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Robbe-Grillet: come il congegno disfatto di un orologio
di Giuseppe Crivella

Dicembre 2014

Con le seguenti parole si chiude Les gommes, seconda prova romanzesca [1] di Alain Robbe-Grillet e opera pilota del cosiddetto Nouveau Roman, pubblicato nel 1953:
dans l’eau trouble de l’aquarium des ombres passent. Le patron est immobile à son poste. Son buste massif s’appuie sur les deux bras tendus, largement écartées; les mains s’accrochent au rebord du comptoir; la tête penche, presque menaçante, la bouche un peu tordue, le regard vide. Autour de lui les spectres familers dansent la valse, comme des phalènes qui se cognent en ronde contre un abaj-jour, comme de la poussière dans le soleil, comme les petits bateaux perdus sur la mer, qui bercent au gré de la houle leur cargaison fragile, les vieux tonneaux, les poissons morts, les poulies et les cordages, les bouées, le pain rassis, les couteaux et les hommes. [2]
Sono parole che puntano a comporre l’immagine di una decantazione lenta, quasi un sonnambolico deporsi del reale nel torpido rollio di riflessi i quali, nel loro flebile sommuoversi, già finiscono col cancellare qualche aspetto saliente di ciò che per un attimo vi era apparso, ignoto e banale, privo di durata ma insistente, annegato nella fatua concretezza di superfici che, in seno alla loro spenta desolazione, sembrano aver riassorbito ogni ipotesi di profondità.

È anche però un’immagine-matrice: da essa si liberano gli scatti intrusivi e verticali di una visione che evacua il pensiero, estromette dalla osservazione i tempi lunghi della riflessione, distorce, disinnesca, dissocia e diffrange la stabilità della contemplazione, appiattendola unicamente sulla impaginazione ottica del mondo emendato non tanto di ogni consistenza, ma piuttosto di una sua specifica ponderabilità meditativo-cognitiva. Tra il reale e il pensiero l’occhio s’insinua come un iperbolico tramite di captazioni ellittiche stratificate negli strappi imponderabili seppur palmari di un aporetico apparire; aporetico ed impuro, contratto nelle traversie eversive di un visibile bleso e attratto in una comatosa silloge di indeducibili — forse anche indecidibili — nessi tra atti e intenzioni, effetti e moventi, determinazioni e gesti che sabotano la macchinosa chirurgia ricostruttiva del pensiero rendendola piuttosto un disegno — freudianamente, quasi un’analisi — interminabile e lacunosa, una ricerca, oramai cancerogena, del centro connettivo di tutto fattosi però a questo punto strangolato sguardo incuneato nel negarsi perentorio delle cose per eccesso di presenza.

Ma che cos’è la presenza qui? Presuntiva, gommée, cedevole, essa è un volto di cera che s’eclissa al solo sfiorarlo, poroso specchio nel quale gli spezzati spessori della scrittura calano per uscirne definitivamente devastati dalla solida elusività di uno spettrale limbo oltre il quale il linguaggio stesso si fa corpo in poltiglia, mobile museo di disfacimenti nella cui pulverulenta spoglia qualcosa di perduto per sempre ancora sembra tendersi verso la raffigurazione, in una nera ressa di segni isolanti che corrugano l’incrinato schermo dello sguardo.

In Robbe-Grillet la narrazione instaura una coincidenza infesta e infernale tra parola e cosa, superficie e sguardo. Uno scambio convulso ma sottile, quasi insensibile, tra oggetto e occhio è ciò che egli persegue; in tal modo noi vediamo il soggetto ritrarsi in una muta pausa di registrazione, durante la quale il mondo si deposita dinanzi ad esso come la desolata totalità di una inerzia materiale prima e mentale poi, destinata a crollare costantemente sotto il peso catastale della propria contratta superfluità, anonima e oggettiva, ostinata e silenziosa, minerale ed immota. Eppure, all’interno di tale Théâtre de Métamorphoses — per citare almeno un altro grande protagonista del Nouveau Roman, Jean Ricardou —, ad essere labirintico non è il reale, ma il soggetto, così che in Robbe-Grillet il passo disorientato e le endogene forze di smarrimento custodite nelle cose arrivano sinistramente a combaciare, deflagrando nello straziato attrarsi e sovrapporsi, per analogie degeneri, in spaccati narrativi che ogni volta da capo riprendono le situazioni ritratte alterandone dall’interno i tratti di riconoscibilità.

