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Dylan Thomas: la cerebrale lebbra degli emblemi
di Giuseppe Crivella

Dicembre 2014


Scrive Dylan Thomas alla fine di uno dei suoi più noti racconti giovanili, intitolato Nella direzione del principio:
Di chi era l’immagine del vento, l’impronta sullo scoglio, l’eco che chiedeva una risposta? Essa era aurea e anguicrinita. Si muoveva nel campo salato, ingoiante, al storia e le rocce, le oscure anatomie, lo stesso mare ancorato. Infuriava nell’utero infecondo […]. Egli vide la reietta immagine disegnata con un piede d’incubo intinta nel veleno e incorniciata dal vento, impronta del pollice che lei affondò sulla mano come un’ombra palmata, interrogazione dell’eco […]. Una voce quella sera traversò la luce e le onde, una forma assunse i mutevoli umori, da dove la cantaride marina verde-oro tinge lo strascico del polpo una virulenza strisciò attraverso la spuma, e dai quattro angoli della mappa un cherubino nella forma di un’isola soffiò le nuvole verso il mare [1].
Per penetrare nella dizione lirica di Dylan Thomas è necessario sforzarsi di immaginare la vitrea porosità di un vuoto stillante il deserto crepitare di forme senza nome: un violento impeto alla contorsione, un grumoso serto di avvolgimenti ritmicamente astratti, giustapposti l’uno all’altro a formare l’ordinata trina lungo l’orlo di un delicato merletto, al cui centro però è giunto a depositarsi qualcosa di infestante, forse di diabolico. E ancora, si pensi allo schiudersi appena accennato di bocche consumate, nel cui soffocante sibilo è il contatto profondo con l’estrema squama di un silenzio figurato nelle viscide sinuosità di un serpente di cui sia invisibile il capo. Un infittirsi filamentoso di mani, dita, unghie che si strappano senza posa da un corpo comune, lanciate nel buio come gelide comete per cercare di afferrare, o anche solo accarezzare, le ultime propaggini dell’essere, ma al tempo stesso metamorfosate in fiori, i cui petali sono lembi di sudari sporchi, nere schegge di pianto, pagine lacere e frammenti di ossa.

È così che al nisus imaginativus [2] di Dylan Thomas non è possibile porre argine, sovrapporre vagli di codici, imporre disciplina interna. Per lui, evocare la cosa è produrla in una assediante scintillazione di corpi informi, figure dell’irrappresentabile e friabili corone di echi visionari, al cui immoto marasma di ramificazione semi-organiche è impossibile sottrarsi.
Out of a war of wits, when folly of wods
Was the world’s to me, and syllables
Fell hard as whips on an old wound,
My brain came crying into the fresh light,
Called for confessor but there was none
To purge after the wit’s fight,
And I was struck dumb by the sun.
Praise that my body be whole, I’ve limbs,
Not stumps, after the hour of battle,
For the body’s brittle and the skin’s white.
Praise thet only th wits are hurt after the wit’s fight [3].
Siamo dinanzi ad una eruzione graduale di nessi riposti, segreti, appena intravisti seppur tenaci o pressoché infrangibili per quanto inaspettati: non assicurati da alcun vincolo di somiglianza o manifesta inerenza reciproca, essi rispondono unicamente alle leggi ferree ed aberranti di una ghirlanda analogica perspicua solo alla voyance del poeta, che raccorda intreccia declina apparizioni di mondo secondo le linee spiraliformi di una siris infinita.

Fermiamoci pertanto un attimo alla immagine della spirale appena evocata: essa non va intesa qui come la regolare figura geometrica, ma piuttosto come il corpo di un aspide strettamente avvolto su se stesso, attraversato da un fremere sottile e continuo; tale aspide-spirale, al nostro minimo segno di avvicinamento prende a muoversi, scatta verso di noi, per rinserrarsi poi subito diventando un blocco compatto, un nero segno di minaccia e terrore posato accanto alle nostre mani, abbandonato davanti ai nostri passi, remoto e incombente. Ma sia che si svolga, sia che si rinserri, tale spirale va pensata anche come un rutilante interfoliarsi di fuochi immaginifici, nelle cui congestionate espressioni il reale è trasfigurato nelle risonanze emesse da una dolorante conchiglia verbale, nel cui incavo madreperlaceo l’odore stesso della salsedine da cui proviene colpisce il lettore con una sgargiante raffica di immagini: cupole e aironi, schiume ed albe, lingue in sfacelo e rintocchi di Angelus, nel cui sfocato allinearsi esso si fa crampo intrappolato dall’immortale grido della rugiada:
Night in the sockets round,
Like some pitch moon, the limit of the globes;
Day lights the bone;
Where no cold is, the skinning gales unpin
The winter’s robes;
The film of spring is hanging from the lids.

