nel progetto di una “rinascita” ella contempla un diverso modo di “vivere” le parole: «Vorrei che ogni singola parola che mi trovo a scrivere fosse una nascita, davvero una nascita, che nessuna parola fosse artificiale; vorrei che ogni parola fosse essenziale, altrimenti proprio non ha nessun senso» (Ibidem).
[29] Ivi, p. 59.
[30] Ivi, p. 249. E sempre sullo stesso tono: «In ogni “-ismo” si nasconde un elemento d’inganno» (Ivi, p. 251).
[31] Ivi, p. 277.
[32] Ivi, p. 217.
[33] Ivi, 59.
[34] Ivi, p. 40.
[35] Ivi, p. 118.
[36] Al tema della “semplicità” la Hillesum dedica molte riflessioni. Ne riportiamo alcune. «Non conosco momenti più felici di quelli in cui mi rendo conto che la vita è davvero semplice» (Ivi, p. 215). E inoltre: «Diventare ed essere estremamente semplice, e anche vivere in semplicità» (Ivi, p. 466). E in maniera assolutamente pregnante: «Vorrei essere molto semplice come la luna di stasera, per esempio, o una distesa verde» (Ivi, p. 154). Si vuol insistere sul tema della “semplicità” perché, come sostiene B. Iacopini nel suo saggio, «L’anelito alla semplicità, dall’aplosis plotiniana in poi, è l’anelito dei mistici, la ricerca dell’Uno al di là del molteplice, in cui tutte le contraddizioni sono superate» (B. Iacopini, S. Moser, Uno sguardo nuovo. Il problema del male in Etty Hillesum e Simone Weil, San Paolo, Milano 2009).
[37] Ivi, p. 130. Colpisce la straordinaria vicinanza con quanto espresso, a tale proposito, da S. Weil, figura alla quale la Hillesum è stata frequentemente accostata: «Se sapessi sparire, ci sarebbe davvero unione perfetta di amore fra Dio e la terra sulla quale io cammino, il mare che odo. […] Ne ho sempre abbastanza per scomparire» (S. Weil, L’ombra e la grazia, trad. it. di F. Fortini, Bompiani, Milano 2011, p. 75).
[38] Fondamentale l’abbandono alla “passività”: «Lasciati andare, renditi completamente passiva» (E. Hillesum, Diario, op cit., p. 114). E ancora: «Devi […] farti passiva e ascoltare, riprender contatto con un frammento d’eternità» (Ivi, p. 156). Si noti quanto segue: «La passività è essenziale al fatto mistico, come esperienza del mistero […]. Nella passività mistica abbiamo la massima celebrazione della libertà» (Aa.V.v., La mistica, a cura di E. Ancilli, Città Nuova, Roma 1984, vol. I, pp. 30-31).
[39] E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 58.
[40] Ivi, p. 579. Sempre nello stesso brano: «Io detesto gli accumuli di parole. In fondo, ce ne vogliono così poche per dir quelle quattro cose che contano veramente nella vita. Se mai scriverò [….] mi piacerebbe dipinger poche parole su uno sfondo muto» (Ibidem).
[41] Ivi, p 621. «Lascia che la notte sia notte e il giorno sia giorno» (Ivi, p. 303).
[42] Ivi, p. 272.
[43] Ivi, p. 767.
[44] Ivi, p. 752.
[45] Matteo, 6, 34. «Vorrei proprio vivere come i gigli del campo. Se sapessimo capire il tempo presente lo impareremmo da lui: a vivere come un giglio del campo» (Ivi, p. 766). Un passaggio del brano di Matteo era particolarmente amato da Etty: «Voglio ricopiare ancora una volta Matteo, 6, 34:“Non siate dunque inquieti per il domani perché il domani avrà le sue inquietudini; a ciascun giorno basta la sua pena”» (Ivi, pp. 777-778).
[46] Ivi, p. 651.
[47] Ivi, p. 141.
[48] E. Hillesum, Lettere, op. cit., p. 122.
[49] È la stessa Etty ad usare questo termine: «Ieri sera d’un tratto mi sono dovuta inginocchiare di nuovo, per via di un inatteso impeto interiore» (Ivi, p. 325).
[50] E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 279. Non possono non ritornare in mente le parole con le quali S. Weil evoca l’incontro con Dio. L’atmosfera è similmente carica di significato: «Mentre ero sola nella piccola cappella romanica del XII secolo di Santa Maria degli Angeli, incomparabile meraviglia di purezza, dove San Francesco ha pregato molto spesso, qualcosa di più forte di me mi ha obbligata, per la prima volta nella mia vita, a inginocchiarmi» (S. Weil, Attesa di Dio, cit., p. 41).
[51] E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 279.
[52] Ibidem.
