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Corpo e spazio A partire da Francesca Woodman
A cura di Francesca Brencio




Tra attrazione e ripugnanza: il corpo vivente nell’epoca dello human enhancement
di Davide Sisto

30 giugno 2014




1. La natura ha orrore della simmetria: la viscerale esuberanza del corpo

Nel 2013 suscita particolare scalpore il film La vita di Adele — Capitoli 1 & 2 (La Vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2) del regista arabo Abdellatif Kechiche, il quale narra in termini espliciti, a tratti rasentanti il voyeurismo pornografico, di un’irrefrenabile e appassionata storia d’amore tra una ragazza liceale e una universitaria conosciutesi per caso tra le vie di Lille. Al di là dell’interesse e — al tempo stesso — dello scandalo provocato dal modo in cui è stato rappresentato un amore lesbico giovanile in un’epoca, come quella odierna, in cui l’attenzione pubblica per l’omosessualità è decisamente alta, ciò che risalta soprattutto nelle riprese di Kechiche è la corporeità in tutta la sua articolata e incisiva esuberanza, che trascende la canonica rappresentazione cinematografica dell’atto sessuale. I primi piani che indugiano sulla bocca sporca di cibo di Adele, di cui viene di continuo sottolineata la scomposta voracità, sul suo rumoroso modo di tirare su con il naso e — in generale — su tutte quelle molteplici espressioni fisiche solitamente omesse dalle descrizioni scientifiche perché considerate inopportune o irrilevanti, mettono in luce le reali intenzioni del regista: lasciare che sia l’elettricità viscerale del corpo a strutturare l’identità soggettiva di Adele, i cui pensieri e le cui scelte sono calibrate, con maggiore o minore intenzionalità, all’interno di un orizzonte comportamentale in cui il fervore della fisicità stabilisce di volta in volta il tipo di relazione che deve intercorrere tra determinismo e libertà. La dirompenza della sensualità di Adele non rappresenta banalmente le “ragioni del corpo e dell’istinto”, per quanto lo sguardo del regista sia spesso morboso, piuttosto il tentativo di legare insieme il dover essere della ragione con l’accidentalità della decisione fulminea all’interno di un contesto in cui corpo e mente condividono le proprie reciproche suggestioni.