Light breaks on secret lots,
On tips of thought where thoughts smell in the rain;
When logics die,
The secret of the soil grows through the eye,
And blood jumps in the sun;
Above the waste allotments the dawn halts [4].
Il linguaggio di Dylan Thomas si fa carico di una inventività disperante e dilaniata, indomita, corposa e precipite, forgiata in un dinamismo plastico pari forse solo ad alcuni componimenti dell’ultimo Rimbaud. In lui l’abnorme e l’irrelato scandiscono diffusamente il plasmarsi multiplo di astrali architetture visionarie, nelle cui contratte calamitazioni a distanza viene ad essere trascritto un cifrarsi nebuloso di segni ed oggetti trasvalutati nei loro portati di senso.

Si prenda ad esempio la dimensione equorea, così ricorrente nella prima produzione del grande poeta gallese: essa ritorna sempre contrassegnata dalla icasticità della forza primordiale; essa chiama in causa e coordina per effrazioni reciproche tutte le contraddittorie sfaccettature che a quella appartengono, ma che raramente vengono esplicitate e “attivate” contestualmente. Lo scenario marino è sempre un paesaggio di palpitazioni primigenie — spesso molto affine alla spiaggia che attraversa e contempla Stephen Dedalus nel capitolo dell’Ulysses ispirato a Proteo [5] — in cui l’uomo non è ancora pienamente presente, ma solo alluso adombrato, e forse escluso, da un gioco di possibilità organiche che scorrono ardenti nelle vene della terra:
I dreamed my genesis in sweet of sleep, breaking
Through the rotating shell, strong
As motor muscle on the drill, driving
Through vision and the girdered nerve.

From limbs that had the measure of the worm, shuffled
Off from the creasing flesh, filed
Through all the irons in the grass, metal
of suns in the man melting night
[…]
I dreamed my genesis and died again, shrapnel
Rammed in the marcing heart, hole
In the stitched wound and clotted wind, muzzled
Death on the mouth that ate the gas.

