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Heidegger e il nazismo 2.0 | Kasparhauser XII
A cura di Marco Baldino



Heidegger e la qabbaláh: profetismo e tecnica nella fondazione del nuovo inizio
di Marco Baldino

18 novembre 2015


Ho letto Metafisica e antisemitismo, [1] la prima raccolta di valutazioni sugli Schwarze Hefte, apparsa in Italia praticamente in contemporanea con la pubblicazione, in Germania, delle Überlegungen 1939-1941 (GA 94, 95, 96), curata da Adriano Fabris. Ho apprezzato il contributo di Peter Trawny e per la lucidità allarmata dell’analisi e per l’esattezza con cui fa emergere i problemi: il rapporto fra opera essoterica e insegnamento esoterico in Heidegger, il ruolo dei falsi Protocolli, la pretesa autoimmunizzazione del suo pensiero attraverso la finzione dell’erranza. Molto ricco, il contributo di J.A. Escudero, anche se la perorazione finale pare pleonastica, tocca una gran quantità di temi, dall’influenza di Yorck e Spengler, alla formazione del concetto di Heimatland (la terra natia), fino al tema del Verjudung, la giudaizzazione della cultura tedesca. Interamente condiviso, da parte mia, il rilievo di Fabris sull’ambiguità di Heidegger come pensatore, che predica la verifica esistenziale dell’esercizio teorico e finisce per affidarsi all’indeterminatezza di metafore che possono essere interpretate in modo cangiante (sofistica) o alla finzione di un logos impersonale che parla in lui, come se il filosofo non fosse che un medium, della cui parola non è quindi chiamato a rispondere (messianismo).

Vorrei discutere un punto che si trova come messo di traverso tra il contributo di Alfredo Rocha de la Torre e quello di Dean Komel.

«È noto — scrive Rocha de la Torre — che per Heidegger la critica all’esser-disponibile dell’ente nel suo complesso inteso come riserva [Ge-Stell], vale a dire all’essenza della tecnica, comprende tutte le manifestazioni del primato del calcolo, che in termini generali si riferisce a ciò che Heidegger pensa quando dice “Judentum”». [2]

A parte la “stravaganza” paradossale di mettere in relazione l’ebraismo con il calcolo, [3] Rocha de la Torre non sembra colpito dal fatto che ciò corrisponde uno a uno con la formulazione (falsi) Protocolli dei Savi di Sion, che è il più ripugnante manifesto della volontà contraffattrice e calunniatrice dell’antisemitismo preconcetto. [4] E rimane comunque da aggiungere che l’ebraismo, negli Schwarze Hefte, non è qualcosa che si affianca a rafforzo (una sorta di endiadi o di cercato effetto anaforico) ad altre espressioni quali americanismo e bolscevismo, per completare il concetto di Bestand. Se si guarda con attenzione, l’ebraismo appare piuttosto qualcosa di cui americanismo e bolscevismo sono manifestazioni diverse, differenziate da fatti specifici di carattere storico che li convertono sì in antagonisti, ma proprio per il fatto che condividono lo stesso (das Selbe) ambito di esistenza — è lo stesso Rocha de la Torre a rilevarlo [5] — anzi, non solo la loro appartenenza è comune (zusammen), ma è un reciproco appartenersi (zu-einander-gehören) nella medesima radice, la quale incarna l’essenza di quel «calcolo come potere della produzione nel bel mezzo dell’esigenza di disporre di tutto l’ente come ciò-che-sta-a-diposizione (Bestand)» — così Rocha de la Torre. [6] L’ebraismo è cioè l’essenza del Bestand, di cui americanismo e bolscevismo (Rocha del Torre completa con nazionalismo, democrazia e umanismo) sono le co-appartenentesi manifestazioni. Americanismo, bolscevismo, nazionalismo, democrazia e umanismo sono cioè i differenti, che si co-appartengono nella radice di un medesimo vulnus “ontostorico”: l’ebraismo. «Nella topografia narrativa del pensiero heideggeriano si manifesta un’unità onto-storica di cui fanno parte “americanismo”, “Inghilterra”, “bolscevismo”, “comunismo” ed “ebraismo” o “ebraismo mondiale”. Tutti […] caratterizzati da una “spiccata dote per il calcolo”, che Heidegger attribuisce [però] esplicitamente agli ebrei». [7]

A meno che Heidegger non avesse avuto in mente qualcosa di leggermente più complesso, qualcosa come la qabbaláh, cioè più la qabbaláh che non i Protocolli. In effetti, Heidegger era studioso accorto, come si sa, e pare strano che non si sia reso conto della patente infamia propalata dalla strampalata paccottiglia dei Protocolli. In effetti sappiamo — lo ricorda Trawny in un passo del suo contributo — come, discutendo con Jaspers a proposito «della perversa assurdità [dei] Protocolli», Heidegger aggiungesse: «[che] Esiste però un pericoloso collegamento internazionale tra gli ebrei». [8] Come dire che i Protocolli sono certamente un falso, ma, come per tutte le non verità, in essa circola una suggestione di verità. Come diceva anche Henry Ford nel 1921: «L’unica affermazione che mi interessa fare a proposito dei Protocolli è che essi si accordano perfettamente con ciò che sta succedendo nel mondo». [9] Strana coincidenza. Tuttavia Ford nel 1927 ritrattò e si scusò.