Si prenda ad esempio Wallas, ectoplasmico protagonista di Les gommes: non solo la sua indagine, ma la sua stessa identità, fin dall’inizio, ovvero dal primo incontro con l’insidioso e ambiguo Laurent, si tramuta in un capogiro vanamente interrogante, in una ricerca cieca che riesce a guadagnare solo progressivi e corrosivi margini di oscurità, in un accerchiamento ottenebrante di coordinate sempre riferibili a più ordini di lettura i quali, incardinandosi l’uno all’altro secondo un asse verticale che li mette tutti in rotazione continua, facendoli ora collimare ora collidere, scardina la loro coerenza orizzontale, sintattica. In tal modo nei romanzi di Robbe-Grillet non siamo mai messi di fronte allo svolgersi — o, al massimo, all’involversi — di una linea diegetica, ma piuttosto a ciò che con Raymond Bellour potremmo chiamare arbre narratif, [3] ad intendere cioè una narrazione incessante e blandamente regolata da protocolli interni di sviluppo dei filamenti diegetici i quali, pur propagandosi da un unico tronco di eventi, finiscono con lo sfibrarlo, rendendo tale nucleo iniziale una sorta di origine parentetica ampiamente sostituibile e rivedibile, se non proprio decisamente removibile, in quanto soggetta a distrofie cronologiche talmente fitte e ricorrenti da tramutare l’ormai logoro istituto della narrazione in una formidabile variazione sul nulla.

Il romanzo à la Robbe-Grillet è allora un coacervo di eventi atopici: in esso ciò che viene a mancare da subito è la stabilità di un piano di esposizione su cui disporre più o meno ordinatamente la catena dei fatti, i gesti delle figure, i nomi delle cose, la successione degli episodi, la relazione tra i luoghi. Ma perché ciò accade? Perché Robbe-Grillet affronta la materia romanzesca scorciandola secondo ciò che potremmo definire precisi e drastici “tagli tropologici”: in sostanza egli tratta paesaggi e ambienti, tempi e situazioni come fossero simboli instabili, matrici fluide d’una significazione aperta, polimorfa, capricciosa, proiezioni e irradiazioni multipolari di un dato brutalmente mondano, finito, terreno e, proprio per questo, privo di una definibilità acclarata.

Non siamo di fronte a tracce o indizi, ma piuttosto dinanzi a figurae di un’absentia assolutamente irriducibile nel suo trasparente esondare oltre ciò che la designa come tale, seppur, al tempo stesso, chirurgicamente inquadrata dalle estenuate pause descrittive, nel cuore delle quali essa si colloca ora come uno sfondo slittante, ora come una reticolare linea di fuga la quale, pur inanellando lungo il suo sviluppo tutti i vari episodi secondo la coordinata della similarità, invece di condurre fuori dalla rappresentazione piomba senza preavviso in un punto interno a questa, celato in un’intercapedine dell’evidenza che, nel momento stesso in cui si mostra, occlude allo sguardo tutta una porzione del visibile ritratto facendo sì che questo esploda in scalene incrinature ottiche ove visione e abbaglio finiscono con l’intrudersi l’una nell’altro.

Ma nello specifico che cosa dobbiamo intendere con l’espressione figurae dell’absentia. Absentia di cosa? La domanda, appena posta, incontra subito un ostacolo: l’absentia qui è un valore assoluto e irriducibile, non rimanda a nulla perché essa è tutto: la vacatio, per sommo paradosso, occupa ogni spazio, intride e satura di sé tutti gli angoli del reale. La figura è tropologicamente reattiva non perché nel suo complesso gioco di rimandi debba esprimere l’assenza di qualcosa di specifico, ma perché nel suo costante eludere i raccordi che potrebbero bloccarla, essa deve mimare il luogo e l’atto stesso di una assenza in sé, ovvero di una absentia in re e non di una semplice absentia rerum.

Attraverso l’astratto intarsio di frantumi e muchi emessi da un reale indocile e mendace in cumuli contrattili di percezione e memoria zampillanti freneticamente apparenze affette da qualche indefinibile distorsione, nel romanzo di Robbe-Grillet ricordo e dissolvenza stringono una malata complicità che porta all’azzeramento reciso e irreversibile di ogni coefficiente psichico all’interno del (dis)farsi narrativo.