Sharp in my second death I marked the hills, harvest
Of hemlock and the blades, rust
My blood upon the tempered dead, forcing
My second struggling from the grass [6].
Una circolazione febbrile e sottile di schegge e detriti — pastose recrudescenze dell’informe — si mette in moto, invadendo lo spazio della visione dalla fissità della luna alle ben irrorate membra di alberi e piante; ma in questa circolazione v’è sempre qualcosa che improvvisamente blocca, paralizza e arresta il corso delle cose, le trasforma oscuramente in sembianti d’altro, le allontana dal loro lucus generativo, elevandole su di un piano di significazione che ostruisce e impossibilita la scorrevolezza della vita naturale. Il pensiero e la parola dell’uomo dilagano con la foga corrosiva di una contaminazione inarrestabile. Ed è proprio in questo momento che nasce la poesia di Dylan Thomas: in essa tutto ciò che tenderebbe a cristallizzarsi in simbolo o testimonianza del passaggio deformante dell’uomo, viene delicatamente degradato a mera effervescenza simulacrale, deposito segnico stremato ed esautorato d’ogni rimando semantico, e quindi riassorbito un in intrico immemoriale di immagini pure assolute, le quali non smettono di inoltrarsi nella cavernosa sonnolenza di ciò che è anteriore all’umano: midolla schiumanti soffiate sul sole, squame di testuggini diventate linfe che percorrono arterie di cristalli, teschi covati dal mare e naufragi di tendini invischiati nelle cortecce dei giunchi. È così che la poesia diventa liturgia dell’alogico, chiamata a celebrare il cerchio bollente dei tempi in gestazione; e solo in tal senso è possibile parlare con cognizione di causa di imagery, intendendo quell’ancestrale afflato panico che, con nozione desunta da note pagine kantiane [7], potremmo definire anche Einbildungskraft, a designare quella intensa forma di eidetismo [8] che si nutre di immagini dialettiche calate in un processo di ecolalia differita del visibile. L’immagine è satura di una endogena tensione sussultoria; da essa uno screziato mulinare di frantumi irradia proiezioni di mondi destinati ad essere sopraffatti dal verminoso intrudersi dell’eternità nelle fibre tenui e cedevoli del tempo, vissuto qui come una ferita sacra da cui il passato stilli con la tremante pace di una nuvola. Anche per il gran gallese possono valere senza dubbio pertanto le splendide e pentranti analisi che Bonnefoy dedica alla poesia di Pierre-Albert Jourdan:
les mots, les quelques mots de la poésie [di Dylan Thomas] sont bien tournés, la plupart, vers l’au-delà de leur capacité ordinaire – celle qui s’en tient à l’idée qu’il dirait grise, à, l’image qui flambe faux à la sortie du sommeil – et autant qu’il le peut il cherche à dégager sa parole, maintenue au plus près d’une perception purement sensible […]. Son attention recherche la chose que sa notion n’a pas encore atténuée, la couleur ou l’odeur qu’aucun adjectif n’a compromises, l’évidence qui le dissuade de continuer de parler. D’où un rayonnement, dans ses pages, qu’il semble qu’on pourrait dire, sans chercher plus le recommencement, le retour de la réalité naturelle en son être propre, qu’un emlpoi comme silencieux des mots dégagerait d’une brume, découvrant des correspondences que nos langues savaient peut-être, mais que le concept a perdu [9].
La poesia di Dylan Thomas nasce da un folle rogo di visioni venute a librarsi davanti all’inquieta voyance del poeta attraverso una ottenebrante chiarità di nomi rescissi dalla inerzia delle cose. La parola non designa, non nomina, non significa: il linguaggio quindi non viene trasceso verso la decantazione pura di un metalinguaggio perfetto e trasparente a se stesso, ma s’abbassa verso una sfera transverbale in cui il significante è come portato ad annichilirsi, mettendo il concetto a diretto contatto con la bruciante superficie delle cose. La poesia sorge come il portato alchemico di questa combustione dell’immateriale nella corteccia fibrillante del sensibile, divenuto lingua in grado di proferire se stesso: esemplare in tal senso è una delle liriche più note del gran gallese Especially when the october wind, nel corso della quale una turbinosa trama isotopica di termini afferenti alla dimensione propriamente linguistica si innesta su una serie di presenze naturali che sembrano voler “alienare” la parola umana, sradicandola dalla sua essenziale ma anche frustrante appartenenza alla sfera di matrici semantiche codificate ed ossificate (syllabic blood, tower of the words, wordy shapes, the spider-tongued, the dark-vowelled birds [10]):
Especially when the october wind
With frosty fingers punishes my hair,
Caught by the crabbing sun I walk on fire
And cast a shadow crab upon the land,
By the sea’s side, hearing the noise of birds,
Hearing the raven cough in winter sticks,
My busy heart who shudders as she talks
Sheds the syllabic blood and drains her words