Ma se Heidegger pensava alla qabbaláh, allora bisogna passare da Rocha de la Torre a Dean Komel, la quale: a) riporta una citazione da Hölderlin Hymne “Andenken” (1941-1942) relativa alla parola greca προφητεὐειν: «dire in avanti in uno stato di estasi»; b) suggerisce, mediante una citazione dagli Schwarze Hefte, una relazione tra la profezia nel senso ebraico e l’essenza del pensiero calcolante, il mathémata.

Non bisogna infatti confondere i due sensi possibili della parola προφητεὐειν quello greco e quello ebraico. Nel saggio “Andeken”, del 1943 (anch’esso dedicato all’inno Andeken di Hölderlin), il senso della profezia biblica è chiarito: la parola dei poeti [alla Hölderlin] è sì parola che preannunzia, nel senso rigoroso del προφητεὐειν ma i poeti «non sono “profeti” nel significato giudaico-cristiano del termine» e, soprattutto, non si deve schiantare [überbürde] l’essenza della missione del poeta, facendone una sorta di “veggente”, di indovino [wahrsager, chiromante, cartomante, indovino appunto], che è invece il senso proprio del carattere [ciarlatanesco] di quegli altri profeti. [10]

Si rammenti ora ciò che Heidegger aveva detto a proposito del mathémata in una conferenza del 1938, Die Zeit des Weltbildes [11]: «Tά μαθήματα significa per i Greci ciò che nella considerazione dell’ente e nel commercio con le cose, l’uomo conosce in anticipo». [12]

Nei Quaderni neri, nello steso periodo dei due lavori citati su Hölderlin, Heidegger scrive:
a. Che gli ebrei siano dei grandi profeti è un fatto, [anche se] il mistero del quale [il fatto di questa “grandezza”] non è stato ancora risolto;
b. [che] la profezia è la tecnica di tenere lontano ciò che è storico dalla storia.
c. [che la profezia] È lo strumento della volontà di potenza. [13]
«“Prophetie” ist die Technik der Abwehr des Geschicklichen der Geschichte. Sie ist ein Instrument des Willens zur Macht. Daß die großen Propheten Israels Juden sind, ist eine Tatsache, deren Geheimes noch nicht gedacht worden».

Ora, il riferimento della Komel, dell’Università di Lubiana, ci fornisce una Überlegungen XIII (1931-1939), associata al volume 96 della Gesamtusgabe. Ma le Überlegungen XIII comprese in GA 96 non appartengono al periodo 1931-1939, bensì al periodo 1939-1941. Per di più, a pagina 127 (rif. Komel) del GA 96, non c’è alcun accenno all’elemento “profezia”. Infine, nelle Überlegungen 1931-1938 (non 1939), non c’è nessuna Überlegung marcata XIII, poiché il Band 94 contiene in realtà le Überlegungen II-VI. Credo di aver scoperto il luogo da cui la Komel deve aver tratto la citazione, un’intervista rilasciata da François Fédier al settimanale Die Zeit, il 18 gennaio 2014, dove il testo è citato a memoria e genericamente riferito ai Quaderni neri. Tuttavia, il testo in questione appartiene senz’altro al volume 97 della Gesamtusgabe, [14] uscito nel 2015 e che il primo di luglio del 2014, data in cui all’Università di Pisa si svolse il seminario di cui il volumetto in questione (uscito nell’ottobre del 2104) raccoglie gli atti, nessuno dei presenti, tranne Trawny, che è il curatore degli Schwarze Hefte — non saprei dire di Fédier —, aveva verosimilmente letto.