Potremmo allora dire che gli husserliani atti di coscienza, ovvero tutto il fascio di ingenti e strutturanti irradiazioni intenzionali, qui brillano appena sull’annodato torpore delle cose come una soffocata opalescenza, quasi una sorta di estrema e vacua accensione del reale venuto a illuminarsi soltanto per una impersonale autoscopia, in forza della quale il vitreo occhio di nessuno improvviso spalanca il proprio ottuso lucore di sguardo dal cuore stesso dell’inerte, tramando, torpido e tenace, una intricatissima ragnatela di osservazioni tutte poste rasoterra allo spaesato oggettivarsi di un mondo tramontato in una demente invadenza di immagini slegate.

Ecco allora un’altra delle caratteristiche salienti della poetica di Robbe-Grillet: nelle sue opere, romanzesche e cinematografiche, le immagini sono visceralmente percorse da un continuo tremito vegetale che le porta oscuramente ad accavallarsi, ad incrociarsi e sovrapporsi, ma anche a scoppiare le une nelle altre, come per una travagliata germinazione scissipara che assesta non pochi contraccolpi alla centralità testimoniale del narratore. E dunque, se per molta narrativa la domanda portante è “chi vede i fatti riportati?”, qui la questione si fa più radicale diventando: “che cosa vede chi sta guardando (e narrando)?”. Lo spostamento del problema permette così di annichilire risolutamente la persona loquens.

Proprio per questa serie di motivi Wallas fattualmente per tutto lo svolgimento della vicenda non agisce mai. Egli, sfocatissimo portavoce del narratore, viene utilizzato unicamente come un mobilissimo e discontinuo catalizzatore di eventi intorno al quale creare un campo di attrazione ove far convergere fattori, elementi e linee di forza, il censimento dei quali tuttavia non consente in alcun modo di portare alla luce l’architettura effettiva della trama: ecco allora che fin dalle prime battute il corpo dell’assassinato misteriosamente scompare per non riapparire più, i suoi cognomi raddoppiano simmetricamente al raddoppiarsi delle pistole che avrebbero potuto sparargli — una della quali appartiene addirittura a Wallas —, si moltiplicano i moventi validi dell’omicidio così come aumentano sempre di più le persone vagamente informate su di esso, in una farsesca e caotica farandola di congetture le quali, sempre più numerose — e proprio per questo reciprocamente escludentisi —, finiscono con l’offuscare, negare, cancellare completamente l’intermittente realtà del fatto:
Wallas ne sait plus d’où lui revient cette image. Il parle – tantôt au milieu de la place – tantôt sur des marches, de très longues marches – à des personnage qu’il n’arrive pas à séparer les uns des autres, mais qui étaient à l’origine nettement caractérisés et distincts. Lui-même a un rôle précis, probablement de premier plan, officiel peut-être. Le souvenir devient brusquement très aigu; pendant une fraction de seconde, toute la scène prend une densité extraordinaire. Mais quelle scène? [4]
Romanzo tumultuosamente incoativo Les gommes, romanzo che piétine sur place, a fronte dei molteplici spostamenti di Wallas, strutturato attorno ad uno sfigurato mimetismo descrittivo: l’oggetto riprodotto dalla scrittura è a sua volta già incassato all’interno di una narrazione e dunque viene ad essere il portato di una immagine seconda. Il romanzo nasce elevando il proprio realismo alla seconda; la narrazione si svolge – ma sarebbe più corretto dire si avvolge – lungo nuclei di eventi che a loro volta risultano ripresi da frammenti di un récit il quale sembra aver già preso risolutamente le distanze dal reale. Si tratta dunque di un realismo inguainato nel circolare isolamento di un linguaggio senza contatto con ciò che designa, separato da questo attraverso un fragilissimo gioco di maschere, o meglio, attraverso un’ossessione inesorabile di travestimenti ed equivoci, sdoppiamenti e discronie che disordinano l’opera, lasciando che in essa si aprano, all’altezza dei punti di sutura tra gli avvenimenti, i sottili lampeggiamenti di una lacuna la quale associa per effrazione e divarica così la parola dalla cosa.