Shut, too, in a tower of words, I mark
On the horizon walking like the trees
The wordy shapes of women, and the rows
Of the stat-gestured children in the park.
Some let me make you of the vowelled beeches,
Some of the oaken voices, from the roots
Of many a thorny shire tell you notes,
Some let me make you of the water’s speeches [11].
La parola plurale della lirica attraversa e sonda questa finitudine, trascrivendone le riposte potenzialità semantiche in una ardita intelaiatura di armoniche mentali, nel cui concentrico ripercuotersi a latitudini infinite un trascolorante mosaico di folgorazioni colpisce la sensibilità stessa del poeta adulterandola nel luogo di una stordita turbolenza disseminativa dalla quale il segno e la cosa riemergono sempre coi segni reciprocamente scambiati. Da qui spire psichiche si distendono a forgiare nuovi paesaggi di simboli. Il vettore analogico adesso però non è diretto dal principio delle affinità formali tra gli elementi messi in gioco; piuttosto esso procede per contrasti e conflitti figurali, accoppiamenti di immagini remotissime declinate attraverso una allegorizzazione perpetuamente riverberata lungo direttrici di significanza aperte alle più controverse traversie dell’immaginario. È quindi un crudele sortilegio scompositivo quello che regge tutta la poetica del gran gallese. Se infatti il cosiddetto objective correlative di Eliot ha il compito precipuo di stabilire una linea di derivazione condizionante tra due dati solo apparentemente irrelati — noto è l’esempio dell’acqua e della terra per il cavolo, e dello stesso cavolo per le emozioni che esso inevitabilmente suscita, così che «the only way of expressing emotion in the form of art is by finding an “objective correlative”; in other words, a set of objects, a situation, a chain of events which shall be the formula of that particular emotion» [12] — in Dylan Thomas avviene qualcosa di assolutamente diverso: i campi associativi vengono schiacciati senza preavviso e senza mediazione l’uno sull’altro, in una coincidenza forzosa e implosiva, mediante la quale si trova ad essere espulso dalla poesia di Thomas tutto il pulviscolo emozionale che in Eliot garantiva la continuità tra le due figure nonché la legittimità del nesso, attivando invece una sorta di vertiginosa relazione circolare tra le immagini così che la commistione di umano e animale, di equoreo e celeste, di terragno ed aereo crea una dimensione fluida di trasmutazioni continue e inesorabili:
Fishermen of mermen
Creep and harp on the tide, sinking their charmed, bent pin
With bridebait of gold bread, I with a living skein,
Tongue and ear in the thread, angle the temple-bound
Curl-locked and animal cavepools of spells and bone,
Trace out a tentacle,
Nailed with an open eye, in the bowl of wounds and weed
To clasp my fury on ground
And clap its great bllod down;
Never shall beast be born to atlas the few seas
Or poise the day on a horn [13].
La parola poetica deve per forza di cose deragliare verso forme allotrope di sensibilità, le percezioni adulterarsi come se le terminazioni nervose dell’uomo fossero state innestate su di un reticolo cerebrale in cui vengono a inscriversi la vibratilità infinitesima della medusa, le oscillazioni di petali e stami, la fredda desertificazione dei mari lunari, le lente danze dei polpi. Dell’objective correlative di Eliot rimane solo la correlazione immensa, illimitata, puntiforme ed amorfa di tutto con tutto, in una sorta di panpsichismo che trasforma il respiro umano in una pioggia scintillante d’ali involate verso l’indaco del cielo racchiuso nella capsula lucente di un ranuncolo. Dylan Thomas mette in atto una sofisticata rabdomanzia figurale che arriva a liquefare la presenza del reale in una soffusa geminazione di immagini poste sempre in corrispondenza sulla base della loro costitutiva antinomicità, ma proprio per questo sottilmente attrattive l’una dell’altra: in questa ricca fluttuazione di segni riportati sempre al loro statuto di raffigurazioni concrete il linguaggio pulsa in lunghi squarci d’apparizioni sconnesse vorticanti attorno all’impreciso affiorare di poli analogici che attraversano tutta la lunghezza dei componimenti. Un sobbollimento impervio ma tenace si placa allora in un assestamento carico di conflittuali dinamiche interne, supremamente trattenute però dalle ferree soluzioni ritmico-prosodiche trovate dal gran gallese.

Si vedano ad esempio le liriche a rombo, scritte cioè in modo che dal vertice superiore al centro della figura un elemento grammaticale occupi sempre il verso secondo la lunghezza crescente dello spazio disponibile — da una sola parola ad una intera frase — così che il punto mediano della losanga diventa simultaneamente la zona di rovesciamento speculare di tutta la lirica, la quale, se nella disposizione dei versi inizia a decrescere, nel discorso lirico prende ad avviarsi verso una chiusa folgorante e perentoria, come accade in modo magistrale in The/ Born sea [14]. Si tratta di uno schema che trova il proprio contrappunto nei componimenti a clessidra, ove, capovolgendo lo schema dei precedenti — nei Collected poems del ’52 questi seguono immediatamente quelli a rombo — sono il primo e l’ultimo verso ad occupare la massima estensione, mentre il centro si contrae in un unica parola attorno alla quale far ruotare lo sviluppo di tutta la lirica, come avviene in That he let the dead lie though they moan [15], in cui Rock (Roccia) costituisce il momento di transizione dalla prima metà della lirica – dedicata alla descrizione della condizione dei morti evocati nel primo verso— alla seconda, in cui si accavallano immagini di movimento e caduta, in parte a contestare, in parte a rafforzare quelle immediatamente precedenti, quasi a voler comprimere nelle sorvegliate e contrattili architetture del verso la misura aurea della divina sproporzione tra la cosa e il segno, l’idea e il linguaggio, il concetto e l’immagine.