[53] Non può che suscitare tenerezza quanto racconta Etty a tale proposito: «Nell’alba grigia di oggi, in un moto d’irrequietezza, mi sono trovata improvvisamente per terra, in ginocchio tra il letto disfatto di Han e la sua macchina da scrivere, tutta rannicchiata e con la testa che toccava il pavimento. […] E a Han che entrava in quel momento e sembrava un po’ stupito di quella scena, ho detto che cercavo un bottone – ma non era vero» (Ivi, p. 301).
[54] Così ricorda l’amica Hanneke Starreve Stolte: «Mi ricordo ancora che durante una delle mie ultime conversazioni con Julius (Spier), egli dichiarò, a proposito di Etty: “In lei c’è qualcosa di essenziale che è cambiato”. Nel suo diario Etty dichiara che sentiva il bisogno di stare sola, che aveva la necessità di un contatto profondo con se stessa e con Dio. […] Ma noi (che in quel periodo la frequentavamo) non immaginavamo quello che viveva in quei momenti di silenzioso raccoglimento. Non parlava della propria vita interiore. Solo molto tempo dopo, leggendo il suo diario, ho capito che quella profondità di cui stava facendo esperienza mi era quasi interamente sfuggita» (testimonianza contenuta in E. Hillesum, Pagine mistiche, tradotte e commentate da C. Dobner, Ancora, Milano 2007).
[55] E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 373.
[56] Ivi, p. 486.
[57] «È il distacco che insegna a negare i contenuti in quanto rappresentazioni a se stanti, autonome, e ad affermarli e accoglierli nel loro complesso, distacco nel senso di quella “Gelassenheit”, di cui Etty ha trovato descrizione e conferma prima nei versi di Rilke e poi negli scritti del mistico medioevale Meister Eckhart» (B. Iacopini, S. Moser, Uno sguardo nuovo. Il problema del male in Etty Hillesum e Simone Weil, op. cit., p. 60).
[58] E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 353.
[59] Ivi, p. 665.
[60] Ivi, p. 144.
[61] Ivi, p. 303.
[62] Ivi, 729.
[63] «La mia testa è l’officina dove tutte le cose di questo mondo devono giungere a essere formulate in piena chiarezza. E il mio cuore è la fornace ardente nella quale tutto deve essere sentito e sofferto con intensità» (Ivi, p. 146).
[64] «Le minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più “raccolta”, concentrata e forte. Questo ritirarmi nella chiusa cella della preghiera diventa per me una realtà sempre più grande, e anche un fatto sempre più oggettivo» (Ivi, p. 536).
[65] La Hillesum è molto chiara al riguardo: «La vita in quelle baracche piene di correnti d’aria non contrastava affatto con la vita in questa camera protetta e tranquilla. Non sono mai stata tagliata fuori da una vita per così dire “passata”, per me esisteva solo una grande, significativa continuità» (Ivi, p. 766).
[66] Ivi, p. 673.
[67] Ibidem.
[68] Ivi, pp. 677-679. Dalla scoperta che “si muore”, la Hillesum trae nuova forza, nella consapevolezza che la morte impreziosisce di senso la vita: «Da ieri, di colpo, ho molti anni di più, so che la mia vita ha un termine. Non sono più scoraggiata, mi sento più forte» (Ivi, p. 680).
[69] Ivi, p. 696.
[70] Ivi, p. 675.
[71] Ivi, p. 696.
[72] Ivi, p. 98.
[73] Ivi, p. 686.
[74] Ivi, p. 271.
[75] Ivi, p. 310.
[76] Ivi, p. 727.
[77] Certamente alla Hillesum non sarà risparmiato il conflitto interiore di chi “sta al gioco” pur di condividere il destino della propria comunità: «Naturalmente, non si potrà mai più riparare al fatto che alcuni ebrei collaborino a far deportare tutti gli altri. Più tardi la storia dovrà pronunciarsi su questo punto» (Ivi, p. 744).
[78] «Chiunque si voglia salvare deve pur sapere che se non ci va lui, qualcun altro dovrà andare al suo posto» (Ivi, p. 706). Viene in mente un sorprendente inciso presente nei diari camusiani: «A Buchenwald, un piccolo francese, appena arrivato, chiede di parlare a quattr’occhi con il funzionario, anche lui un prigioniero, che lo accoglie.“Il fatto è, vede, che il mio è un caso eccezionale, io sono innocente» (A. Camus, «Taccuini III [1951-1959]», in Taccuini, 3 voll., trad. it. di E. Capriolo, Bompiani, Milano 2004, p. 51). È chiaro che la categoria dell’“innocenza” viene totalmente sovvertita nel mondo concentrazionario. La Arendt riesce a sottolineare perfettamente questo aspetto: «“Per quale scopo, chiedo, esistono le camere a gas?” – “Per quale scopo sei nato?”. È questo terzo gruppo dei totalmente innocenti che in ogni caso aveva la peggio nei Lager. […] L’obiettivo ultimo, chiaramente indicato nelle fasi finali del terrore nazista, era quello di avere una popolazione dei campi interamente composta da innocenti» (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Ed. Comunità, Torino 1999, p. 615).