Il linguaggio in Robbe-Grillet contorna la zona di emersione da cui l’oggetto stenta ad apparire; al suo posto sopravviene una profusione slegata di immagini nella cui delicata e ardente irruzione è contenuta una riserva verticale di sensi tanto più rigorosamente irreggimentati nella linea narrativa, quanto più refrattari a situarsi in essa al fine di darle una fisionomia coerente. Ritorni e ripetizioni si fanno eco circondando un linguaggio che racconta la propria distruzione perseguita mediante il suo compattarsi in una dura corteccia di vicende che avviluppano e strangolano la cedevole polpa del reale. E tuttavia
cet univers brut est plus complexe qu’on ne pense. Tout élémentaire qu’elle soit, l’intervention du voyeur transforme le monde solide des choses en un monde évanéscent de la pensée. Travail disproportionné de l’esprit affronté à des difficultés imaginaires, ou tout au contraire impuissant à concevoir une réalité qui dépasse ses facultés d’absorption. Surplaces de la pensée ressassante. Éclairs d’idées aussitôt disparues et dont la trace elle-même s’efface bientôt. Pour les héros de Robbe-Grillet […], d’une façon particulièrement fruste, le spectacle est souvent à l’intérieur sans que l’intéressé prenne garde ni que l’auteur nous previenne de cette brusque prééminence des images inconsistentes du passé (ou de l’imagination) sur celles tangibles du présent (ou de la réalité). [5]
Esiste quindi nei romanzi di Robbe-Grillet uno strabismo ingenito della parola: questa infatti scatena uno sdoppiamento in cui essa stessi viene a perdersi, naufraga, o piuttosto vi si riassorbe in una nascita ininterrotta di segni, splendenti e nascosti, visibili o occulti, [6] a partire dai quali ogni scena diventa insensibilmente il decrepito teatro di una azione che nel proprio farsi crea i presupposti materiali dell’evento passato da cui essa discende. Si prenda ancora una volta Les gommes: qui tutto è retto dall’aspra certezza — propria di Wallas ma, alla fine del romanzo, anche nostra — che ogni fatto sia irreversibile e reiterabile; la morte di X è avvenuta senza dubbio, ma nonostante ciò essa continua ad accadere, a ripetersi di quadro in quadro, tramite però il ricorso a configurazioni di elementi e concause che variano chiamando in causa un poligono aperto di personaggi dalle identità ironicamente ridondanti. Se proviamo a guardare il centro di questo romanzo non troviamo altro che un’immagine perfettamente sfocata, una sorta di schermo forato, uno specchio inspiegabilmente cieco su cui sia stato steso uno strato di vernice bianca. È stata senza dubbio Yvonne Guers la prima a cogliere questo aspetto saliente della narrativa di Robbe-Grillet:
l’exactitude descriptive de l’auteur ne serait-elle que fausse clarté? Or ces choses compactes, solides, précisément décrites, en établissant un contraste frappant avec une signification fuyante, créent justement l’atmosphère kafkaesque et ambiguë qu’une telle technique voudrait transmettre. Dans Les Gommes le héros-détective voit dans une vitrine un mannequin représentant un peintre devant un tableau. Un paysage grec est peint sur la toile alors que a sous les yeux un carrefour dans une ville du vingtième siècle. Le contraste ainsi établi entre la réalité ambiante et la réalité imaginaire a pour effet «une réalité d’autant plus frappante qu’elle est la négation du dessin censé la reproduire». [7]
Il fatto che regge tutta la vicenda brilla d’oscurità: abbiamo il sospetto di due morti, ma un solo nome. L’intricata intelaiatura di passaggi e contatti tra questi dati di partenza svia non solo Wallas, ma anche gli uomini di Bona, tra cui l’assassino, il quale, subito dopo il delitto, si rende conto che potrebbe aver sparato all’uomo sbagliato, se non addirittura ad un cadavere. La realtà, ci dice Robbe-Grillet, è ineluttabile: c’è stato un omicidio; tuttavia essa è anche insidiosamente contorta: moventi e spiegazioni arrivano in seconda battuta attorno alle cose e le circondano come un corte flebile ma tenace. Wallas si trova a cercare le cause di un fatto inspiegabile anche per chi l’ha provocato. Le sue indagini quindi cercano di inquadrare in un disegno omogeneo brani di realtà che solo accidentalmente si trovano interconnessi secondo una linea di realizzazione unitaria.

