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Heidegger e il nazismo 2.0 | Kasparhauser XII
A cura di Marco Baldino



Heidegger: sofistica, antisemitismo e razzismo di stato
di Marco Baldino

18 novembre 2015


Due parole conclusive sulla questione sollevata da Roberta De Monticelli a proposito dell’antisemitismo di Heidegger. [1] Heidegger — dice De Monticelli — è qualcosa di peggio che un nazista, è un sofista cioè un traditore di Socrate. Per il filosofo, il ripiegamento sulla sofistica, è un vizio capitale.

Bisogna riconoscere che l’universale di cui parla Roberta De Monticelli non è l’eterna verità già sempre data di Parmenide, ma il faticoso accordarsi storico, mediante la controversia, su aspetti ridotti, ma che mettono capo a un ampliamento progressivo della base di discussione. Questa règle du jeu è, per Roberta De Monticelli, il gioco stesso della filosofia così come lo si trova inquadrato, nel V secolo, in Socrate, cioè il gioco massimo, rifiutando il quale ci si pone fuori della filosofia stessa.

Ma un sapere simil-filosofico che non-è “filosofia”, è — dice Roberta De Monticelli — semplice sofistica. Per Lei, questo è il peggior insulto che si possa rivolgere a un “filosofo” — per questo sostiene che Heidegger è “peggio che un nazista”, perché gli errori si possono perdonare, di più, si possono correggere, ma l’errore di Heidegger è che la sua tignosa adesione al nazismo deriva dall’aver ceduto, prima ancora, al peccato filosofico par excellence: la sofistica, il peccato imperdonabile.

Sì può opporre a questa tesi — che senz’altro è una tesi filosofica — il semplice evento del pensiero della crisi della ragione? La mia risposta è “sì!”. Il pensiero della crisi della ragione è l’affermazione del diritto a giocare con altre regole (Vitiello), [2] regole che possono spingersi fino alla sofistica per il semplice fatto che all’apice della Modernità, la ragione scopre, per effetto di un ritorno di sfiducia sociologica, che l’opzione che stabilisce che la filosofia è il gioco massimo, altro non è che una pura e semplice mossa di potere. Questa “rivendicazione” è la rottura del ’900, la rottura e lo sboccio di una nuova esigenza di pensiero. Dire che la filosofia è il gioco massimo significa infatti affermare che la filosofia è l’autorità che fissa le regole di ogni gioco e che, quindi, le parole verità, essere, virtù, ecc. sono prive di senso fuori dalla fondazione filosofica. A parte la stranezza di un gioco in cui legislatore, giudice e uno dei due giocatori sono una stessa persona, bisogna anche ricordare che la filosofia poté imporsi come gioco massimo, solo in una lotta per il controllo della Paideia, vale a dire per il controllo dei meccanismi di formazione e selezione della classe politica, dove gli altri contendenti erano la Poesia e la Sofistica, appunto. Tale lotta, come sappiamo, si è conclusa con la vittoria del filosofo e con l’ostracismo del poeta e del sofista. E non basta. Non solo poeta e sofista furono espulsi dalla Polis, ma il gioco che il filosofo imbandì, proclamava sì di svolgersi al tavolo dove sedevano anche il sofista e il poeta, ma di fatto a quel tavolo sedevano solo figuranti con indosso ora la casacca del sofista ora quella del poeta, ma a parlare era sempre e solo il filosofo. Una vittoria è una vittoria.

