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Quel che resta dell’utopia | Kasparhauser 14
A cura di Giuseppe Crivella




I. UTOPIA, I SIGNIFICATI E LA STORIA
I.3 Eutopia e disincanto

Novembre 2016

Ma se L’utopia di Thomas More può valere a tutti gli effetti come un caso di Figmentum utopicum, quale può essere un buon esempio di eutopia? È sempre Koselleck a suggerire una risposta a tale questione. Più o meno negli stessi anni in cui il concetto di utopia subiva massicci rimaneggiamenti ed entrava di diritto nel contesto della progettualità politica a lungo raggio, in Olanda appariva anonima per ovvi motivi l’opera piuttosto originale — e alquanto significativa ai fini della nostra ricostruzione — del francese Louis-Sébastien Mercier L’an deux mille quatre cent quarante. [1] Già il solo titolo risulta straordinariamente emblematico: una data, una precisa collocazione temporale, una indicazione cronologica determinata e vaga allo stesso tempo che situa l’autore e il lettore in un futuro lontano ma reale, identificato dalla notazione dell’anno, la quale viene così a suggerire la possibilità di raccordare il momento effettivo della stesura del testo con il periodo storico in cui i fatti riportati si svolgono.

Rispetto alla vaghezza cronologica dell’Utopia di More, il figmentum di Mercier rappresenta una proiezione tutt’altro che fantastica o immaginaria. Esso mira a saldare tempo presente e tempo futuro in una traiettoria di continuità serrata e determinata. Se il mondo sognato da More era slegato rispetto alla realtà presente in cui egli viveva e si contrapponeva a questo a tal punto da essere svincolato rispetto alla sua effettiva dimensione esistenziale, non solo sotto il profilo temporale ma anche e soprattutto sotto quello geografico-spaziale [2] — l’isola indica un luogo privo di contatti possibili — con Mercier abbiamo una versione dell’utopia del tutto diversa e contrapposta a quella dell’inglese.

Ma di che cosa parla L’an deux mille quatre cent qurante? Si tratta del resoconto di un viaggio immaginario che l’autore, un parigino della fine del Settecento, compie nella Parigi del 2440. Il vettore dello spostamento temporale qui è legato all’escamotage del sogno, il quale tuttavia non opera in questo caso come un dispositivo derealizzante, ma al contrario, serve solo a delocalizzare il narratore trasportandolo in una realtà diversa ma non meno effettiva di quella di partenza. È chiaro che con l’opera di Mercier l’utopia ha perso ogni caratterizzazione di fuga immaginaria dal mondo per entrare di diritto nelle formulazioni postulatorie che si riferiscono a quest’ultimo con i connotati palesi di un programma/progetto politico-sociale da realizzare nell’avvenire.

La Parigi di Mercier è una Parigi che, agli occhi dell’autore-personaggio, appare progredita sotto tutti gli aspetti: da quello urbanistico — con una chiara razionalizzazione della rete stradale, sia interna al nucleo cittadino che esterna, e della disposizione delle abitazioni in rapporto a tale rete — a quello propriamente socio-politico — interessantissima, ad esempio, è la sezione dedicata alla nuova posizione delle donne nel vivere civile.

Va detto immediatamente che la visione prognostica di Mercier è fortemente intrisa di umori e suggestioni facilmente riferibili al contesto culturale di provenienza. Ciò vuol dire che la sua utopia in realtà non è altro che una sorta di raffinata esasperazione di fermenti culturali latenti o clandestini al suo tempo, divenuti legittimi e dominanti invece nella Parigi del 2440. Ciò non toglie però che, a fronte della Utopia di More, questa versione risulti molto più prossima all’idea di una concreta proiezione politica contrassegnata dalla volontà di rendere reale quanto finora è stato solo immaginato, lasciando così anche intendere che la più alta forma di Realpolitik può declinarsi positivamente e proficuamente con una dose tutt’altro che trascurabile di immaginazione. [3] È chiaro quindi come e quanto Mercier non faccia altro che dare narrativamente spazio ad un teorema che poi prenderà piede soprattutto nel tardo Illuminismo e che troverà nella Encyclopédie il suo manifesto più dettagliato: l’idea del miglioramento, del progresso infinito, della immanentizzazione delle capacità realizzative dell’uomo, la laicizzazione del tempo storico e la modificazione degli orizzonti d’attesa aperti in maniera sempre più ottimistica sul futuro sono tutti elementi che ne L’an 2440 si trovano già tutti dispiegati.