I segni verbali qui diventano emblemi condotti perversamente al loro stato più intenso di crisi, diffrazione e dissolvimento, fino ad assumere il ruolo di controfigure della coscienza, dell’io lirico che non unifica, non accentra, non circonda le cose comprimendole nelle fredde regioni del dicibile ma, simile alla vibrazione di un oggetto dimenticato, si apre ad una eccentricità predicativa il cui incontenibile éclat assorbe ogni stato dell’immaginario. Probabilmente nessuno ha delineato con maggior acume critico di Piero Bigongiari — in saggio del ’69 dedicato a Yves Bonnefoy — questo metodo, che porta l’io a confondersi con un indifferenziato elementare, da cui eruzioni di simboli in decomposizione si susseguono col ritmo alterno di una distruzione creatrice:
[siamo di fronte a] una totale designificazione della figura che in tale processo riduttivo dei segni verso il significato attinge i suoi culmini metamorfici, cioè appunto il processo induttivo del significato verso tutti i significabili compresi in quel sistema segnico messo in atto dalla finitudine dell’immagine [16].
La finitudine dell’immagine, esibita nelle disarticolanti sinossi figurali di sistemi segnici ormai sprovvisti di uno statuto linguistico dominante, non trascrive e non traduce più nulla; piuttoto essa diventa una ferita in seno alla quale gli oggetti stessi si contraddicono e contraddicono la loro irrecuperabile e altrimenti impronunciabile oggettività; tramite essa fisionomie al tempo stesso astrali e telluriche fiottano nei precordi stessi della materia, fattasi turbinoso specchio nel cui diffuso punto cieco è possibile cogliere il puro tremore di immagini che diventano visione:
I, in my intricate image, stride on two levels,
Forged in man’s minerals, the brassy orator
Laying my ghost in metal,
The scales of this twin world tread on the double
[...]
Image of images, my metal phantom
Forcing forth through the harebell,
My man of leaves and the bronze root, mortal, unmortal,
I, in my fusion of rose an male motion,
Create this twin miracle [17].