Un anno prima de La vita di Adele, lo scrittore francese Daniel Pennac scrive un racconto che si intitola Storia di un corpo. Il racconto è costruito nella forma di un diario del corpo di un uomo, tenuto dall’età in cui egli aveva dodici anni sino all’ultimo giorno di vita. Le naturali trasformazioni fisiche nel corso progressivo dei settantaquattro anni dell’io narrante divengono lo specchio in cui si riflette la natura illusoria del tentativo di bilanciare quelle armonie e disarmonie fisiche, che — ci piaccia o no — sfuggono al controllo della razionalità. Il canovaccio della storia individuale di un uomo non è in grado di sottrarsi alla radiografia emozionale a cui si sottopone — istante per istante — la nostra corporeità, soprattutto nei momenti in cui non siamo concentrati su di essa.
La paura del vuoto mi fa strizzare le palle, la paura delle botte mi paralizza, la paura di avere paura mi angoscia per tutto il giorno, l’angoscia mi provoca le coliche, l’emozione (anche piacevolissima) mi fa venire la pelle d’oca, la nostalgia (per esempio pensare a papà) mi inumidisce gli occhi, la sorpresa mi fa sobbalzare (anche una porta che sbatte!), il panico può farmi scappare la pipì, il benché minimo dispiacere mi fa piangere, la rabbia mi soffoca, la vergogna mi rattrappisce […] Produrre saliva, deglutire, sono funzioni del corpo meccaniche come respirare. Senza, diventeremmo secchi come un’aringa. Mi chiedo quanti quaderni ci vorrebbero solo per descrivere tutto ciò che il nostro corpo fa senza che noi ci pensiamo. Le funzioni meccaniche sono innumerevoli? Non ci facciamo caso, ma basta che una si inceppi e non pensiamo ad altro! [1]
Innumerevoli i diari per descrivere ciò che il nostro corpo fa indipendentemente dal pensiero; basta, però, che una sua funzione si inceppi e non pensiamo ad altro. Le parole di Pennac, a cui ben aderisce l’immagine di Adele del film di Kechiche, mettono in luce — tramite la narrazione letteraria — come il ruolo del corpo e della sensibilità sia centrale e ineludibile per un’interpretazione onnipervasiva della realtà. Al tempo stesso, evidenziano quanto siano utopici tutti quei riduzionismi metodologici impegnati a negare valore conoscitivo alla corporeità e a ciò che proviene dalle sensazioni e dalle emozioni. Come osserva Giuseppe O. Longo, ne Il senso e la narrazione (2008), «il corpo ci insegna che vi è, sullo sfondo, un alone sfocato e baluginante di significati inespressi ma essenziali, che debbono essere recuperati grazie all’esercizio di uno sguardo laterale, con un’operazione di prolungamento che ci porta fuori dall’ambito tradizionale dell’insegnamento e dell’apprendimento». [2] La cura di questo sguardo laterale, con cui recuperare e salvaguardare tutti i significati inespressi ma essenziali che provengono dal corpo e dalla sensibilità — come l’emozione che fa venire la pelle d’oca e la nostalgia che inumidisce gli occhi, secondo la citazione di Pennac — implica il riconoscimento dell’inadeguatezza propria di un sapere limitatamente pacificato e astratto, fondato sulle sole risorse intellettuali e razionali dell’uomo. Tale sapere, le cui regole aderiscono alla mera ricerca dell’oggettività e dell’universalità, non è infatti in grado di inserirsi in tutte le intercapedini di qualsivoglia fatto reale, di per sé sempre complesso e “rischioso”. Nella sua intrinseca complessità, ogni fatto reale contrappone all’omogeneità e all’isotropia un groviglio di tensioni e aporie, nonché una caotica stratificazione multiforme di stati d’animo e una sinestesia percettiva innegabilmente accentuata, poggianti sull’idea che siano l’irreversibilità e l’indeterminazione a rappresentare le leggi regolative dell’esistenza. Nella descrizione di una città, per esempio, non è possibile eludere il rimbombo dei suoni, «l’odore dei vicoli, il fetore dei rifiuti, il suono degli strumenti molteplici con cui la città suona il suo concerto, la diversa grana e morbidezza dei monumenti, delle mura, delle persone». [3] Lo sguardo laterale, secondo quanto osserva Longo, necessita dell’adozione di una strategia metodologica che abbatta gli steccati artificiali posti tra idee, sensazioni e passioni, suggerendo di percorrere la via della contaminazione tra la visibilità naturale dei fatti e l’invisibilità spirituale delle sensazioni, prendendo la direzione opposta all’ossequioso aderire del resoconto scientifico all’univocità della regola e al depauperamento del sentimento.

«La natura — leggiamo nel racconto di Pennac — ha orrore della simmetria, figliolo, non commette mai un simile errore di stile. Ti stupirebbe vedere com’è inespressivo un viso simmetrico, se ne incontrassi uno!». [4] La simmetria, di cui ha orrore la natura, e l’inespressività, dipinta su un viso ipoteticamente simmetrico, sono — a nostro modo di vedere — riferimenti filosoficamente importanti per comprendere quale sia il corretto sentiero che deve imboccare un pensiero volto a interpretare la realtà che gli sta innanzi. Non il sentiero esclusivamente formale, logico e analitico, rassicurato dal fatto che la simmetria e l’inespressività facilitano inopinabilmente una formulazione lineare e astratta di leggi e definizioni. Piuttosto, il sentiero che, accanto alla forma, salvaguarda la polivalenza sinuosa e ambigua del mondo e l’esuberanza bipolare dei suoi eventi, mai tratteggiati con un unico colore che dia omogeneità all’insieme né esposti con l’idea che essi rispondano necessariamente a un ordine oggettivo. La coerenza dell’insieme non è sinonimo di effetto che segue pedissequamente una causa, né obbedienza alla legge travestita da saggezza. Profondità, invece, nel gettare lo sguardo ermeneutico sulla vita reale dell’uomo e apertura disinibita e passionale alla poligamia dei saperi non omogenei e all’adulterio concettuale, di contro al carattere castigato della forma, a partire dalla consapevolezza che la realtà particolare di un fenomeno sopravanza di fatto qualsiasi forma di riflessione, volta a coglierne razionalmente l’essenza. E per realizzare questo intento pare, ovviamente, essenziale tener conto dello sguardo laterale attento all’insegnamento del corpo. [5]