La differenza tra filosofi e poeti è che questi ultimi pretendevano sì di dominare la Paideia, ma sulla base del tradizionale dominio da loro esercitato sulle storie e, in definitiva, sulla memoria. Ma i poeti non possedevano una storia di tutte le storie o, se anche erano convinti di possederla, di fatto questa non era che l’ennesima storia, alla quale se ne sarebbero poi aggiunte altre, ad libitum. I sofisti si trovarono a dominare la Paideia per un breve periodo. Essendo però la sofistica un mero gareggiare in oratoria, per definizione rimaneva escluso che potesse esistere un discorso di tutti i discorsi, altrimenti la sofistica stessa sarebbe decaduta. Per il sofista, non può darsi un gioco massimo, per lo steso motivo che per un atleta non può darsi un atleta massimo, un campione di tutti i campioni, un atleta-dio. Non si compete con il dio. La competizione è propria degli uomini e ciò vale anche per i discorsi. Mentre il filosofo è proprio colui il quale ritiene di aver messo mano all’argomento di tutti gli argomenti, all’organon di ogni possibile discorso, capace cioè di dislocare ogni discorso, determinandone il posto e il grado sulla scala della verità, di aver messo mano al discorso di dio.

In tal modo la filosofo pretese di esercitare, in modo del tutto esclusivo, il controllo della Paideia, estromettendo poeti e sofisti; i primi perché non potevano controllare la proliferazione delle storie (mythoi); i secondi perché non potevano controllare la proliferazione dei discorsi (logoi). In tal modo, la Paideia doveva basarsi solo su discorsi filosofici, cioè capaci di metter capo a verità inconcusse e non su discorsi pieni di incanto o su belle storie piene di esemplarità.

Ma la crisi della ragione è, nel ’900, lo svelarsi quasi da sé non solo del fatto che la filosofia non è in grado di garantire l’affermarsi graduale e progressivo di una sfera sempre più ampia e condivisa di principi inconcussi (i discorsi filosofici si dividono su tutto, senza raggiungere mai nessun accordo); non solo, ma tali discorsi sono per lo più diventati l’esercizio di un professionismo ultra-specialistico, impenetrabile ai più, e incapace di esercitare una vera presa sulla Paideia — chiaro, per esempio, che cosa succede ai nostri giorni: lo sviluppo incontrollato di mezzi per la creazione di nuovi mythoi; uno scambio, altrettanto incontrollato e incontrollabile, di ogni genere di scrittura, la cui estensione è tale che la filosofia non può che ripiegarsi o ritrarsi dinanzi ad esso. Ma anche perché, proprio l’universalismo, si è mostrato essere, come chiarirò tra poco, la macchina filosofica che produce il razzismo.

Giocare la carta dell’universalismo contro Heidegger sarebbe pertanto un grosso errore di prospettiva, [3] non solo perché, dal momento che l’essere, il fondamento, la verità si sono dissolti o risolti nel principio moderno della ‘volontà’, l’universalismo si è rivelato essere una mera pretesa e un mero gioco di specchi: nel preambolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, per esempio, troviamo, in posizione legittimante, un’istanza particolare, il popolo francese: «I rappresentanti del popolo francese», è scritto, «riuniti in convenzione nazionale […] proclama[no] […] la seguente dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino». [4] Non solo perché le scienze europee sono sprofondate nell’afasia specialistico-professionale: «Nella miseria della nostra vita […] questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi si sente in balìa del destino», [5] cosi Husserl; o anche, come scrive Max Weber: «le creazioni del pensiero scientifico sono un mondo sotterraneo di artificiose astrazioni che cercano di cogliere con le loro mani esangui, senza mai riuscirvi, la linfa e il sangue della vita reale», [6] ma anche perché — ci sto arrivando — è proprio dall’universalismo politico-giuridico che vediamo emergere il razzismo di stato.