Crescendo attorno al darsi in contumacia delle cose, il linguaggio di Robbe-Grillet finisce col non trovare più un punto che sia esterno ad esso, al suo spazio di distribuzione e strutturazione. Ma non è soltanto un processo di divaricazione crescente quello che si compie tra la parola e la cosa: come già notato sopra, la seconda si annulla, e nel suo annullarsi produce una nuova dimensione di designazione vuota, in cui il linguaggio irrompe producendo una sorta di controfigura verbale della cosa. La biforcazione tra le due si rovescia in un bifrontismo speculare della parola rispetto a se stessa.

Si prendano ancora una volta a titolo d’esempio le allucinate deambulazioni di Wallas, le quali sembrano tutte orientate la reperimento di una traccia definitiva e inconfutabile in grado di spiegare senza residui tutti gli altri indizi inventariati. In realtà la sua ricostruzione non ha un centro e non avendo un centro non riesce a stabilire livelli e gradi di dipendenza tra gli elementi reperiti; il quadro generale che egli appronta è sempre soggetto a continui seppur minimali riassestamenti interni che finiscono con lo smontarlo. L’asciutto realismo di Robbe-Grillet è tale perché da esso è stato espunta completamente l’idea di un soggetto coordinante; il disegno esplicativo che Wallas schizza con grande fatica eredita la stessa fisionomia di insanabile discontinuità dalla condizione di minuta frammentazione e dispersione in cui versa il reale, in cui egli si muove come galleggiandovi.

Osserviamo ancora una volta: è un solitario senza volto, non ha psicologia, non emerge con tratti caratteriali marcati. In egual modo egli non possiede elementi per identificare né il responsabile dell’omicidio né la vittima; nello stessa maniera tutti coloro che ruotano attorno alla sua figura continuano ad ignorarlo o comunque a non riconoscerlo. Ciò comporta che la medesima sequenza possa ripetersi sempre, pur esibendo di volta in volta connotati variati. Osserva a tal proposito Alain-Michel Boyer:
énigme du destin et de l’identité de l’homme, pion ou jeton poussé au gré des joueurs, être aveugle dans un univers indéchiffrable: le roman s’achève sur une question qui est peut-être absence de question dans les yeux vides, le visage énigmatique et figé du patron du café Sphynx, Sphynx éternelle, ici pur pouvoir d’interroger, sans nul souci de réponse. À l’énigme proprement policière, se substitue celle que pose l’existence même de l’homme, en proie à l’énigme du monde. Interpréter, dèchiffrer ne suffit plus, il faut exorciser les signes. Alors que le détective cherche à élucider une énigme, le lecteur, en quête d’un sens, ne découvre qu’un récit, qui se révèle peut-être ce sens et cette énigme. [8]
Robbe-Grillet sembra aver risolto il problema kafkiano della durata indefinita della trama ricorrendo a una soluzione molto diversa ma sostanzialmente complementare a quella dello scrittore praghese. Anche in Les gommes la vicenda si protrae interminabilmente, ma non secondo le dinamiche di quel labirinto lineare precisamente fratturato in segmenti sempre più brevi a cui fa riferimento Deleuze — citando Borges [9] —, optando piuttosto qui per uno sviluppo sinistramente spiraliforme. Nel suo avvitarsi attorno ad un punto cieco che non smette di mutare aspetto, però la spirale si muove, scivola altrove rispetto al suo luogo d’origine, si deforma ed esplode lasciando al suo posto uno sfibrato groviglio di punti irrelati, sfocati residui di un punto-zero contrattosi fino alla sparizione.

Il romanzo assume globalmente la figura di uno spazio densamente astratto non perché esso non abbia una ossatura definita, ma piuttosto proprio perché in esso il nitore con cui è delineata la struttura dedalicamente ricorsiva e l’icasticità alienante tramite la quale si profilano personaggi, ambienti, situazioni, dialoghi, fanno in modo che sempre nuovi elementi possano svincolarsi dal complesso generando narrazioni accessorie, protocollari, parallele. Non è la vaghezza dei dati a rendere la vicenda sfumata, è la loro esasperata esattezza notazionale a trasformare la trama in un disegno disarticolato di attuazioni diegetiche equivalenti e coesistenti in un sistema di integrazioni reciproche la quale rende la narrazione satura di informazioni indecidibili.