[1] D. Thomas, Poesie e racconti, a cura di A. Marianni, Einaudi, Torino, 1996, p. 574-575.
[2] Con questa formula ci riferiamo qui a G. Steiner, Grammatiche della creazione, Garzanti, Milano, 2003, soprattutto pp. 243-258.
[3] D. Thomas, cit., p. 394. Uscendo da una guerra di acutezze,/ Quando la follia delle parole/ Era per me quella del mondo, e le sillabe/ Si abbattevano come staffili su una vecchia ferita,/ Il mio cervello entrò urlando dentro la fresca luce,/ Chiamai un confessore ma non c’era/ Che mi assolvesse dopo quella lotta,/ E fui ammutito dal sole./ Sia lode al cielo che il mio corpo è integro./ Ho membra, non moncherini, dopo quella battaglia,/ Perché fragile è il corpo e bianca è la pelle;/ Lode al cielo che solo il senno è ferito/ Dopo una guerra d’arguzie.
[4] Ivi, pp. 26-28. La luce nelle orbite contorna,/ Luna di pece, il limite dei globi;/ Il giorno illumina l’osso;/ Dove non fa mai freddo, la raffica che spella/ Slaccia le vesti dell’inverno;/ La membrana primaverile dalle palpebre pende.// La luce appare su segreti appezzamenti,/ Sugli scarti del pensiero dove i pensieri esalano alla pioggia;/ Quando le logiche muoiono,/ Il segreto del suolo cresce attraverso l’occhio/ E il sangue balza nel sole;/ Sopra i terreni esausti l’alba arresta il suo corso.
[5] J. Joyce, Ulisse, ed. It. a cura di G. De Angelis, Mondadori, Milano, 1999, pp. 38-53.
[6] D. Thomas, cit., p. 30. Sognai la mia genesi nel sudore del sonno, rompendo/ Il guscio rotante, potente come il muscolo/ D’un motore sul trapano, inoltrandomi/ nella visione e nel nervo travato.// Da membra fatte a misura del verme, sbarazzato/ Dalla carne grinzosa, limato/ Da tutti i ferri dell’erba, metallo/ Di soli nella notte che gli uomini fonde [...].// Sognai la mia genesi e di nuovo morii, shrapnel/ Conficcato nel cuore in marcia, strappo/ Nella ferita ricucita e vento coagulato, morte/ Con museruola sulla bocca che ingoiò gas.// Scaltrito nella mia seconda morte contrassegnai le alture,/ Messe di lame e di cicuta, ruggine/ Il mio sangue sui morti temprati, forzando/ La mia seconda lotta per strapparmi dall’erba.
[7] I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, ed. It. a cura di A. Gargiulo e P. D’angelo, Laterza, Roma, 2005, soprattutto la Nota prima riferita alla soluzione dell’antinomia del gusto, in cui si affronta il problema dell’idea estetica come inexponible Vosrtellung, pp. 365-378.
[8] G. Celati, Finzioni occidentali, Einaudi, Torino, 1975, p. 199.
[9] Y. Bonnefoy, La Vérité de parole, Gallimard, Paris, 1988, p. 312. In effetti tutto il saggio può benissimo essere letto come una riflessione perfettamente aderente alla poetica di Dylan Thomas, a cominciare dal titolo che evoca in un allineamento significativamente paratattico e asindetico i quattro dati portantia attorno a cui orbita tutta la sua lirica: les mots, les noms, la nature, la terre, cfr. pp. 311-323.
[10] D. Thomas, cit., pp 22-24.
[11] Ivi, p. 23. Specialmente se il vento d’ottobre/ Con dita gelate punisce i miei capelli,/Artigliato dal sole cammino sulle fiamme/E getto un granchio d’ombra sulla terra,/ In riva al mare, udendo il chiasso degli uccelli/ Il cuore indaffarato che trema se lei parla/ Sparge sangue sillabico, drena le sue parole.// Rinchiuso in una torre di parole,/ Traccio sull’orizzonte che cammina con gli alberi/ Verbali forme di donne e le file/ Dei bimbi nel parco che hanno gesti di stella./ Fatemi farvene alcune con vocali di faggi,/ Alcune con voci di quercia, dirvi note/ Dalle radici di molte spinose contee./ Fatemi farvene alcune con discorsi dell’acqua.
[12] Th. S. Eliot, The sacred wood, essays on poetry and criticism, Barnes & Noble, NY, 1966, p. 34.
[13] D. Thomas, cit., p. 100-102, I pescatori di tritoni strisciano e arpeggiano/ Sulla marea, tuffando il loro magico spillo ricurvo/ Innescato con aurea mollica; io con una viva matassa,/ Lingua e orecchio nel filo, pesco nel pozzo/ Dell’animale caverna d’incantesimi e d’osso fasciata/ Chiusa da riccioli e tempie,/ Scopro un tentacolo, afferrato/ Con l’occhio aperto, nella scodella di piaghe ed erbacce/ Per stringere al suolo la mia furia/ E abbattere il suo nobile sangue./ Mai bestia nascerà a segnar nell’atlante i pochi mari/ O a soppesare il giorno sopra un corno.
[14] Ivi, p. 194.
[15] Ivi, p. 200.
[16] P. Bigongiari, La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli, Milano, 1972, p. 287.
[17] D. Thomas, cit., p. 34. Io, nella mia immagine intricata, avanzo su due piani,/ Forgiato con minerali d’uomo, oratore d’ottone,/ Depongo il mio spettro nel metallo,/ Mi bilancio sui due piatti di questo mondo gemino.[...]// Immagine di immagini, mio fantasma di metallo/ Che urge attraverso il convolvolo,/ Mio uomo di foglie e di radice di bronzo, mortale, immortale,/ Io, fusione di rosa e maschio impeto,/ Creo questo miracolo gemello.



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