Nel corso al Collège de France del 1976, Foucault mostra come il razzismo si leghi al tema dell’universalità (dello stato) attraverso il tema della sovranità (il potere di vita e di morte): nel XIX secolo, affermatasi la tesi illuministica della nazione come una moltitudine di uomini che abita un territorio definito, delimitato da frontiere e obbediente a leggi e a un governo unici, per poter uccidere, cioè per poter esercitare la funzione sovrana (vita/morte), lo stato, divenuto totalità biologicamente omogenea e politicamente universale, deve introdurre il razzismo, deve cioè spostare il problema dell’uccisione dalla legge alla norma, dal giuridico al biologico, deve trasformare la vecchia “lotta delle razze”, emersa nel cuore del medioevo merovingio, nell’imperativo a proteggere la “razza” che si identifica con lo stato. [7]

E infine, perché l’indicazione heideggeriana dell’ebreo come principio di nientificazione di ogni rapporto all’essere [8] ha il suo fondamento proprio nel concetto di “uomo universale”. Nel Discorso di rettorato Heidegger osserva che è con un’istanza particolare, il popolo Greco, e in forza della sua lingua, che emerge la filosofia e, con essa, un tipo umano che non è più costretto entro il perimetro destinale di una particolare etnicità e che, confrontandosi con le necessità dell’esistenza più estreme, supera le circostanze storiche e geografiche particolari, che pure gli appartengono. [9] Così, il popolo tedesco, “agitando di nuovo il problema del senso dell’essere in generale”, può diventare a sua volta, veramente “un popolo universale”. [10] L’istanza “noi”, [11] con cui Heidegger marca il Discoro di rettorato, è il popolo tedesco in quanto sente come compito (perché ne ha consapevolezza, opportunità, capacità) quello di rianimare la scienza; non una scienza afasica, incapace di trasformare in risultati appena apprezzabili le sue pretese, bensì la scienza che ha di mira la cosa stessa, ovvero la rianimazione del problema dell’essere; una scienza che, riappropriandosi della conduzione (Führerschaft) della Paideia (deutschen Universität) si faccia capace di fondare i saperi particolari nell’unità della Seinsfrage e che solo per ciò è autenticamente universale.

Il problema è pertanto un altro. Heidegger, attraverso un confronto serrato con Nietzsche e Hölderlin, rispristina, negli anni ’30, non come ripiegamento dopo la fine della guerra, il diritto di Poesia e Mito a governare la Paideia di contro a un Logos decaduto a metafisica oggettivante e a un Sapere (techne) decaduto a mera abilità calcolante. In questo senso Roberta De Monticelli non ha tutti i torti: se Heidegger non è un sofista è per lo meno un ποιητήϛ, un audace inventore di miti, un artigiano della remythisierung, uno che, con Nietzsche, continua a ripetere che il tempo di Socrate è finito. Del resto è lo stesso Heidegger a dichiararlo — ne L’essenza della verità (corso universitario 1931/32), Heidegger sostiene che non vi sarebbero più che sofisti, più o meno validi (lui compreso), tutt’al più occupati a preparare la via (lui, ovviamente) a un filosofo a venire. [12]

Quello che la De Monticelli sembra trascurare, è invece che, come ogni posizione teologica che si rispetti — perché quella di Heidegger, come ha osservato Löwith, è una prospettiva teologica —, anche questa remythisierung riconosce l’impossibilità ontologica di venire a patti con il nemico di dio. Ed è per questo, non per difetto di universalismo, che Heidegger riconosce l’impossibilità ontologica di venire a patti con la tecnica e con il calcolo, perché questo chiude ogni strada all’avvento dell’ultimo dio e allo sboccio (Aufbruch) del nuovo inizio che è, nella fattispecie, il vestigio di quella “narrazione” con cui, a partire dagli anni Trenta, Heidegger viene legittimando un sistema filosofico che scivola costantemente nell’interruzione e nell’errore, declinando come aspetti preparatori di un “nuovo inizio”, le sue défaillances: il sentiero che si perde nel folto, l’errore come necessario errare in un epoca di tenebre e la trepidante ricerca di un tenue diradarsi. In una certa fase della sua speculazione Heidegger vagheggiò persino la formazione di un manipolo di audaci monaci del pensiero capaci di auscultare e decifrare i segni e i signa provenienti dall’Altra dimensione. Dovendo poi ammettere, però, in una fase successiva, di essere il solo ed unico e inconcludente predestinato.