2. Corpo morto vs. corpo vivo: l’organismo come luogo di dolore e orrore

Come sottolineano Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell’illuminismo (1944), la sicurezza fornita dalla simmetria e dall’inespressività, a cui si riferisce Pennac, e il rifiuto dello sguardo laterale, di cui parla Longo, hanno spinto il pensiero occidentale, nel corso del suo sviluppo storico e teorico, a tentare di meccanizzare il corpo, concependolo come un semplice corrispettivo organico dell’orologio, e a rendere la natura una mera materia. Da cui non può che seguire l’atteggiamento ambiguo e instabile che la civiltà occidentale ha maturato nei confronti di tutte le espressioni corporee e sensibili, sopravanzate dal carattere tirannico attribuito all’intelletto:
il corpo, come ciò che è inferiore e asservito, viene ancora deriso e maltrattato, e insieme desiderato come ciò che è vietato, reificato, estraniato. Solo la civiltà conosce il corpo come una cosa che si può possedere, solo in essa esso si è separato dallo spirito — quintessenza del potere e del comando — come oggetto, cosa morta, corpus. Con l’autodegradazione dell’uomo a corpus la natura si vendica perché l’uomo l’ha degradata a oggetto del dominio, a materia prima […] in quella occidentale, e probabilmente in ogni civiltà, il corpo è tabù, oggetto di attrazione e di ripugnanza. [6]
Tra attrazione e ripugnanza si articola la dialettica tradizionale di natura naturans e natura naturata, le cui caratteristiche prime sono il disagio e la sofferenza, poiché il corpo non è altro che «il luogo del dolore, destino inemendabile dell’uomo che vive nella sua prigione algica, esposto ai nocumenti esterni e all’inevitabile deterioramento delle sue strutture organiche». [7] È il corpo con le sue esigenze scomposte e disarmoniche a limitare le capacità proprie dello spirito quale quintessenza del potere e del comando: «la cosa peggiore di tutte — osserva Socrate nel Fedone platonico — è che, qualora ci venga effettivamente una qualche tregua dal corpo e noi cerchiamo di rivolgerci a indagare qualcosa, ecco che di nuovo quello […] dovunque si para innanzi e suscita confusione e scompiglio, e ci fa perdere la testa». [8] Naturale è, quindi, associare il corpo alla malattia, alla corruttibilità, alla contaminazione, che stanno a fondamento di ciò che consideriamo non equilibrato o, addirittura, folle. Luogo del dolore e dell’orrore: le trasformazioni organiche che connotano il corpo morto in via di decomposizione non fanno altro che intensificare l’imbarazzo provato dall’uomo nei confronti della propria fisicità organica. Nel suo capolavoro Stecchiti. Le vite curiose dei cadaveri (2003), Mary Roach descrive con macabro sarcasmo le trasformazioni biologiche e chimiche dei corpi in decomposizione, osservate presso un centro di ricerca medico nei dintorni di Knoxville. Tale centro di ricerca lascia volontariamente i cadaveri al sole per diverse ore, di modo da favorire i progressi della Medicina legale, che ha necessità di osservare le trasformazioni organiche per capire da quanto tempo una persona è morta. [9] Il liquido cellulare che fuoriesce dal corpo, quando gli enzimi usati dalle cellule umane per frammentare le molecole si ritrovano senza controllo e cominciano a divorare la struttura delle cellule (autolisi), la putrefazione progressiva determinata dai batteri del corpo o, ancora, il lento scomparire della forma fisica a causa dell’azione divorante delle larve di dittero sono processi che non generano semplicemente una normale reazione emotiva di angoscia in chi li osserva, ma offrono ulteriori strumenti per capire le ragioni di chi attribuisce un ruolo servile e secondario alla corporeità, seppur conservando un senso di attrazione nei suoi confronti.