Al netto di questi errori, la citazione, comunque reperita, ci conduce a fare sintesi dei tre luoghi menzionati: la definizione di “profezia” contenuta in Hölderlin Hymne “Andenken” (1941-42), il passo sul mathémata tratto da una conferenza del 1938 e quest’altra citazione sugli ebrei, la profezia, la tecnica e la volontà di potenza, proveniente da Schwarze Hefte 1942-1948, ipotizzando la seguente relazione: la profezia, che è un dire in avanti in uno stato di estasi, presso gli ebrei (popolo di grandi profeti) prende il senso e la potenza del mathémata: ciò che, nella considerazione dell’ente e nel commercio con le cose, si conosce in anticipo. Questa visione del profetismo ebraico, che si salda alla volontà di potenza, cioè al modo di tenere lontano dalla Storia ciò che storico, ossia ciò che accade o irrompe di volta in volta, stravolgendo il sapere umano [15] e il suo commercio con le cose, appunto per consentire il dominio dell’ente in totalità, è piuttosto lontano dall’effettivo significato del profetismo ebraico, che è invece lo strumento o la via attraverso cui YHWH trasmette il suo ordine (non soltanto la sua prescrizione, ma anche, di volta in volta, la visione dell’intero essente, poiché la prescrizione che giunge a mezzo profeta, in realtà non è che la visione della totalità dell’essente a partire dalla quale soltanto può darsi quella determinata prescrizione) ed è quindi l’opposto di un’estasi predittiva che impegna l’Essere a causare l’ente in un modo che l’uomo già conosce, è già pronto a ricevere e capace di signoreggiare. [16]

François Fédier sostiene che il testo dei Quaderni neri sulla profezia ha senso solo se questa non viene identificata con ciò in cui gli ebrei sarebbero “grandi”, ma a una suggestione proveniente da un discorso di Hitler del 30 gennaio 1939 — che per altro si può solo congetturare Heidegger abbia ascoltato —, dove Hitler parla di se stesso come profeta. [17] La tecnica a cui Heidegger si riferisce, non sarebbe tanto la tecnica-tecnica, di cui questi parla sempre e in continuazione, ma lo specifico sapere del Führer, che gli permetterà di attivare la sua potente volontà di salvatore della storia (nella prospettiva di Heidegger: la restituzione dell’orizzonte dell’Essere a se stesso), da ciò che è “storico” (in questo caso: l’oblio dell’Essere e la remissione del destino dell’essente in totalità all’utilizzabilità nichilistica). L’argomento è singolarmente debole, in quanto implica non solo l’assunzione di una mera congettura a base del ragionamento, ma anche un rovesciamento dell’uso corrente che Heidegger fa della propria concettualità, intendendo la tecnica come sana volontà di potenza di salvezza della storia. Ecco perché, pur non avendo appigli diretti, sembra meno avventato, pur essendo anch’essa una congettura, supporre che Heidegger (a meno di non volerlo screditare del tutto) avesse in mente un corto circuito tra ebraismo, profezia e calcolo, che rimane “stravaganza” o, meglio, qualcosa di incompleto, manchevole, degradato, ma congruente con il modo di procedere heideggeriano, purché, appunto, quando si dice “profezia”, non si vada con la mente ai libri dei profeti antichi, non più che come a semplice sfondo almeno, ma al modo di articolare la profezia nella tradizione della qabbaláh e, direi, più una certa piega leggendaria della qabbaláh che non la qabbaláh nella sua ricezione storico-critica.

In effetti, secondo la sua stessa dottrina, la qabbaláh rappresenta in grado massimo il senso dell’ebraismo, il quale si esprime poi nel metodo dell’interpretazione esegetica della Torah, che è sod, ossia segreto. Tra i libri della qabbaláh, centrali sono lo Zohar (Libro dello splendore, 1275 ca secondo l’ipotesi accademica) con le sue 10 sefirot [enumerazioni], che contengono la descrizione dei modi in cui Dio, l’infinito, Ein Sof, si rivela e il Sefer Yetzirah (Libro della creazione, II secolo a.c. per alcuni, II d.c. per altri), contenente speculazioni riguardanti la creazione del mondo. Formalmente Yetzirah è un manuale di meditazione, ma nei suoi risvolti leggendari è anche un manuale per la trasmutazione mistico-combinatorio-computistica delle lettere a scopo creativo e, in particolare, per la creazione o il calcolo, si potrebbe dire, di un Golem. [18]

Non proprio secondo la farragine mistica di un Meyrink, quindi, se proprio dobbiamo fare un nome, ma di quella piega che la tradizione ebraica prende in certe forme decadute, penetrate poi nella formazione accademica tedesca, attraverso, per esempio, la linguistica romantica. In un testo del 1808, Jacob Grimm, il padre della germanistica, descrive una tarda leggenda ebraica:
Dopo aver recitato certe preghiere e digiunato determinati giorni, gli ebrei polacchi plasmano con argilla o terracotta la figura di un uomo, e quando pronunciano il miracoloso Shemamphoras [il nome di Dio] essa deve prender vita. È vero che non può parlare, però capisce discretamente ciò che si dice o si comanda. Lo chiamano Golem e lo usano come domestico che sbriga tutte la faccende domestiche. Ma non può mai uscire di casa. Sulla fronte sta scritto ’emèth [verità], ma ogni giorno cresce e diventa facilmente più grande e più forte di tutti i coinquilini, mentre all’inizio era piccolo. E quindi per paura gli altri cancellano la prima lettera, in modo che resta solo la scritta mèth [è morto], dopo di che crolla a terra e non resta altro che un mucchio di argilla. [19]
Dopo di che — scrive Scholem — è del tutto evidente a priori che la creazione del Golem, rappresenta la forza creatrice dell’uomo sullo sfondo della stessa forza creatrice di Dio, «sia a sua imitazione, sia in conflitto con essa». [20]