Per Robbe-Grillet non sarà allora scorretto parlare di ibrida ma pura fenomenalità delle cose: ibrida, perché in lui tutto ciò che appare si situa in un punto di fusione tra la realtà e l’immaginazione, il sogno e il delirio. Frantumi di un mondo oggettivo si intrudono nella grumosa pasta informe di una visione sconfinante sempre in una massa allucinogena multiforme. Pura, in quanto la fenomenalità del suo mondo, proprio in forza della sua matrice di molteplice ibridazione, non rimanda a nulla di diverso da essa, a nulla di concreto al di là di ciò che si manifesta con la dura ostinazione di un miraggio, il quale non svanisce neppure dopo che se n’è accertata la natura illusoria.

Forse solo in questo senso va interpretato lo scarto lessicale di Yvonne Guers, la quale, allontanandosi da Roland Barthes che aveva parlato di littérature objective, [10] preferisce usare l’aggettivo objectal, [11] ad indicare la perfetta e paradossale fisionomia di un mondo narrativo che tanto più si compone di oggetti che evacuano ogni componente umana, quanto più tali oggetti si stagliano in un noeud d’agencements intentionnels che finiscono con il riammettere quella componente, sebbene declinata secondo degli stati aberranti. [12] Inoltre, se è vero che l’esasperata clarté dei dati ripetutamente offerti fa ruotare senza sosta la storia su se stessa, è anche vero che le deliberate sovrapposizioni tra un l’impianto extradiegetico a focalizzazione interna (prospettiva di Wallas) e a focalizzazione zero [13] (narratore pseudo-onnisciente) permettono di spiegare in pieno il reticolare disarcionamento conoscitivo di cui siamo vittima. Ciò accade perché questionnant et conjectural [14] è il mondo stesso per Robbe-Grillet, scandito da quell’anaphorique léger qui à la fois désigne et se tait. [15] È Roland Barthes a servirsi di questa formula; poco oltre egli mette in luce il dispositivo stilistico a doppio regime che innerva tutta la scrittura di Robbe-Grillet: da una parte domina una marcata inspiration chosiste, [16] la quale lascia campeggiare al centro della sosta descrittiva la cosa attorniata da un freddo alone di insignificanza; dall’altra parte troviamo un utilizzo spiazzante del visuel, [17] intendendo con ciò la tendenza a lavorare unicamente per temps litotiques, [18] mediante cui il mondo è condotto a squadernarsi dinanzi a noi come un artefatto intrico geometrico, in seno al quale il linguaggio si degrada in una compagine inerte di nomi e nei cui complessi riverberi l’appareil descriptif di Robbe-Grillet si scopre mystificateur.

Più o meno negli stessi anni in cui Barthes sviluppava queste tesi, Maurice Blanchot dedicava un suo scritto a Le voyeur, poi raccolto nel 1959 in Le livre à venir col titolo di La clarté romanesque. Si tratta di un testo forse troppo trascurato dalla saggistica successiva, nel quale l’autore individua due connotati salienti strettamente interconnessi: l’esistenza di un’ immagine centrale e la presenza di uno sguardo dalla felpata immobilità. [19]