Oggetto, cosa morta, corpus: proprio questa ambivalenza tra attrazione e ripugnanza per il corpo determina, secondo Hans Jonas, la decisione conscia del pensiero occidentale di mettere da parte l’organismo vivente, interpretato come «ludibrium materiae, come un raffinato inganno della materia», giacché colmo di pulsioni, reazioni sgradevoli e imbarazzanti istinti, per porre l’attenzione esclusivamente sul cadavere che, tra le condizioni fisiche, è quella più comprensibile e più vicina alla simmetria odiata dalla natura. «Solo nella morte — osserva Jonas — il corpo diviene privo di enigmi: in essa ritorna dal comportamento enigmatico e non ortodosso della vitalità alla condizione non ambigua e “familiare” di un corpo entro l’interno mondo corporeo, le cui leggi universali sono il canone di tutta la comprensibilità». [10] In realtà Jonas, quando evidenzia come il pensiero occidentale prediliga il corpo nella condizione cadaverica rispetto a quello in vita, intende far riferimento, non tanto alla concreta condizione del corpo morto, quanto all’«indifferenza della mera materia», il cui carattere «neutrale» è la base necessaria per fondare una riflessione dualistica intenta ad attribuire ogni qualità e virtù alla mente e a concepire in termini prettamente strumentali il corpo. Jonas, concordando di fatto con Horkheimer e Adorno, ritiene che l’indifferenza della mera materia, a cui corrisponde l’idea del corpo-cadavere, e la neutralità, da cui dipende ogni forma di dualismo, siano strettamente legate alla convinzione che ogni processo deve essere deciso in anticipo, come avviene nelle operazioni matematiche, in cui «l’ignoto diventa l’incognita di un’equazione, è già bollato come arcinoto prima ancora che ne venga determinato il valore». [11] In tal modo, la natura in generale e il corpo in particolare sono sottratti alla casualità e al caos proprie della vita e, diventando prodotti rassicuranti della logica e della matematica, rispondono a quella simmetria e inespressività, nei confronti di cui la natura ha orrore.
Il corpo fisico (Körper) — osservano Horkheimer e Adorno — non si può più ritrasformare in corpo vivente (Leib). Rimane un cadavere, per quanto possa essere allenato e irrobustito. La trasformazione in cosa morta, che si delinea nel suo nome, fa parte del processo costante che ha ridotto la natura a materiale e materia. Le opere della civiltà sono il frutto della sublimazione, dell’odio-amore acquisito verso il corpo e la terra, da cui il dominio ha avulso tutti gli uomini. Nella medicina diventa produttiva la reazione psichica alla riduzione dell’uomo a corpus, nella tecnica quella alla reificazione di tutta la natura. [12]
La scomparsa del corpo vivente a favore di quello fisico — quel Körper che non è altro che un pezzo di carne esamine, un busto o un tronco, come già evidenziava Schelling là dove lo contrapponeva alla “corporeità spirituale” (Geistleiblichkeit) [13] — nel rappresentare di fatto una prevalenza schiacciante della ripugnanza sull’attrazione nei confronti del corpo, diviene un elemento decisivo nel XX secolo, durante il quale il processo di secolarizzazione si accompagna a uno sviluppo senza precedenti della scienza e della tecnologia.


3. Cyborg e human enhancement: oltre i limiti del corpo

A partire dal XX secolo, secondo Mark Dery, uno dei più noti critici culturali americani specializzato in nuove tecnologie e controculture, «l’orrore nei confronti del corpo coincide con la sindrome culturale da stress post-traumatico indotta dal fatto che una parte sempre maggiore del nostro lavoro cognitivo e muscolare viene accollata alla tecnologia». [14] La tecnologia e gli sviluppi della scienza, se messi in relazione alla tipica struttura dualistica del pensiero occidentale, intensificano lo iato tra l’onnipotenza promessa dagli strumenti artificiali e il senso di inadeguatezza cagionato dalla biodegradabilità propria del corpo organico. Emerge nell’uomo, in altre parole, quella «vergogna prometeica», di cui parla Günther Anders, che consiste nella presa di coscienza da parte di ogni individuo di essere diventato, a causa della sua limitatezza organica e della sua deteriorabilità fisica, antiquato rispetto ai prodotti industriali da lui stesso creati, la cui perfezione, garantita dalla loro riproducibilità infinita, li rende gli unici detentori della libertà. L’uomo si vergogna, pertanto, di non essere una cosa, a cui riconosce una superiorità ontologica senza eguali nella storia occidentale del rapporto tra soggetto e oggetto, e tale vergogna lo spinge a desiderare di ridurre se stesso a una cosa, di privarsi quindi della sua natura organica e della sua singolarità, considerando un difetto radicale l’essere costituito di un corpo. [15] D’altronde, sembrerebbe difficile dargli torto se pensiamo alle descrizioni, da parte di Mary Roach, degli orribili processi di decomposizione a cui in maniera naturale si sottopongono, prima o poi, tutti i corpi privati della vita.