L’essenza della qabbaláh sembra pertanto potersi indicare, secondo questa declinazione, nella presa combinatoria sull’atto di creazione, cioè su Dio o, nei termini di Heidegger, sull’Essere, e, sulla base di questo speciale sapere, riposto e conservato per i veri credenti, nella potenza di evocare l’ente. Trasferendo questa valutazione sull’ebraismo in generale (Weltjudentum) sembra perciò possibile coglierne i tratti essenziali nel Rechenfähigkeit [21] (attitudine di calcolo), nell’e-vocazione tecnica (l’arte di chiamare alla presenza intra-mondana l’ente, traendolo fuori dal legame ultra-mondano, spezzando cioè il suo vincolo con l’essere, sradicandolo) e nel segreto [Geheimes] («L’ebraismo mondiale è [per Heidegger] — così scrive Peter Trawny — una potenza che agisce sul piano internazionale e che muove le sue pedine […] rimanendo invisibile» [22]).

Ciò che è storico, ovvero ciò che, in termini heideggeriani, sboccia da se stesso [es gibt], indipendentemente dalla soggettività umana, «non caricando ciò che si manifesta con strutture e ordini categoriali», al di qua, cioè, del suo sapere, è radicalmente negato dalla prassi (Ars, techne) cabalistica che e-voca l’ente (Golem) come da una riserva a sua disposizione (Bestand), traendolo in servitù. Nella hybris nichilistica del Bestand, l’ente sradicato e a disposizione servile, cresce però, anche a causa della sua incompiutezza, [23] fino ad occupare tutto lo spazio del mondo, fino alla macchinazione [Machenschaft] planetaria, fino allo sradicamento [Entwurzelung] di tutto l’ente, [24] e poiché l’egemonia dell’ente provoca profonde aberrazioni, [25] fino all’autoannientamento della stessa potenza tecnica evocatrice:
Ma una volta che uno non si preoccupò che il suo Golem continuasse a crescere – prosegue Jacob Grimm –, e quest’ultimo diventò talmente alto che il suo padrone non poté più arrivare alla sua fronte. Allora, in preda a una grande paura, chiamò il servo, ordinandogli di togliergli gli stivali, confidando che, quando questi si fosse chinato, sarebbe potuto arrivare alla sua fronte. E così effettivamente avvenne e la prima lettera fu felicemente cancellata; solo che l’intera massa di argilla cadde sull’ebreo e lo schiacciò. [26]
Che la serie ebraismo-profezia-calcolo sposti l’asse della questione verso una visione dell’ebraismo che ne raccoglie il senso sotto il segno della qabbaláh è una verisimiglianza, ma già fuori da questa verosimiglianza, questa serie fa cadere quella distinzione tra ebraismo e giudaismo che J.A. Escudero scrupolosamente solleva come una cortina protettiva (quella secondo cui quello di Heidegger sarebbe un antigiudaismo “spirituale” e “culturale” e non un antisemitismo nel senso dell’ostilità razziale e biologica orientata allo sterminio sistematico [27]). La questione dell’antisemitismo di Heidegger ci appare allora sotto una veste molto più ampia; non si appunta più al solo carattere diasporico-migrante dell’ebreo otto-novecentesco, ma ne investe il pieno assetto d’essenza [Judentum], pensato però attraverso strumenti “incompleti” e “manchevoli”. La “stravaganza” di Heidegger, si trasforma in un valutazione che coinvolge l’ebraismo pensato a partire dalla sua essenza religiosa, a partire da un riferimento obliquo a Neviìm, ma che si estende fino a comprendere gli aspetti più decaduti e i più degradati della tradizione ebraica, suggeriti, ahimé, questi ultimi, da opere quali i falsi Protocolli, [28] fino a veder emergere l’untuoso banchiere-strozzino, l’ebreo sradicato che si intrufola a forza e si mischia, dal suo esser-radicato in un non-luogo, un luogo che non è una “terra natia” (aspetto, questo, anch’esso trattato a lungo da J.A. Escudero), ma un Libro, o meglio, una sterminata proliferazione di giochi di parole, di erranze letterali, di sottigliezze magico-simboliche, di «arguzie vane e pedantesche» — come si era espresso Giovanni Calvino —, mediante i quali si è ingegnato per secoli di coltivare un’estasi predittiva che fa tutt’uno con il mathémata del pensiero calcolante [rechnende Denken] e con l’imposizione desertificante della tecnica (Ge-Stell). Privo di mondo [Weltlosigkeit], l’ebraismo mondiale [Weltjudentum] estende su di esso il suo potere per mezzo di una razionalità vuota [leeren Rationalität] e della sua connaturata destrezza nel calcolo [Rechenfähigkeit].

