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Corpo e spazio A partire da Francesca Woodman
A cura di Francesca Brencio




Corpo e spazio: rapporto biunivoco, dimensione unica
di Marco Nicastro

30 giugno 2014




É facile parlare di vagheggiamento della morte dopo aver letto la biografia — e il suo tragico epilogo — di Francesca Woodman. E tuttavia non posso esimermi dal pensarlo, ogni volta che scorro velocemente con un senso di inquietudine quelle immagini. Cos’è la morte autoinflitta se non primariamente un attacco contro il proprio corpo nella sua peculiarità spazio-temporale, quel modo unico con cui un individuo si situa e si muove nello spazio e occupa (in tutte le accezioni del termine) il proprio tempo?

Nelle foto della precoce fotografa statunitense mi pare emergano alcuni elementi pregnanti e ossessivamente presenti: l’ambientazione costituita da muri scalcinati di abitazioni fatiscenti, corpi umani nudi che guardano verso l’obiettivo enigmaticamente, figure femminili che cercano di insinuarsi, di fondersi o confondersi con i luoghi (le mura stesse, l’assito sgangherato del pavimento, gli alberi). Tuttavia, questi stessi corpi possono anche stagliarsi netti nella loro cruda nudità innocente. Pare non esserci una via di mezzo, dunque: il corpo sfuma spettrale sullo sfondo -— con il viso spesso nascosto o dissolto più del resto della figura — oppure risuona roboante nella sua cruda fisicità in una stanza molto spoglia.

Altro elemento interessante potrebbe essere il movimento delle figure che, quando c’è, finisce spesso per sfocare le immagini rendendole eteree. Se il corpo si muove evapora, tende a svanire. Il tutto all’interno di uno spazio claustrofobico che, di solito, non si espande molto al di là di un pezzetto di natura che s’intravede, o degli scorci di interni fatiscenti di un’abitazione. Nelle foto della Woodman il corpo si vede bene solo quando è fermo, statico, privo di protezioni nella sua nudità; altrimenti si muove e si disperde, diventa quasi uno spettro che si fonde col posto in rovina che si ripete con lugubre costanza.

Anche le pose sono interessanti. Contorsioni sensuali e ammiccanti, ma anche pose di dolore o quasi paralizzate; corpi-oggetto in stanze piene di inutili elementi vecchi, rotti o impolverati. È una sensualità intimamente legata alla morte e al dolore, possibile rappresentazione della morte psichica cui si va incontro se il corpo non trova la sua posizione nella realtà, la sua dimensione, se non viene visto per come è realmente.

La nudità poi, per la Woodman, pare acquisire una valenza particolare: le pose dei nudi sono ingenue, timide, oppure prorompenti e consapevolmente sensuali. Il corpo viene acclamato nella sua capacità di sedurre lo spettatore ma, anche, nascosto agli sguardi, sporcato volutamente, reso evanescente. Capita che le pose, pur melliflue, risultino riecheggianti quelle dei cadaveri ancora non irrigiditisi completamente. Ritorna poi l’immagine dello specchio, come elemento centrale in alcune foto (assieme alla figura umana): uno specchio che nasconde e rivela al tempo stesso aspetti della scena o della figura che l’obiettivo non riesce a carpire.

Mi viene da pensare che il corpo rappresenti per la Woodman — e forse anche per ognuno di noi — il modo di stare nello spazio, di interagire con esso, di occuparlo. Un modo unico per ognuno che riflette ciò che una persona è col mondo (lo spazio fisico esterno), con gli altri (lo spazio sociale-interpersonale) e con sé stesso (lo spazio privato della propria mente). Il corpo che si muove nello spazio come la mente che si muove in sé stessa, nei suoi meandri cognitivi, nelle sue oscillazioni affettive.

Forse il modo in cui ognuno riesce a muoversi dentro uno spazio, ad appropriarsene, a liberarlo, a lasciarvi un segno o a svanire, sono indicativi dell’integrità della mente, della sua strutturazione, della sua coincidenza o distanza da quel corrispettivo fisico che è il corpo. Il modo in cui un corpo interagisce con lo spazio (o lo spazio che ognuno si sceglie come luogo privilegiato di vita) come aspetto speculare del rapporto che la mente ha col proprio spazio psichico, fatto di pensieri, fantasie, impulsi, sogni, volizione.