Ora, i progressi delle biotecnologie sembrano cercare un rimedio a questa vergogna prometeica nei confronti del corpo vivente, prospettando un futuro prossimo segnato dall’idea dell’uomo-cyborg, prodotto ultimo dell’applicazione delle tecniche dello human enhancement alla natura di ogni singolo individuo. Sigla di cybernetic organism, che sta a indicare l’ipotesi di un organismo umano in grado di adattarsi alle esigenze della vita modificando se stesso e sostituendo parti del corpo con organi artificiali, il cyborg non è semplicemente inteso come «un corpo “naturale” a cui sono aggiunte componenti meccaniche, elettromagnetiche o chimiche, ma nel senso più ampio di ogni essere la cui biologia “originaria” sia modificata da un qualunque processo finalizzato e controllato dall’esterno». [16] Il passaggio, indicato nella teoria del cyborg, da una biologia “originaria” o da una natura “sacralizzata” a una particolare forma di vita in cui l’organismo non è più un limite fisso e invalicabile, ma un ché aperto all’ibridazione e alle modifiche fissate esternamente dalla tecnica, apre una serie di questioni gnoseologiche ed etiche particolarmente delicate. Fin dove può spingersi il potenziamento della natura umana? Deve rimanere entro i confini di ciò che è attualmente possibile per l’essere umano, conservando il ruolo di uno strumento efficace per sopperire a menomazioni fisiche e a malattie mortali, o deve oltrepassare tali confini, mirando a una trasformazione radicale di ciò che noi ancora oggi definiamo “corpo umano”? [17] La deriva di un pensiero che ha tenuto separati la mente e il corpo, manifestando un senso di ripugnanza per quest’ultimo, non può che coincidere con l’idea che sia lecito oltrepassare liberamente i confini della natura umana, in vista di un superamento radicale di tutto ciò che è organico e del raggiungimento dell’agognata simmetria e della parallela inespressività più volte menzionate.

La snaturalizzazione del corpo e la negazione dei suoi limiti naturali, fonti di disequilibrio e di mortalità, portano innanzitutto nella direzione di Hans Moravec e Marvin Minsky, i quali ritengono possibile, in un futuro non troppo lontano, trasferire in modo integrale una mente umana all’interno di un meccanismo tecnologico capace di eludere la decomposizione organica. Ray Kurzweil — a sua volta — sostiene, in un’intervista del 2005 al “The Guardian” in riferimento al suo libro The Singularity is Near: When Humans Transcend Biology, che nel 2020 un computer da mille dollari avrà una potenzialità di elaborazione simile a quella del cervello umano, mentre nel 2030 saremo in grado di costruire macchine dotate di un’intelligenza superiore alla nostra, le quali saranno impiantate nel nostro corpo in virtù delle nanotecnologie. In tal modo, ci si potrà un giorno liberare dalla tirannia del corpo vivente, trasformando i ricordi e la personalità individuale in informazioni digitali e ponendo l’evoluzione biotecnologica a fondamento delle nuove leggi dell’etica e della conoscenza. In linea con le considerazioni di Kurzweil, Max T. O’ Connor, meglio conosciuto con lo pseudonimo Max More, co-fondatore dell’Extropy Institute e autore di una Lettera a Madre Natura, è convinto che sia giunta l’ora in cui l’uomo sottragga alla natura il “libretto d’istruzione” del proprio corpo, uscendo dall’età infantile che lo ha segnato per millenni ed emendando la costituzione umana, attraverso il rifiuto di limiti naturali imposti alla durata della vita e lo sfruttamento della tecnologia per accrescere la longevità. Per More la liberazione dell’uomo dalla presenza opprimente della morte, quale evento che dovrà aver valore solo più come realtà virtuale o come paradigma mutevole nel sistema operativo degli esseri viventi, passerà attraverso alterazioni genetiche, manipolazioni cellulari, utilizzi di organi sintetici. Gli strumenti biotecnologici ci permetteranno di espandere la portata delle nostre capacità cognitive e di migliorare la nostra organizzazione neurale, fornendo inoltre «la neocorteccia di una “meta-mente”. Questa rete distribuita di sensori, processori di informazioni e intelligenza incrementerà la nostra consapevolezza di noi stessi e ci permetterà di modulare le nostre emozioni». [18]