In una illuminante disamina dei Beiträge, Maurizio Ferraris osserva come Heidegger ritenga che l’intera età sua imponga una svolta e richieda un nuovo inizio. [29] La necessità di questo “nuovo inizio” è sì imposta dalla crisi delle scienze europee, come in Husserl, ma questa “crisi” non risale a Galileo e alla matematizzazione del mondo, bensì viene da molto più lontano: il nichilismo europeo e la mobilitazione totale imposta dalla tecnica costituiscono l’“esito dell’originario abbandono dell’essere” che ci portano verso il declino. [30]

Ora, quello che sembra emergere dopo i Quaderni neri è che ci sia una sorta di scavalcamento all’indietro della matematizzazione. La crisi delle scienze europee risale a Galileo, ma il principio della matematizzazione è già presente nel profetismo ebraico, che vuole infatti calcolare dio. La calcolazione di dio, posta in relazione diretta con l’ebraismo in Anmerkungen I-V (Schwarze Hefte 1942-1948), GA 97, è però già stigmatizzata nei Beiträge (1936-37), GA 65. L’abbandono dell’essere, che condurrà l’umanità europea al declino, è già inscritto nel profetismo ebraico che viene pertanto a costituire il fondamento dell’unione di metafisica e cristianesimo che è quell’approccio oggettivante nel modo di porre o non porre la questione dell’essere, i cui esiti sono la matematizzazione moderna, la macchinazione planetaria e la desertificazione nichilistica del mondo.

Nei Beiträge Heidegger affronta la questione di dio riagganciandosi alla critica dell’onto-teologia, cioè del pensamento di dio come ente e, quindi, a sua volta, per mezzo del pensiero, che ora prende il nome di teologia, come un dominabile e, in definitiva, un calcolabile. La questione di dio viene però tematizzata come la questione dell’ultimo dio, cioè come la questione del transito al nuovo inizio. In questo contesto Heidegger si domanda, retoricamente: «Ma perché mai voler calcolare, nel pensare l’essenza di Dio, invece di cambiare modo di meditare, sia pure a rischio di qualcosa di estraneo e di incalcolabile?». [31] Il “pericolo” a cui Heidegger si riferisce è quello connesso con il fatto che, essendo al di là del calcolo, l’ultimo, il dio del transito, deve sopportare il peso del fraintendimento e quindi dell’estraniazione, perché solo così esso è «Quello che supera», cioè che dispone al balzo [Sprung] nell’oltre del nuovo inizio [32]: «L’ultimo dio non è la fine, bensì l’altro inizio di incommensurabili possibilità della nostra storia». [33]

Chi avrebbe potuto mettere in relazione questo testo con l’heideggeriana Judenfrage? Tale relazione ora appare più chiara: l’ebraismo, con il suo profetismo, crede di poter calcolare il divino. L’ebraismo è cioè insieme la radice riposta (Prophetie) e la manifestazione evidente (Weltjudentum) di quell’atteggiamento metafisico (platonismo + cristianesimo) che riduce tutto a «maneggevolezza pianificata» [geplante Lenkbarkeit], «esattezza del decorso sicuro» [Genauigkeit des sicheren Ablaufs] e «dominio “senza resti”» [“restlosen” Beherrschung] e che poi si perfeziona nel pensiero moderno e nella tecnica. «La macchinazione — prosegue Heidegger — assume ora il non ente che ha la parvenza dell’ente [nichilismo] sotto la propria protezione, e la desolazione [suo correlato] dell’uomo […] è compensata dall’“esperienza vissuta”». [34]

Quest’ultima affermazione è particolarmente urtante. L’esperienza vissuta è il termine centrale della filosofia del maestro di Heidegger, il filosofo ebreo Edmund Husserl, i rapporti con il quale sono stati abbastanza chiariti. Quello che si può aggiungere è che Heidegger sembra ora rompere con Husserl non perché sia sconveniente intrattenere rapporti con ebrei sotto il Terzo Reich (così non si rende merito al grande pensatore), ma perché Heidegger considera il pensiero di Husserl l’espressione più avanzata di quell’atteggiamento metafisico-calcolante che consegna l’umanità alla devastazione. La fenomenologia è per Husserl la scienza del mostrarsi dei fenomeni alla vita psichica. L’esperienza vissuta, anche nella forma ridotta dell’atto intenzionale, per Heidegger rimane invece comunque prigioniera della fatalità dell’autocoscienza idealista, ovvero della metafisica del soggetto. Predicando la fenomenologia come scienza rigorosa, l’ebreo Husserl occulta il problema fondamentale del destino dell’Occidente, che è quello dell’oltrepassamento della metafisica. [35] “Compensare” vuol dire infatti “occultare” e occultare vuol dire vanificare, in modo “empio” [gott-losen] e “inumano” [unmenschlichen], la pertinenza dell’uomo all’essere, rimettendo popoli e stati alla sola macchinazione. [36]