Ma è necessario osservare che tale processo di conversione del Figmentum utopicum in Figmentum verum — da segnalare inoltre la scomparsa della seconda tipologia, quello heterocosmicum — cela anche un risvolto drammaticamente negativo: se è vero infatti che Mercier progettava una sorta di società perfetta libera da ogni forma di potere assoluto e arbitrario, è anche vero che nei decenni successivi alla Rivoluzione Francese — all’evento epocale che avrebbe dovuto e potuto porre i presupposti effettivi perché il programma de L’an 2240 si concretizzasse — si misero in moto quei meccanismi regolativi del vivere civile che, pur postulando un’organizzazione non dipendente da forme repressive di ordine e controllo, finirono col dare luogo al Terrore. Nota a proposito di ciò Koselleck: tutto ciò che Mercier ha previsto, pensato in termini positivi, si è realizzato in un senso negativo. Infatti, la descrizione di un sistema terroristico da lui connotata con tratti positivi, è grosso modo applicabile a ciò che è avvenuto fra il 1793 e il 1794. Mercier stesso fu molto fortunato. Egli era un girondino, fece parte dell’Assemblea Nazionale, fu imprigionato, sfuggì per poco alla ghigliottina. Successivamente, ai tempi del Direttorio, divenne direttore di una lotteria. La lotteria però era una di quelle iniziative torbide e immorali che lui aveva già abolito nel suo romanzo. Così l’ironia del destino volle che, dopo essere scampato alla morte sul patibolo, egli dovesse dedicarsi a un’attività riprovevole, da lui tanto disprezzata. Le cose erano andate diversamente da come aveva immaginato. La sua visione del futuro si è avverata, ma con un segno negativo. [4] Ma che cosa era successo? Il salto dalla utopia alla eutopia avviene, come visto, poiché la storia o, per meglio dire, una forma complessa e articolata di temporalizzazione irrompe massicciamente nella prima modificandone i caratteri, trasfigurandola pesantemente così da renderla non più una produzione immaginaria ma una interrogazione mirata che il presente rivolge al futuro. Ma anche l’eutopia è soggetta a trasformazioni e adulterazioni: se da una parte essa si proietta nell’avvenire carica di umori ancora inesplicati nel presente ma forieri di ipotesi attuative concrete, dall’altra parte essa, nel momento in cui si trova ad essere realizzata, per forza di cose finisce con l’essere del tutto depotenziata, deformata, tradotta in formulazioni politiche che ne tradiscono il nucleo portante. Eutopia e storia in sostanza non si sovrappongono mai, piuttosto si incrociano per divergere subito, si accavallano in una difficile complicità presto spezzata, sembrano collimare, ma invece collidono in una controversa immagine del tempo che finisce non tanto con il confermare i “buoni propositi” della prima con le concrete attuazioni delle seconda, ma piuttosto inquinare e deturpare l’eutopia con le “cattive azioni” della storia.

Viste in questa nuova accezione utopia e eutopia non solo coincidono ma si caricano di un portato semantico sensibilmente controverso: esse alludono ad un altrove del tempo, ma tale altrove — sebbene sembri apparentemente legato e connesso da una sottile ma resistente trama storica all’attualità di chi sogna e postula — è comunque destinato ad essere eluso o mancato, scavalcato da tutti i possibili sviluppi del tempo, finendo con l’essere realizzato unicamente in un modo scorretto, deforme, alterato, infedele.