4. Meglio limitati che artificiali: apologia dell’asimmetria e dell’espressività

Questa succinta carrellata di proposte in merito al superamento dell’organico e al rifiuto del carattere limitato del corpo non rappresenta eccentriche posizioni teoriche, frutto del fanatismo dei tecnofili sfaccendati dell’ultima ora. Risponde, piuttosto, al bisogno generalmente sentito, all’interno dell’attuale società tecno-scientifica, di contrastare l’imperfezione e la limitatezza che, aderendo in modo naturale alla corporeità, divengono costanti fonti di disagio e di dolore. Sono l’imperfezione e la limitatezza le cause della vergogna prometeica di andersiana memoria. Il fatto che questo bisogno sia tutt’altro che periferico nella nostra società è dimostrato da numerosi aspetti della vita quotidiana. È stata praticamente inventata, per esempio, una patologia infantile come il “deficit di attenzione e iperattività” (ADHD), che rappresenterebbe la causa dello scarso rendimento scolastico e delle idiosincrasie che il singolo bambino matura nei rapporti che sviluppa sia con i coetanei sia con gli adulti. Il rimedio a questa presunta patologia è dato dalla somministrazione del Ritalin (metilfenidato idrocloride), un farmaco in grado di ampliare le prestazioni cognitive e di sopperire alle condizioni di stanchezza indotte dalla narcolessia. In altre parole, viene somministrato ai bambini il metilfenidato, che è uno stimolante centrale catalogato tra le sostanze stupefacenti per la sua parentela — presunta o errata — con le anfetamine. E ciò solo per attutire intemperanze legate al naturale percorso di crescita di un bambino o per risolvere problemi la cui soluzione si potrebbe semplicemente trovare sul piano pedagogico. Stesso discorso vale per il Provigil, uno stimolante mentale, che riduce il bisogno di riposare e di dormire, motivo per cui viene assunto dai soldati americani durante le operazioni belliche, e che favorisce l’amichevolezza e l’umore soggettivo. [19]

Dall’uomo-cyborg alla somministrazione del Ritalin e del Provigil: il rifiuto dell’imperfezione e della limitatezza passa attraverso la scelta di artificializzare il naturale, provando a costruire in laboratorio uomini-noumeno che, costretti a rinunciare al proprio carattere fenomenico, con le sue fluttuazioni tra il bene e il male, devono diventare le copie uniformi di un una specie di Io penso universale, pacificato e privo di smagliature. Tornano, allora, alla mente l’immagine dirompente di Adele del film di Kechiche e le incontinenze fisiche dell’io narrante del racconto di Pennac, la cui mediazione è affidata allo sguardo laterale cui fa riferimento Longo. Questi tre esempi, nel porre al centro dell’attenzione il corpo vivente e una forma di sapere anti-riduzionistico ed estraneo al metodo logico-matematico, poggiante le proprie fondamenta sull’asimmetria e l’espressività, mirano a valorizzare il limite e l’imperfezione che costituiscono ogni organismo e la vita in sé. Una vita senza un termine ultimo, a cui si lega necessariamente l’idea del progressivo consumarsi psicofisico, lungi dal determinare una condizione di perfezione, in cui l’artificiale sopperisce alle mancanze del naturale, porta a un’immobilità completa. Tale immobilità inaridisce la sorgente della vita stessa, per cui il dolore e il progressivo morire rappresentano la necessaria salvaguardia della dinamicità delle cose, delle passioni, delle trasformazioni e del rifiuto dell’omologazione. Fondamentali, a proposito, le parole di Schelling nel dialogo Clara del 1810-11:
se la pianta non crescesse fino al fiore e se non fosse limitata dall’esterno, cosa che non è assolutamente pensabile nel caso dell’universo, allora crescerebbe all’infinito. Ogni vivente può essere compiuto solo da un limite che gli doni un senso, ed è per questo che sarei pronto ad affermare che la testa, in un uomo, è l’alto, anche se non camminasse eretto, e in modo generale ammetterei sempre l’esistenza di un vero alto e di un vero basso, così come di una vera destra e di una vera sinistra, di un dritto e di un rovescio. In generale, ciò che è compiuto è migliore e più eccellente di ciò che è illimitato, anzi: nell’arte questo è il sigillo della perfezione. [20]
La compiutezza è fornita propriamente da un limite che dona un senso a ogni essere vivente. E questo limite, sigillo della perfezione, è salvaguardato nel momento in cui ci rendiamo conto che la vita, per affermare se stessa, fugge costantemente dalla staticità innaturale del perfetto, nutrendosi di mancanze e accentuando il bisogno di mancanze. La vita, schellinghianamente intesa, ricerca la condizione di mancanza, la quale va superata in una condizione successiva — a sua volta — mancante rispetto a quella ulteriormente successiva e così via. Ecco, quindi, che il corpo vivente, con tutti i suoi aspetti dis-equilibrati, non aderenti alle regole del pensiero logico-analitico e intrisi di espressività e asimmetria, diviene un’importante fonte di conoscenza che va tutelata per almeno due ragioni.