Riassumendo: Heidegger si appropria del senso biblico della profezia, lo ascrive al senso greco e squalifica il profetismo ebraico come ciarlatanesco sulla base di una comprensione degradata della tradizione ebraica, filtrata attraverso elementi leggendari, attraverso deformazioni favolistiche e, peggio, desunti dalla paccottiglia della propaganda antisemita. [37] Fidandosi di tale giudizio, e sostenuto da autentica ostilità, viene inserendo l’ebraismo nel quadro della storia dell’essere, come dispiegamento di un approccio calcolante. In questo quadro l’ebreo è pensato come il distillato della volontà di potenza che e-voca l’ente strappandolo al vincolo oltre-mondano, che lo riduce in servitù e lo destina a decadimento o rovinìo istantaneo. Come colui il quale, attraverso la «macchinazione», ovvero l’incondizionato compimento dell’essere come volontà di potenza, [38] estende il proprio controllo e il suo potere sull’intero essente. Concetto centrale della metafisica nell’epoca della sua effettualità tecnica, la volontà di potenza crede, o per meglio dire, l’ebreo crede di aver in tal modo esteso, per mezzo della volontà, il suo dominio su Dio, di pensare il divino rechnen wollen, di aver cioè raggiunto la potenza stessa di Dio, mentre non ha fatto altro che desertificare (verwüsten) il mondo, impoverendolo di essere, essendo l’ultimo esito di questa condotta ontostorica nient’altro che l’estensione del domino nichilistico all’intero pianeta, poiché la tecnica (nei nostri termini il profetismo cabbalistico) è, come dice Heidegger, l’abbandono dell’essere. [39] Ma quando la Terra sembra risplendere all’insegna di questa trionfale sventura, ecco che l’intero castello, a causa della sua stessa incompiutezza, del suo essere entwurzelt, sradicato, crolla, schiacciando sotto di sé il sorcière.

Fine. Autoannientamento, Selbstvernichtung!


[1] AA.VV., Metafisica e antisemitismo. I Quaderni neri di Heidegger tra filosofia e politica, a cura di A. Fabris, ETS, Pisa 2014.

[2] A. Rocha de la Torre, “I Quaderni neri nel contesto della questione politica in Heidegger”, in AA.VV., Metafisica e antisemitismo, cit., p. 89.

[3] L’espressione: “stravagante idea”, a proposito della “capacità di calcolo” degli ebrei, è di Peter Trwany. In un altro passo del suo libro vi si riferisce come a delle “sciocche leggende” (cfr. Id., Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, trad. it. di Chiara Caradonna, Bompiani, Milano 2015, p. 25 e p. 97). Credo di dovermi accodare. In un primo momento avevo in mente un aggettivo ancora più forte.

[4] Ricordiamo che i Protocolli dei Savi di Sion, disponibile in traduzione tedesca fin dal 1919, fu ritradotto nel 1923 da Alfred Rosenberg con il titolo Die Protokolle der Weisen von Zion und die judische Weltpolitik e costituì la fonte, non unica ma sostanziosa, del Mein Kampf.

[5] Cfr. A. Rocha de la Torre, “I Quaderni neri nel contesto della questione politica in Heidegger”, in AA.VV., Metafisica e antisemitismo, cit., p. 93. Nei Beiträge zur Philosophie, alla pagina 54 (GA 65, Klostermann, Frankurt a.M. 1989), si trova per esempio scritto: «ist der Bolschewismus in der Tat jüdisch [il bolscevismo è difatti ebreo]» (cfr. ed. italiana a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2007, p. 79).

[6] A. Rocha de la Torre, “I Quaderni neri nel contesto della questione politica in Heidegger”, in AA.VV., Metafisica e antisemitismo, cit., p. 90.

[7] P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, cit., p. 81.

[8] P. Trawny, “Heidegger e l’ebraismo mondiale”, in AA.VV., Metafisica e antisemitismo, cit., p. 32.

[9] M. Wallace, The American axis: Henry Ford, Charles Lindbergh, and the rise of the Third Reich, St. Martin’s, New York 2003.