In ogni caso, come nella filosofia greca il popolo “tedesco” trovava l’esempio mitico dell’Aufbruch, così, secondo un paradigma che appartiene alla indoeuropeistica, esso nel Weltjudentum trova l’esempio mitico dell’antagonista assoluto: un’anti-etnia disseminata (Weltlosigkeit) che, mischiandosi (Durcheinandermischens), adultera, impedendo l’insorgere, dal principio creativo (“l’altro inizio”), di un’interrogazione capace di aspirare alla responsabilità per il totale. Ed è per questo motivo che la sterminazione del nemico metafisico non può e non deve essere respinta, ma tutt’al più criticata nei suoi smottamenti, laddove, assorbendo il veleno dell’Adversarius, tende ad assomigliargli. In tal senso, l’ebreo, trasformando l’Aufbruch tedesco (il movimento nazionalsocialista), per contaminazione, attraverso il medio del calcolo, in un puro strumento di distruzione, si sarebbe di fatto autoannientato. Questa affermazione non può essere pronunciata per errore — è invece un preciso filosofema onto-stoico. L’analisi di questa filosofema mostra che il suo senso è il razzismo di stato.

Nel momento in cui una certa etnia [Volkstum] [13] (il popolo tedesco), non più costretto entro il perimetro di un destino periferico e relativo, sente, come proprio compito, quello di confrontarsi con le necessità più estreme dell’esistenza in generale; si sente chiamato a svolgere un’interrogazione capace di aspirare alla responsabilità per il tutto, per esempio rianimando il problema dell’essere; in questo momento, per effetto della funzione omicidiale connessa con l’esercizio della sovranità del popolo universale, il nemico metafisico si trasforma in pura contaminazione razziale. La razza non è una deviazione del pensiero, ma la forma ontostorica dell’etnia capace di assumere su di sé la responsabilità universale. Dinanzi a questo compito, il nemico metafisico, privo di forma, prende facilmente l’aspetto del rischio pandemico. Non si tratta di autoannientamento quindi (mera autogiustificazione), ma di una pura profilassi connessa con una data visione dello sviluppo della storia dell’essere, si tratta di abbattere l’intera mandria malata. Nell’analizzare l’uso che Heidegger fa del pensiero razziale, Trawny mette in luce il nesso tra l’antisemitismo che alligna nel suo pensiero e le leggi di Norimberga: la necessità di una protezione del sangue tedesco, predicato dalle leggi di Norimberga, presuppone un principio patologico dal quale bisogna difendersi. Heidegger interpreta ciò come la necessità di un “impiego illimitato” del “principio razziale” come misura di sicurezza all’interno di un conflitto onto-storico (epocale, globale) contro il mondializzarsi della tecnica (macchinazione), destinalmente affidato ai tedeschi (istanza particolare con ruolo universale). [14]

L’heideggerismo è cioè una narrazione che mira a legittimare un pensiero non meno sotterraneo, artificioso e astratto di quello da cui vorrebbe distinguersi, non meno estraneo alla nostra vita e ai problemi a noi più prossimi. Una narrazione che mira cioè a creare un collegamento con la vita e l’esistenza degli uomini, proteso all’effettualità politica, ma eretto per mezzo di un mito. Un mito che intesse la farneticazione di un legame privilegiato e speciale dei Tedeschi con il pensiero Greco; il racconto del primo e dell’Altro inizio, rispettivamente quello dei Greci (presocratici) e quello dei Tedeschi (lui stesso); il mito dell’ultimo dio (l’implosione del mondo della tecnica) e del veniente (la palingenesi) e, naturalmente, il mito di tutto ciò che vi si oppone, perché un nemico è sempre necessario — la cospirazione ebraica.