Il primo connotato s’offre secondo i procedimenti di una descrizione — come già visto poco più sopra — senza ombre, investita di una chiarezza illimitata seppur sempre solo parziale, nel cui seno tutto finisce col farsi misteriosa e compatta visibilità. Tuttavia, anche se l’immagine centrale sembra occupare perfettamente il punto di fuga dello spazio narrativo e psichico dei romanzi, in realtà essa ha qui il valore di un dato oscuro, da cui è possibile vedere non tanto ciò che questa mostra, quanto piuttosto il fatto che ciò che la sua surface rayonnante illumina non è altro che la controparte d’apparenza ingannevole di un mondo al quale non è dato accesso. L’immagine è centrale non rispetto ad altre immagini o ad altre sequenze narrative, ma unicamente rispetto ai diagrammi di ricostruzione e dénouement che di volta in volta i personaggi mettono in campo (e con loro il lettore). L’immagine centrale costituisce quel piano di raffigurazione grazie al quale la scena può avere luogo. In realtà noi non vediamo mai quella immagine, ma piuttosto osserviamo attraverso di essa ciò che questa rivela a partire dal suo ineliminabile remous avuegle:
la scène à laquelle nous n’assistons pas, n’est rien d’autre qu’une image centrale qui se construit peu à peu par une superposition subtile de détails, de figures, de souvenirs, par la métamorphose et l’inflechissement insensible du dessin ou d’un schème autour duquel tout ce que voit le voyageur [Blanchot sta parlando de Le voyeur] s’organise et s’anime. [20]
Ma suddetta immagine — foyer vivant [21] di uno spazio irriducibilmente en abîme rispetto al suo volume di strutturazione — sarebbe mutila e inutile senza l’altra caratteristica, ovvero lo sguardo immobile. In Robbe-Grillet questo sguardo veicola tutto il taglio della narrazione, essendo preposto a ricevere e riprodurre le vicende che gli si dipanano dinanzi. Tale riproduzione però avviene in modo completamente arbitrario, discontinuo, imponderabile. L’occhio infatti sembra non far altro che aprirsi e chiudersi di fronte alla scena, non trattenendone che particole dissociate e periferiche, zone indistinte, aspetti costanti seppur riportati come in una sovrimpressione di sezioni temporali diverse, chiamate a fondendosi in quel «molteplice indecidibile dell’evento», [22] di cui la letteratura è al tempo stesso effige e ombra, e dove appare come le vide en quoi tout se fait transparence. [23]