[79] E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 734.
[80] Ivi, p. 386.
[81] Ivi, p. 456.
[82] Ibidem.
[83] Ivi, p. 718.
[84] Ivi, p. 637.
[85] Ivi, p. 638.
[86] Ivi, p. 718.
[87] Ivi, p. 711.
[88] E. Hillesum, Lettere, op. cit., p. 40.
[89] E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 667.
[90] Ivi, p. 702.
[91] Ivi, pp. 707-708. Su questo punto il pensiero della Hillesum sembra molto vicino alla riflessione di H. Jonas: «Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile (nel governo del mondo in cui noi unicamente siamo in condizione di comprenderla). Ma se Dio può essere compreso solo in un certo modo e in un certo grado, allora la sua bontà (cui non possiamo rinunciare) non deve escludere l’esistenza del male; e il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e che nonostante ciò nel mondo c’è il male. […] Durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz Dio restò muto. […] Ma Dio tacque. E ora aggiungo: non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo» (H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Il Nuovo Melangolo, Genova 2005).
[92] E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 309. Dello stesso tono la riflessione, in merito, di S. Weil: «Non bisogna mai cercare una consolazione al dolore» (S. Weil, L’ombra e la grazia, cit., p. 45).
[93] E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 698.
[94] Ivi, p. 716.
[95] E. Hillesum, Lettere, op. cit., p. 105.
[96] S. Germain, Etty Hillesum. Una coscienza ispirata, Ed. Lavoro, Roma 2000, p. 74.
[97] Si noti quanto scritto precedentemente: «Di una cosa sono sempre più certa: il verso di una poesia è altrettanto reale di una tessera per il formaggio o dei geloni. Altrettanto concreto» (E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 283).
[98] «Dopo quella lunga camminata nella pioggia e, con quella vescica sotto il piede, sono ancora andata a cercare un carretto che vendesse fiori e così sono arrivata a casa con un gran mazzo di rose. Ed eccole lì, reali quanto tutta la miseria vissuta in un intero giorno» (Ivi, p. 729).
[99] Ivi, p. 624. «La rosa è senza perché; fiorisce poiché fiorisce, dì sé non gliene cale, non chiede d’esser vista» (Angelus Silesius, Il pellegrino cherubino, op. cit., I, 289).
[100] E. Hillesum, Lettere, op. cit., p. 24.
[101] «“Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, vogliamo dimenticare il più possibile”. E questo mi sembra molto pericoloso. […] Se noi salveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia, dovunque essi siano, sarà troppo poco» (E. Hillesum, Diario, op. cit., p. 45).
[102] «Qui di amore non ce n’è molto eppure mi sento indicibilmente ricca, non saprei spiegarlo a nessuno» (Ivi, p. 115).
[103] Ivi, p. 122.
[104] Ivi , p. 763.
[105] Ivi, p. 795. Così racconta F. Weinreb, un detenuto che ha conosciuto Etty a Westerbork: «C’era in lei la coscienza amara di dover portare un fardello infinitamente pesante, un fardello che si direbbe millenario ma che era, nello stesso tempo, qualcosa di molto leggero e sereno» (E. Hillesum. Les écrits d’Etty Hillesum. Journaux et lettres, 1941-1943, Seuil, Paris 2008, p. 1047).
[106] «La prima volta che uno di questi convogli passò per le nostre mani, ci accadde di pensare che mai più avremmo potuto ridere e essere lieti, che ci eravamo trasformati in persone diverse, improvvisamente invecchiate e estraniate da tutti gli amici di prima» (Id., Lettere, op. cit., p. 41).
[107] «Tra non molto si vedrà forse che è stato anche un inizio» (Ivi, p. 55).
[108] Id., Diario, op. cit., p. 408.


Marta Bartoni insegna Filosofia e Storia nei licei. Tra i suoi ambiti di ricerca e di interesse si segnala in particolare l’Esistenzialismo Francese (con significativo riferimento alla figura di A. Camus alla quale ha dedicato vari articoli tra i quali “Albert Camus e «La caduta»: la presenza del male nella natura umana e la nostalgia dell'innocenza”, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia di Perugia, Aracne Editrice, Roma 2003-2004/2004-2005), la Fenomenologia e il panorama filosofico “femminile” del Novecento (in particolare H. Arendt e S. Weil) all’interno del quale trova spazio questo piccolo contributo dedicato alla figura di Etty Hillesum.



Mark Rothko, No. 15. Black, Red and Black,


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