L’(e)utopia designa così un deragliamento della storia, uno spazio eccedente in modo illusorio — per non dire illusionistico — la realtà, un’istanza progettuale da cui siano stati espunti tutti i margini di concretizzazione che essa sembrava aver assunto consapevolmente su di sé nel corso del Settecento. Se l’(e)utopia nell’arco del Seicento si profilava come un sogno del presente, ora è il futuro che sembra trasformarsi in un incubo — prossimo a diventare realtà — generato dall’utopia stessa.

Marx, come sappiamo, recepirà il termine /utopia/ carico di queste sfumature semantiche controverse. La temporalizzazione dell’utopia non l’ha semplicemente ricollocata nel divenire storico, ma l’ha piuttosto miserevolmente trasformata in un cascame storico pseudo-filosofico, il quale pertanto non ha più diritto di cittadinanza in seno al materialismo dialettico. È proprio per questo motivo che Saint-Simon appare agli occhi dell’autore del Capitale sia come un suo antesignano, sia come sia come un teorico del socialismo assolutamente inattendibile.

Sarà pertanto dalla recisa modificazione del paradigma epistemologico scelto da Saint-Simon che Marx ripartirà tramite una critica talmente profonda da sradicare dalle fondamenta i postulati propri della progettazione socio-politica, i quali vengono del tutto epurati da ogni compromissione con la filosofia per essere definitivamente — almeno nelle intenzioni di Marx — trapiantati nella scienza. [5] Il salto dal socialismo à la Saint-Simon al socialismo marxiano segna il passaggio dall’utopismo — una forma quasi irrazionalistica di pensiero [6] — alla scientificità. Ecco allora che con l’entrata in scena dell’autore del Capitale la scienza appare come una dea sfolgorante capace di illuminare la coscienza e la conoscenza progettuale dell’uomo, al fine di condurre la società da uno stato di squilibrio ad uno di perfezione attraverso un cammino le cui tappe siano ben identificate e scandite.

Se Mercier aveva fatto ricorso a un’ellissi narrativa per saltare dalla Francia del Settecento alla Parigi del 2440, Marx intervenne proprio per evitare questa forma di progettazione lacunosa: l’approccio scientifico sta proprio nella sua capacità di delucidazione capillare dei passaggi obbligati, delle fasi di evoluzione che la società deve attraversare. Troppo vaga, troppo imprecisa, troppo onirica l’(e)utopia, agli occhi di Marx, serviva solo a disinnescare le istanze di cambiamento. La scienza assorbe così la filosofia e richiama il pensiero ad un compito preciso e rigoroso di analisi fattuale, escludendo così l’utopia dal proprio campo.

Ma quest’ultima non morirà. Essa abiterà silenziosa per lungo tempo i confini sfrangiati della scienza, pronta a riappropriarsi del centro della riflessione in modo inaspettatamente sinistro non appena diventerà necessario illuminare l’inemendabile volto d’ombra che lo strano connubio di scienza e realtà per forza di cose cela in sé.

Come visto finora, l’utopia poteva continuare ad esistere soltanto convertendosi nelle forme legittime di un disegno razionale a lungo raggio ma il cui campo d’azione dovesse comunque essere circoscritto nel tempo. Ma, per sommo paradosso, è proprio quando la ragione irrompe nel campo della ricerca sociale che l’utopia si trova non solo ormai del tutto spodestata dal proprio luogo naturale, ma anche privata dei propri diritti minimali di esistenza, esclusa e disattivata nelle sue specifiche potenzialità — o velleità — ora decisamente rivoluzionarie, ora semplicemente riformistiche.