[10] Si tratta del contributo di Heidegger alla Tübinger Gedenkschrift per il centenario della morte di Hölderlin, poi in Erläuterungen zu Hölderlin Dichtung, GA 4, Klostermann, Frankfurt a.M. 1981 e 1996 (seconda edizione ampliata); trad. it. La poesia di Hölderlin, a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988. Il riferimento è a p. 137.

[11] Si tratta del testo della conferenza “L’epoca dell’immagine del mondo”, poi ricompreso in Holzwege (1950), trad. it. Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968.

[12] M. Heidegger, Sentieri interrotti, cit., p. 74.

[13] Dean Komel, “«Bianco-nero» e «chiaro-scuro»” nei Quaderni neri di Martin Heidegger”, in AA.VV., Metafisica e antisemitismo, cit., p. 76. La traduzione proposta da Chiara Caradonna, nella supervisione di Alessandra Iadicicco, è la seguente: «La “profezia” è una tecnica volta al rifiuto del carattere destinale della Storia. È uno strumento della volontà di potenza. Che i grandi profeti siano ebrei è un fatto sul cui segreto ancora non si è riflettuto», citata in P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, cit., pp. 91-92.

[14] E di fatto si trova in M. Heidegger, Anmerkungen I-V (Schwarze Hefte 1942-1948), GA 97, Klostermann, Frankfurt am Main 2015, p. 159 [77 secondo la paginazione interna].

[15] «daß die Weisheit seiner Weisen untergehe und der Verstand seiner Klugen verblendet werde», Jes 29,14, Lutehrbibel.

[16] Cfr. per es. F. Parente, “Profetismo e profezia nella tradizione giudaica e cristiana e nella moderna critica storica” in H. Gunkel, I profeti, a cura di F. Parente, Sansoni, Firenze 1967. Sembra ragionevole l’osservazione di Marlène Zarader, secondo cui lo statuto del propheteuein heideggeriano, non deve nulla al profetismo greco – che è di un’altra natura – mentre deve tutto al profetismo biblico. [Ma] Heidegger non soltanto non riconosce questo debito, ma sostiene, controfattivamente, che questo termine deve essere inteso proprio in senso greco e in opposizione al senso ebraico-biblico (cfr. Marlène Zarader, Il debito impensato: Heidegger e l’eredità ebraica, trad. it. di M. Marassi, Milano 1995, p. 62). A proposito del passo dei Quaderni neri che stiamo analizzando, Peter Trwany osserva che: «Heidegger sembra dare per scontato che il profeta (biblico) parli in prima linea del futuro e non criticamente del presente» (P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, cit., p. 92). Inoltre, giusta i criteri che lo stesso Heidegger fissa per definire il profetismo greco, è facile vedere come profeti biblici e poeti-profeti alla Hölderlin hanno in comune nientemeno che i tratti fondamentali (cfr. Ibidem).

[17] “Er ist der falsche Verdächtige”, intervista con François Fédier, raccolta da G. Blume, Die Zeit, 18 gennaio 2014, http://www.zeit.de/2014/03/francois-fedier-ueber-martin-heidegger

[18] Cfr. Jewish Encyclopedia, New York, Funk and Wagnalls, 1901-1906, segnatamente le voci Cabala e Golem.

[19] Citato in G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, trad. it. di Anna Solmi, Einaudi, Torino 1980, p. 202. Che Heidegger fosse familiare con Jacob Grimm, se non bastasse la nozione della sua competenza filologica, garantita dalle ardite sperimentazioni sulla lingua tedesca (cfr. H.G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, trad. it. di R. Cristin, Marietti, Genova 1987, p. 130) è dimostrato da una citazione di Essere e tempo, dove il germanista è ricordato a proposito del significato dell’“in” nell’In-essere (Parte prima, Prima sezione, Cap. II, § 12, nota a, Utet 1986, p. 123; Mondadori 2006, p. 165, nota 1). Vedi anche W. J. Stohrer, “Heidegger and Jacob Grimm: On Dwelling and the Genesis of Language”, The Modern Schoolman, Vol. LXII, Saint Louis University 1984, pp. 43-51.

[20] G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, cit., p. 203.

[21] Cfr. M. Heidegger, Überlegungen VII-XI (Schwarze Hefte 1938/39), GA 95, Klosetrmann, Frankfurt a.M. 2014, p. 97 e Überlegungen XII-XIV (Schwarze Hefte 1939-1941), GA 96, cit., p. 46 [67].

[22] P. Trawny, “Heidegger e l’ebraismo mondiale” in AA.VV., Metafisica e antisemitismo, cit., p. 33.

[23] Nella tradizione talmudica, il Golem è un essere incompleto, informe, amorfo, grezzo, riferito ad una fase transitoria della creazione di Adamo, da parte di Dio (cfr. G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, cit. p. 204 sgg.)