La prima riguarda il modo di interpretare la realtà e di comprendere la verità. Realtà e verità sono costruzioni prive di senso, se le si vuole rinchiudere all’interno di un sapere totalizzante che pretende assolutezza. «La verità — osserva Longo — non è pura e intera, ma multipla, relazionale, mutevole, complessa, perfino illusoria» [21]; essa assume un significato autentico se si concretizza in una sua costruzione intersoggettiva e relazionale quale intersezione delle molteplici verità soggettive. E il corpo, sfuggendo nella sua concretezza a ogni processo di universalizzazione e oggettivazione, è propriamente ciò che permette di leggere la verità e la realtà in senso relazionale e intersoggettivo.

La seconda ragione della tutela dell’esuberanza e dell’asimmetria del corpo è facilmente deducibile dai brevi riferimenti che abbiamo fatto nei confronti del cyborg e dell’human enhancement. Ridefinire il rapporto ermeneutico tra l’uomo e la sua corporeità non significa far prevalere un modello iper-dualistico e fortemente antropocentrico che pone il negativo totalmente nella sfera dell’organico e del naturale. Piuttosto, significa partire da una rivalutazione dell’organico, le cui basi poggiano sui concetti di contaminazione, ibrido e soglia. Ed è propriamente il corpo, con le sue specifiche caratteristiche e con il suo costante rimando a significati impliciti ma essenziali, a rendere possibile questo tipo di contaminazione e di ibridazione, da cui non possono che seguire evidenti miglioramenti nei processi teoretici e pratici che caratterizzano la società contemporanea.


[1] D. Pennac, Journal d’un corps, Gallimard, Paris 2012; trad. it. di Y. Melaouah, Storia di un corpo, Feltrinelli, Milano 2012, pp. 28-29 e p. 35, corsivo nostro. Sul valore filosofico del libro di Pennac, si veda G. Pezzano, Note di lettura di “D. Pennac, Storia di un corpo”, link: http://www.academia.edu/2496746/Note_di_lettura_di_Daniel_Pennac_Journal_dun_corps_2012_tr._it._di_Y._Melaouah_Storia_di_un_corpo_Feltrinelli_Milano_2012_. Cfr., inoltre, il seguente Dvd: A. Kechiche, La vita di Adele – Capitoli 1 & 2, Lucky Red Distribuzione (2013).

[2] G.O. Longo, Il senso e la narrazione, Springer, Milano 2008, p. 2.

[3] Ivi, p. 7.

[4] D. Pennac, Storia di un corpo, cit., p. 326.

[5] Sull’approfondimento di questi aspetti rimandiamo a D. Sisto, Narrare la morte. Dal romanticismo al post-umano, pref. di U. Ugazio, ETS, Pisa 2014, pp. 41 ss.

[6] M. Horkheimer - T.W. Adorno, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1969; trad. it. di R. Solmi, introd. di C. Galli, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 2010, p. 250.

[7] R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 215.

[8] Platone, Fedone, trad. it. di P. Fabrini, Rizzoli, Milano 1996, pp. 143-145, 66 d-e.

[9] Cfr. M. Roach, Stiff. The Curious Lives of Human Cadavers, Norton & Company, New-York 2003; trad. it. di M. Volante, Stecchiti. Le vite curiose dei cadaveri, Einaudi, Torino 2005, pp. 38 ss.

[10] H. Jonas, The Phenomenon of Life. Towards a Philosophical Biology, Harper & Row, New-York 1966; trad. it. di A. Patrucco Becchi, a cura di P. Becchi, Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, Einaudi, Torino 1999, p. 20.

[11] M. Horkheimer - T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 32.

[12] Ivi, p. 252.