[1] Il suo primo romanzo fu pubblicato nel 1949 e si intitolava Un régicide.
[2] A. Robbe-Grillet, Les gommes, Ed. de Minuit, Paris 1953, p. 264. Nell’acqua torbida dell’acquario passano delle ombre. Il proprietario è immobile al suo posto. Il suo busto massiccio s’appoggia sulle due braccia tese, molto divaricate; le mani s’aggrappano ai bordi del bancone; la testa penzola, quasi minacciosa, la bocca un po’ contorta, lo sguardo vacuo. Attorno a lui degli spettri familiari danzano il valzer, come falene che sbattano in circolo contro un’abat-jour, come polvere nel sole, come le piccole imbarcazioni perdute sul mare, che cullano a seconda del moto ondoso il loro carico fragile, le loro vecchie botti, i pesci morti, pulegge e cordami, le boe, il pane raffermo, i coltelli e gli uomini. [Traduzione mia].
[3] R. Bellour, Entre-images 2: mots, images, POL, Paris 1999, p. 228.
[4] Les gommes, p. 238. Wallas non sa più da dove gli provenga questa immagine. Egli parla – ora al centro della piazza, ora su degli scalini, scalini molto larghi – a personaggi che non riesce a separare gli uni dagli altri, ma che erano in origine nettamente caratterizzati e distinti. Egli stesso ha un ruolo preciso, probabilmente di primo piano, ufficiale forse. Il ricordo diventa bruscamente molto acuto; in una frazione di secondo tutta la scena raggiunge una densità straordinaria. Ma quale scena? [Traduzione mia].
[5] C. Mauriac, l’alittérature contemporaine, Albin Michel, Paris 1969, p. 281. In ogni caso l’intero saggio offre molti spunti di notevolissima pregnanza critica, tra cui il parallelismo tra i romanzi e i primi film di Robbe-Grillet: cfr. pp. 274-292. Questo universo informe è più complesso di quanto non lo si creda. Per quanto possa essere elementare, l’intervento del voyeur trasforma il mondo solido delle cose in un mondo evanescente del pensiero. Lavoro sproporzionato dello spirito messo di fronte a delle difficoltà immaginarie o, tutto al contrario, impotente nel concepire una realtà che oltrepassi le sue facoltà d’assorbimento. Surplace del pensiero rimuginante. Lampi di idee presto scomparse e la cui traccia stessa si cancella immediatamente. Per gli eroi di Robbe-Grillet […], in un modo alquanto frusto, lo spettacolo è spesso all’interno senza che l’interessato se ne accorga, né che l’autore ci informi di questa brusca preminenza delle immagini inconsistenti del passato (o dell’immaginazione) su quelle tangibili del presente (o della realtà). [Traduzione mia].
[6] Cfr. anche B. Morrissette, “Surfaces et structures dans les romans de Robbe-Grillet”, in The French Rewiew, vol. 31, N. 5 (April, 1958), pp. 364-369.
[7] Y. Guers, “La technique romanesque chez Alain Robbe-Grillet”, in The French Review, Vol. 35, N. 6 (May, 1962), p. 570. Fra virgolette caporali la citazione di Robbe-Grillet tratta da Les gommes, p. 121. L’esattezza descrittiva dell’attore non sarà allora un falsa chiarezza? Ora, queste cose compatte, solide, precisamente descritte, nello stabilire un contrasto manifesto con una significazione fuggevole, creano giustamente l’atmosfera kafkiana e ambigua che una tale tecnica vorrebbe trasmettere. In Les Gommes l’eroe-detective vede in una vetrina un manichino che rappresenta un pittore davanti ad un quadro. Un paesaggio greco è dipinto sulla tela mentre ha sotto gli occhi un incrocio in una città del ventesimo secolo. Il contrasto così creato tra la realtà circostante e la realtà immaginaria ha per effetto «una realtà tanto più incisiva, dal momento che essa è la negazione del disegno deputato a riprodurla». [Traduzione mia].
[8] A.-M. Boyer, “L’énigme, l’enquête et la quête du récit: la fiction plicière dans Les gommes et Le voyeur d’Alain Robbe-Grillet”, in French Forum, Vol. 6, N. 1 (January, 1981), p. 77. Sottolineatura nostra. Enigma del destino e dell’identità dell’uomo, pedina o fiche gettata secondo il gusto dei giocatori, essere cieco in un universo indecifrabile: il romanzo si chiude su una domanda che è forse assenza di domanda negli occhi vuoti, il viso enigmatico e fisso del proprietario del caffè Sfinge, eterna Sfinge, qui puro potere d’interrogare, senza alcuna preoccupazione di risposta. All’enigma propriamente poliziesco subentra quello che pone l’esistenza stessa dell’uomo, preda dell’enigma del mondo. Interpretare, decifrare non bastano, bisogna esorcizzare i segni. Nel momento in cui il detective cerca di chiarire un enigma, il lettore, alla ricerca di un senso, non scopre che un racconto, che si rivela essere forse questo senso e questo enigma. [Traduzione mia].
[9] Cfr. G. Deleuze, Logique du sens, Ed. de Minuit, Paris 1976, p. 77.
[10] Cfr. il secondo saggio di Essais critiques dal titolo “Littérature objective”, apparso per la prima volta su Critique nel 1954, ora in R. Barthes, Oeuvres complètes II, Seuil, Paris 2005, pp. 293-303.
[11] Y. Guers, Op. cit., p. 577.
[12] In questo senso il caso de La jalousie è più che emblematico.
[13] Cfr. soprattutto G. Genette, Figure III, ed. it. a cura di L. Zecchi, Einaudi, Torino 2006, p. 237. In effetti Robbe-Grillet riesce a sconvolgere puntualmente anche queste classificazioni. A volte nel romanzo vengono riportate informazioni che Wallas non può conoscere, ma che non servono a nulla per quanto riguarda una maggiore intelligenza della vicenda.
[14] I due termini sono di Roland Barthes, Op. cit., p. 548. Il saggio si intitola Le point sur Robbe-Grillet, uscito per la prima volta su Préface nel 1962.
[15] Ivi p. 549.
[16] Ivi, p. 454.
[17] Ivi, p. 296.
[18] Ivi, p. 301.
[19] M. Blanchot, Le livre à venir, Gallimard, Paris 1959, pp. 219-226.
[20] Ivi, p. 221. La scena alla quale noi non assistiamo non è nient’altro che una immagine centrale che si costruisce a poco a poco attraverso una sovrapposizione sottile di dettagli, di figure, di ricordi, attraverso la metamorfosi e l’attenuazione insensibile del disegno o di uno schema attorno al quale tutto ciò che vede il viaggiatore s’organizza e si anima. [Traduzione mia].
[21] Ivi, 223.
[22] A. Badiou, L’essere e l’evento, a cura di G. Scibilia, Il Melangolo, Genova 1995, p. 197. La meditazione in questione è dedicata a Mallarmé, autore che, a nostro giudizio, risulta molto affine a Robbe-Grillet.
[23] M. Blanchot, Op. cit., p. 222.



Alian Robbe-Grillet
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