Ora, questo secondo elemento, la scoperta che per Heidegger il nemico del pensiero e dell’umanità protesa alla conquista di un nuovo inizio è l’ebreo, mina — è questo il senso del bailamme seguito alla pubblicazione dei Quaderni neri — la tenuta della narrazione. La scoperta che per Heidegger l’ebreo è il “tecnico” della macchinazione e il “demone” dello sradicamento planetario, smaschera appunto l’heideggerismo come mito. L’antisemitismo di Heidegger denuncia cioè la consistenza mitica del racconto heideggeriano, con il tedesco in posizione di popolo universale e l’ebreo in posizione di istanza diffusa e proteiforme-confusiva; il tedesco in posizione di popolo filosofico proteso al superamento del dominio della tecnica e l’ebreo in veste di agente segreto dello sradicamento e della macchinazione; l’ultimo dio come testimone della battaglia escatologica e il veniente come speranza in una palingenesi annunciata dall’ultimo filosofo.

Heidegger non produce direttamente i suoi miti, li estrae, grazie a un’incontestabile abilità ermeneutica, dalla grande poesia di lingua tedesca, e in tal modo viene proponendo una sorta di corto circuito tra poetare e pensare. Il poetare genera l’in-canto della disponibilità dell’arcaico (mito); il pensare, attraverso quell’abilità parergonale che consta nel cardare, rifilare, intrecciare e intessere le metafore (sofistica), viene generando l’impressione dell’imminenza apocalittica di un futuro Regnum o, in altri termini, l’impressione di un’effettualità politica del mito. Ebbene, questo delicato congegno si è rotto, il gioco non funziona più, si aprono quindi varie ipotesi di lavoro. Eccole: ripulire certosinamente Heidegger, tagliar via gli anni Trenta, la narrazione onto-storica, dismetterlo completamente… la mia ipotesi, per studiosi volenterosi, è che lavorare con e su Heidegger dovrebbe significare portare alla scoperto (aletheuein) il fatto che la pansée-vingtième-siècle, nella sua linea nietzschiano-heideggeriana, è anzitutto il sistema dell’antisemitismo, che questo fatto non può essere aggirato e che deve pertanto essere affrontato e affrontato a partire dalla sua mutazione e dissimulazione presso di noi.


[1] Cfr. R. De Monticelli, intervento alla “Giornata di studio su «Antisemitismo e antigiudaismo nel pensiero filosofico». Prima parte”, Università San Raffaele, Milano, 27 marzo 2015: https://www.youtube.com/watch?v=tOIZ_GiA-78 (03.20.00-46.41.00).

[2] Cfr. V. Vitiello, intervento alla “Giornata di studio su «Antisemitismo e antigiudaismo nel pensiero filosofico». Prima parte”, cit., 00.47.00-01.18.44.

[3] Si muove in questa prospettiva Roberta De Monticelli. Cfr. per esempio, oltre alla già vitata “Giornata di studio su «Antisemitismo e antigiudaismo nel pensiero filosofico». Prima parte”, R. De Monticelli, “L’Essere in guerra con l’ente. Heidegger, la questione dei «Quaderni neri» e la cosiddetta «Italian Theory»”, Micromega. Il rasoio di Occam, 1° aprile 2015; si veda anche l’intervento al convegno: “Il futuro della filosofia”, Università San Raffele, Milano, 18 dicembre 2012: https://www.youtube.com/watch?v=F9fMT6SMxVs (50.15.00-1.08.05), ma anche S.G. Azzarà, Pensare la rivoluzione conservatrice, La Città del Sole, Napoli 2004 e Id., “Heidegger ‘innocente’: un esorcismo della sinistra postmoderna”, Micromega 2/2015).

[4] Citato in F. Buonarroti, Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf, sez. Documenti, a cura di G. Manacorda, p. 271. Cfr. anche J.-F. Lyotrad, “Memorandum sulla legittimità”, in Id., Il postmoderno spiegato ai bambini, trad. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 60-61.