Più io mi sento a mio agio nel mio corpo e riesco a guardarlo, ad esplorarlo, a toccarlo, più io riesco a interagire col mio spazio, concedendomi gradi di libertà sempre maggiori in esso. E d’altronde questo intimo rapporto tra corpo e mente fu sottolineato da Freud che vide l’Io come un’istanza innanzitutto corporea, che acquisiva coscienza di sé solo gradualmente attraverso ripetuti scambi con l’ambiente in risposta alle primitive esigenze pulsionali-corporee (sessuali, in senso lato).

Processo determinante per l’integrità psichica dell’essere umano è la significazione, fin dai primi periodi della vita, della pulsione e dei bisogni corporei fondamentali (la fame, la sete, il sonno, il calore, il contatto fisico-epidermico). Attraverso il soddisfacimento di questi l’individuo si appropria — grazie alla mediazione dell’ambiente, in primis della “madre-ambiente” secondo la definizione di Winnicott — del proprio corpo nella sua struttura e nelle sue funzioni, ponendo le basi corporee della propria identità e dei suoi successivi e più complessi bisogni. In tal senso si può ipotizzare che un’interruzione o un mancato avvio di questo processo basico di radicamento corporeo potrebbe evolvere in una sensazione di inconsistenza corporea. La trasparenza, il dissolversi dell’immagine (come nelle foto della Woodman) rappresenterebbero bene questo processo di dispersione del sé corporeo e di quello psichico.

Così, il movimento del corpo nello spazio potrebbe rappresentare la mente che cerca un suo spazio, una sua dimensione; in sostanza, lo spazio che ha la mente, la sua capacità di muoversi in sé stessa. Uno spazio che, in molte di quelle foto, ritroviamo in disfacimento, ristretto, tale da non consentire un respiro vitale ed un movimento in esso, se non di dissoluzione, di dispersione.

Per questo dico che in quelle foto di un cupo bianco e nero aleggia una sensazione di morte che, prima che fisica è già mentale, nel sottofondo fantastico di quelle pose e di quegli ambienti, di quei movimenti deformanti, di quei volti che si nascondono o sfumano più e prima di tutto il resto, segno di un’identità incerta, che si confonde con i luoghi, l’atmosfera e gli altri elementi presenti nei ritratti.

Che dire poi dei volti, altro elemento molto interessante, a mio avviso, di questi lavori?

Se il corpo, nei suoi bisogni primordiali è la base dell’identità, base fisica e radice primaria nella realtà, il volto è l’identità nella sua dimensione relazionale e sociale, quella parte del corpo che noi, abitualmente coperti, presentiamo agli altri.

Il volto come elemento più veritiero nel comunicare all’esterno la nostra identità viene nascosto nelle foto della Woodman o immortalato in un rapporto interrogativo con uno specchio. L’elemento dello specchio può essere un potente richiamo a quel processo atavico di rispecchiamento infantile che è così fondamentale per il processo di costruzione del Sé dell’essere umano e su cui hanno insistito molti autori in ambito psicoanalitico. L’uomo ha bisogno di essere guardato per esistere, di ritrovarsi in uno sguardo altro da Sé.

Ci ritroviamo quindi a riflettere su alcune dimensioni fondamentali dello psichico attraverso questi scatti. Innanzitutto la sessualità come dimensione fondamentale dell’essere umano nel suo ambiente, e come elemento basico della sua identità; un bisogno, un impulso da cui non si può prescindere, talmente forte a volte da imporsi nonostante tutto e da mettere a soqquadro l’ambiente circostante (l’ambiente fisico dei luoghi ma anche quello mentale dell’Io). Il corpo, come portatore di questa sessualità ma anche veicolo del Sé psichico nello spazio e simbolo del rapporto che con lo spazio il Sé può avere. Ancora, l’importanza di uno specchio o funzione rispecchiante al fine di riconoscersi o ritrovarsi nei propri fondamenti identitari e senza il quale non è possibile avere, e quindi esporre, un volto accettabile. Il vissuto conseguente a questa mancanza è la vergogna, il nascondimento del proprio corpo e del proprio volto, l’attacco brutale ad esso. Infine, la prospettiva della morte, intesa non solo come dissoluzione del corporeo ma anche come evaporazione della propria specificità e definizione di essere umano nella realtà, in uno sfumare di sé stessi sullo sfondo della vita, tra le cose, tra gli oggetti inanimati che ci circondano.