[13] Schelling imposta la sua teoria tanatologica proprio a partire dalla distinzione tra Körper e Leib, seppur interpretando i due termini che indicano la corporeità all’interno di un orizzonte metafisico fondato sull’assimilazione della realtà al simbolo. A proposito si veda D. Sisto, Lo specchio e il talismano. Schelling e la malinconia della natura, pref. di G. Moretti, Milano, AlboVersorio 2009, pp. 85-118.

[14] M. Dery, Escape Velocity. Cyberculture at the End of the Century, 1996; trad. it. di M. Tavosanis, Velocità di fuga. Cyberculture a fine millennio, Feltrinelli, Milano 1997, p. 260.

[15] Cfr. G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, I: Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, Verlag C.H. Beck, München 1956-1980; trad. it. di L. Dallapiccola, L’uomo è antiquato. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 37.

[16] A. Caronia, Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, Shake Edizioni, Milano 2008, p. 13.

[17] Sulla distinzione tra una forma radicale e una moderata dello human enhancement, si veda in particolare N. Agar, Truly Human Enhancement. A Philosophical Defense of Limits, MIT Press, Cambridge 2014, testo in cui l’autore spiega perché è corretto favorire lo sviluppo di un potenziamento umano moderato, mentre è censurabile perseguire lo sviluppo di un potenziamento umano radicale. Una posizione abbastanza differente rispetto a quella di Agar è sostenuta, invece, nel seguente testo: R. Blackford, Humanity Enhanced. Genetic Choice and the Challenge for Liberal Democracies, MIT Press, Cambridge 2014. Per una comprensione generale del tema dello human enhancement si vedano J. Savulescu - N. Bostrom (Eds.), Human Enhancement, Oxford University Press, Oxford 2009 e B. Bonato - C. Tondo (a cura di), Fabbricare l’uomo. Tecniche e politiche della vita, Mimesis, Milano 2013.

[18] M. More, A Letter to Mother Nature è un testo che l’autore ha presentato, nell’agosto 1999, a Berkeley, California, a una conferenza dal titolo EXTRO 4: Biotech Futures. Challenges and Choises of Life Extension and Genetic Engineering. Tale testo, rivisto nel 2009, è stato pubblicato in inglese su http://www.strategicphilosophy.blogspot.com e in italiano su http://www.estropico.org. Per i vari autori citati si vedano in particolare: M. Minsky, Thoughts about Artificial Intelligence, in R. Kurzweil (ed.), The Age of Intelligent Machines, Mit Press, Cambridge 1990; H. Moravec, Mind Children: The Future of Robots and Human Intelligence, Harvard University Press, Cambridge 1988; R. Kurzweil - T. Grossman, Fantastic Voyage: Live Enough to Live Forever, Rodale Books, New-York 2004; R. Kurzweil, The Age of Spiritual Machines: When Computers Exceed Human Intelligence, Viking, New-York 1999; Id., The Singulary is Near, Viking, New-York 2005 (trad. it. di V.B. Sala, La singolarità è vicina, Apogeo, Milano 2008). L’intervista a Kurzweil sul “The Guardian” si può leggere qui: http://www.theguardian.com/science/2005/nov/21/academicexperts.elearning. A proposito, si tenga anche conto di D. Sisto, Narrare la morte. Dal romanticismo al post-umano, cit., pp. 181-186 e A. Jha, The Doomsday Handbook: 50 Ways to End the World, Quercus, London 2011; trad. it. di A.F. Tissoni, Manuale dell’apocalisse. Cinquanta ipotesi sulla fine del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2014, pp. 97-102.

[19] Una posizione relativamente favorevole all’uso del Ritalin e del Provigil è contenuta nel seguente testo: M. Balistreri, Superumani. Etica ed enhancement, Espress Edizioni, Torino 2011, pp. 17 ss.

[20] F.W.J. Schelling, “Clara, oder Über den Zusammenhang der Natur mit der Geisterwelt”, in Sämmtliche Werke, hrsg. v. K.F.A. Schelling, Cotta, Stuttgart-Augusta 1856-1861, Bd. IX; trad. it. e a cura di M. Ophälders, Clara ovvero Sulla connessione della natura con il mondo degli spiriti, Zandonai, Rovereto 2009, pp. 104-105, corsivo nostro.

[21] G.O. Longo, Il senso e la narrazione, cit., p. 8.


Francesca Woodman, Self Portrait Talking to Vince, 1975-78


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