[24] M. Heideggr, Überlegungen XII-XIV (Schwarze Hefte 1939-1941), GA 96, cit ., p. 243: «Entwurzelung des Seienden aus dem Sein [lo sradicamento degli enti dall’Essere]»

[25] Cfr. Ivi, p. 238 [113]: «Was kein Unglück ist, sondern die erste Reinigung des Seins von seiner tiefsten Verunstaltung durch die Vormacht des Seienden [non è cioè un disastro che la terra esploda e l’umanità scompaia, perché si tratta piuttosto della prima “purificazione dell’essere dalle sue più profonde aberrazioni provocate dall’egemonia dell’ente”]».

[26] G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, cit., pp. 202-203.

[27] Cfr. J.A. Escudero, “Heidegger e i Quaderni neri. La rinascita della controversia nazionalsocialista”, in AA.VV., Metafisica e antisemitismo, cit., pp. 64-80.

[28] Su questo aspetto cfr. P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, cit., p. 91 («C’è un antisemitismo nel pensieri di Heidegger che, come si confà a un filosofo, viene dotato di un (impossibile) fondamento filosofico, ma che si riduce nondimeno a due, tre stereotipi»). Ma c’è tutta una letteratura che potrebbe essere indagata al riguardo. Vedi, per es., L. Deutsch, Der Lockspitzel Asew und die terroristische Taktik, (Frankfurt a.M., 1909), https://archive.org/stream/derlockspitzelas00deutuoft#page/n1/mode/2up – Azef o Asew, proveniente da una famiglia di ebrei poveri bielorussi, fu, tra il 1893 e il 1905-6, adepto e di organizzazioni terroriste russe, per conto delle quali organizzò spaventosi attentati, e dell’Ochrana, la polizia segreta zarista (il segreto e il mistero furono lo stigma della sua vita) dove ricoprì persino cariche di rilievo, senza che né l’una né le altre sospettassero alcunché e, anche alla fine, quando non poté più nascondere il doppio, triplo, quadruplo gioco, scomparve misteriosamente, suffragando così la miglior aneddotica sul complottismo ebraico. Azef, scrive Enzensberger, «non era affatto uno strumento del potere zarista» e nemmeno dei rivoluzionari. «Era un uomo che non si lasciava usare […], era lui che usava gli altri. Ma a quale scopo?» (H.M. Enzensberger, Politica e crimine, trad. it. di Emanuela Zuffellato, Bollati Boringhieri, Torino1998, pp. 243-269), ecco dove, all’altezza di questa domanda, può scatenarsi tutto l’incendio dell’immaginario antisemita. Sulla figura di Evno Fišelevic Azef, nel 1935, uscì in Germania il film Der lockspitzel Asew, diretto da Phil Jutzi, interpretato da Fritz Rasp.

[29] Heidegger parla di primo e di altro inizio, rispettivamente con riferimento ai Greci e ai Tedeschi. Tuttavia l’espressione “nuovo inizio” è attestata in letteratura e ha il senso di una “urbanizzazione” del linguaggio “oracolare” dello Heidegger.

[30] Cfr. M. Ferraris, “M. Heidegger, Beiträge zur Philosphie (Vom Ereignis)”, aut aut, n. 236/1990, p. 78.

[31] M. Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’Evento), a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2007, p. 399.

[32] Cfr. Ivi, p. 397.

[33] Ivi, p. 403: «Der letzte Gott ist nicht das Ende, sondern der andere Anfang unermeßlicher Möglichkeiten unserer Geschichte».

[34] Ivi, p. 398.

[35] Cfr. P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, cit., pp. 23-24.

[36] Cfr. Contributi alla filosofia (Dall’Evento), cit. pp. 413-414.

[37] Del resto Heidegger non ha elaborato una qualche forma raffinata di antisemitismo, ma ha fatto riferimento e si è avvalso di certe sue forme comuni e note (cfr. P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, cit., p. 23).

[38] Cfr. M. Heidegger, Metafisica e nichilismo, a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 2006, p. 140.

[39] Ibidem.


Marco Baldino, Bellano (Lc) 1955, è autore di saggi e articoli sul tema della località filosofica e sul problema dell'accesso al pensiero. Nel 1990 ha fondato la rivista italiana di geofilosofia Tellus, che ha diretto fino al 2001. È curatore e coautore dei volumi: Geofilosofia (Lyasis, 1996); Sul liberalismo (Labos, 2000); Per una filosofia free-lance (Labos, 2001). Ha tradotto brevi scritti di Martin Heidegger, Georges Bataille, Gilles Deleuze e Stéphane Mosès. È autore del volume Margini e paraggi. La filosofia dell'ultimo Novecento (Aracne, 2012). Attualmente è coeditor della la rivista di cultura filosofica Kasparhauser.



Rembrandt, studioso in lettura, 1631

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