Concludo con la descrizione di quanto accaduto con una giovane paziente nella fase iniziale della sua psicoterapia che forse può in qualche modo riallacciarsi a questo discorso.

Solitamente sprofondava nella poltroncina comoda a disposizione nello studio e lì rimaneva abbastanza statica, protetta da un lieve, quasi impercettibile raggomitolarsi. Nella fase in cui eravamo, ci trovavamo a navigare a vista, lei non riusciva a percepire un senso vero e proprio nella psicoterapia, arrivata lì per uno stato di crisi acuto. Faceva fatica ad aprirsi a me e al suo mondo interno perché foriero di novità (e quindi di angoscia). Ed ecco che, per la prima volta dopo qualche mese di incontri, si alza dalla sua postazione per spiegarmi meglio una cosa importante che aveva capito durante una recente lezione all’università, descrivendola come una sorta di illuminazione sul cosa potesse essere per lei, in fondo, la psicoterapia che aveva da poco intrapreso. Le concedo la libertà di muoversi e lei si avvicina ad un piccolo contenitore in vimini vicino alla mia poltroncina, inginocchiandosi e poi sedendosi comoda a terra come una bambina. Allora, sul tessuto a quadri dai motivi geometrici vagamente orientali che lo ricopriva, mi spiega l’oggetto di quella lezione, un esperimento di sociologia fatto qualche anno prima in Inghilterra, attraverso il quale si dimostrava che se si toglievano delle piccole barriere protettive (delle siepi) che separavano i giardini di alcune villette a schiera, le persone che vi abitavano non li utilizzavano più così frequentemente come luogo di socializzazione coi loro vicini, come invece avveniva quando le siepi erano presenti. Pareva agli sperimentatori che la presenza di una barriera protettiva della privacy fosse correlata ad una maggiore disponibilità a relazionarsi con gli altri.

Lei ne aveva concluso che anche lo spazio della psicoterapia e di quella stanza poteva essere paragonato alla funzione della siepe: creare una condizione di protezione o di separazione protettiva per il proprio sé, grazie alla quale poter relazionarsi più tranquillamente con gli altri.

Per la prima volta intravvedeva un senso nuovo al nostro lavoro, mostrando di essersi lasciata andare ad uno slancio creativo del pensiero, ad un collegamento improvviso. Aveva forse sondato nuovi spazi di sé e della propria mente, ma anche della relazione e dello spazio che la circondava, lo spazio della stanza di terapia. Forse una maggiore libertà nel pensiero e nel modo di essere, pur se temporanea, era stata accompagnata da una maggiore libertà di sperimentarsi nello spazio fisico che la circondava. L’esplorazione più libera dello spazio della mente che trovava un suo corrispettivo nel movimento più libero del corpo e in un utilizzo diverso, alternativo e non convenzionale, dello spazio fisico della stanza, di certo funzionale in quel momento alla propria autoespressione. Quando la mente si apre a sé stessa, mi viene adesso da pensare, si apre anche allo spazio e quindi all’altro. Anzi, direi forse meglio — cercando di superare questa atavica dicotomia mente-corpo tipica del pensiero occidentale e questa visione strettamente causalistica delle esperienze — l’apertura alla vastità e alla complessità, al mistero di sé stessi fatti di conscio e inconscio, come corrispettivo di un utilizzo nuovo ed originale dello spazio e di una visione nuova del proprio corpo. Quest’ultimo non più sentito come oggetto estraneo, fonte di pulsionalità scissa e di angoscia, ma come base fisica della propria identità, porta fisica di relazione con l’altro da sé.

Possibilità di relazione col proprio inconscio (l’altro, il diverso che è in noi, il nostro corpo), possibilità di relazione con l’altro da Sé: lo spazio fisico che ci circonda, gli altri, la vita.





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