[5] E. Husserl, La crisi delle scienze europee quale espressione della crisi radicale di vita dell'umanità europea, in L’obiettivismo moderno, a cura di G.D. Neri, Il Saggiatore, Milano 1976, p. 12.

[6] M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, trad. it. di A. Giolitti, Einaudi, Torino 1980, pp. 21-22.

[7] Cfr. M. Foucault, Difendere la società. Dalla guerra delle razze al razzismo di stato, a cura di M. Bertani e A. Fontana, Ponte alle grazie, Firenze 1990; Feltrinelli, Milano, 1997. Lezione XI, 17 marzo 1976.

[8] Cfr. M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), GA 96, a cura di P. Trawny, Klsotermann, Frankfurt am Main 2014, p. 243 [num. int. p. 121].

[9] Il riferimento è a M. Heidegger, Die Selbstbehauptung der deutschen Universität: «Nur dann, wenn wir uns wieder unter die Macht des Anfangs unseres geistig-geschichtlichen Daseins stellen. Dieser Anfang ist der Aufbruch der griechischen Philosophie. Darin steht der abendländische Mensch aus einem Volkstum kraft seiner Sprache erstmals auf gegen das Seiende im Ganzen und befragt und begreift es als das Seiende, das es ist. Alle Wissenschaft ist Philosophie, mag sie es wissen und wollen - oder nicht. Alle Wissenschaft bleibt jenem Anfang der Philosophie verhaftet. Aus ihm schöpft sie die Kraft ihres Wesens, gesetzt, daß sie diesem Anfang überhaupt noch gewachsen bleibt». Per un'analisi meticolosa del passo, vedi A. Marini, «I filosofi tedeschi e la “crisi”: crisi d’esistenza e crisi dell’università in M. Heidegger. Il Discorso di rettorato (Rektoratsrede, 1933)», corso di Storia della filosofia moderna e contemporanea, Università degli studi di Milano, A.A. 1987/88, dattiloscritto, Biblioteca di Filosofia, Lezione VIII, pp. 90-103, segnatamente p. 98. Del corso esiste una versione pdf delle prime 8 lezioni reperibile in rete, http://www.filosofiacontemporanea.it/martin-heidegger-die-rektoratsrede-1933-il-discorso-di-rettorato/ (qui il rif. segnato è alle pp. 146-147).

[10] Cfr. A. Marini, cit., p. 101. Versione pdf, cit., p. 148.

[11] Nur dann, wenn wir uns wieder unter die Macht des Anfangs: solo se noi ci poniamo di nuovo sotto la potenza dell’inizio…

[12] Cfr. M. Heidegger, L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul Teeteto di Platone, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1997, p. 32. Cfr. anche P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, trad. it. di Chiara Caradonna, Bompiani, Milano 2015, pp.14-15.

[13] Per la traduzione di “Volkstum” con “etnia” riprendo la lezione di Alfredo Marini. Cfr. Id. «I filosofi tedeschi e la “crisi”…», pp. 140 e 146 della citata versione pdf.

[14] Cfr. P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, cit., pp. 30-31. Il rif. è a M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), GA 96, cit., p. 56 [num. int. p. 82], §38.


Marco Baldino, Bellano (Lc) 1955, è autore di saggi e articoli sul tema della località filosofica e sul problema dell'accesso al pensiero. Nel 1990 ha fondato la rivista italiana di geofilosofia Tellus, che ha diretto fino al 2001. È curatore e coautore dei volumi: Geofilosofia (Lyasis, 1996); Sul liberalismo (Labos, 2000); Per una filosofia free-lance (Labos, 2001). Ha tradotto brevi scritti di Martin Heidegger, Georges Bataille, Gilles Deleuze e Stéphane Mosès. È autore del volume Margini e paraggi. La filosofia dell'ultimo Novecento (Aracne, 2012). Attualmente è coeditor della la rivista di cultura filosofica Kasparhauser.




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