Se l’utopia infatti era nata come un caso particolare di un dato (sotto)genere letterario che rientrava a sua volta tra le tipologie dei racconti di finzione, essa, nell’arco di meno di un secolo, aveva subito una pesante modificazione endogena, penetrando in modo massiccio nel discorso e nella riflessione propriamente politici, per esserne poi esclusa in quanto refuso ascrivibile sine cura ad un sistema di cognizioni e metodologie appartenenti ad una sorta di preistoria della ragione. Il processo di razionalizzazione e temporalizzazione dell’utopia realizzatasi nei Lumi da una parte porta la stessa utopia a palesarsi come strumento elettivo di una critica puntuale del reale, dall’altra finisce col derubricarla come un dispositivo le cui formulazioni non possono non risultare al riscontro fattuale del tutto fuorvianti e inattendibili. Colta pertanto secondo questa nuova ottica, l’utopia non può non rivelarsi come una struttura svuotata di ogni capacità non solo analitica, ma anche e soprattutto predittiva.

Ma l’utopia, seppur diventata un’entità umbratile priva di statuto chiaro o definito, non si estingue. È difficile dire quale sia il processo di radicale mutazione che la colpisce nel periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi trent’anni del Secolo Breve; tuttavia in questo periodo essa rimane come in incubazione, prossima a rinascere quasi della proprie ceneri con una forza e una identità nuove e felicemente destabilizzanti.

È senza dubbio Karl Mannheim colui che con più attenzione si è occupato dell’osservazione ravvicinata di questo fenomeno indefinibile che era l’utopia. Egli, attivo presso l’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte fino al ’33, pubblicò nel 1929 un saggio dal titolo più che eloquente, Ideologia e utopia, [7] a tutt’oggi ancora illuminante per capire le traversie della nozione di utopia in questo arco di tempo. È significativo infatti che tale nozione riappaia proprio presso un gruppo di studiosi di orientamento marxista [8] e soprattutto si imponga all’attenzione dell’autore legata al concetto apparentemente così diverso e difforme da essa come quello di ideologia. Mannheim dedica all’utopia il quarto capitolo del saggio, incassando La mentalità utopica — questo il titolo della sezione in esame — tra uno studio delle Prospettive della politica scientifica e una delineazione della Sociologia della conoscenza. Come è possibile vedere da questi pochi cenni l’utopia non è più un genere letterario ma un abito mentale. Ad essa non appartiene più il campo della prospezione politica, indagato non a caso nel capitolo immediatamente precedente, e neppure è interessata alla dimensione propriamente conoscitiva, di cui si occupa invece il quinto capitolo.

Il profilo dell’utopia che ci offre Mannheim è piuttosto critico: inquadrandola infatti all’interno di una intersezione alquanto mossa e plurale di prospettive di ricerca, egli passa in rassegna quattro forme di mentalità utopica per soffermarsi poi sulla sua condizione nella realtà a lui attuale. Tralasciando qui lo scorcio storico delle quattro forme, è bene riportare le conclusioni a cui l’autore perviene in questa ultima parte, ove egli afferma: il processo teso a distruggere completamente tutti gli elementi spirituali, utopici come ideologici, trova il suo equivalente nelle più recenti correnti della vita moderna e nelle tendenze corrispondenti che si affermano nel campo dell’arte. Non dobbiamo forse interpretare la scomparsa di ogni traccia d’umanitarismo nell’arte, l’emergere della concretezza nella vita sessuale, nell’arte e nell’architettura, e lo sfogo degli impulsi naturali nello sport, come altrettanti sintomi del crescente regresso degli elementi utopici e ideologici in quegli strati che stanno per assumere il dominio della realtà presente? Non devono forse la graduale riduzione della politica all’economia (del che esiste una forte tendenza), il deciso rifiuto del passato e di ogni consapevolezza storica, la premeditata elusione di ogni ideale spirituale venire considerati come la scomparsa di tutte le forme dell’utopia dall’arena politica? [9] Ideologia e utopia manifestano una strana e fino ad ora insospettata gemellarità. In entrambe il presente si afferma nelle sue strutture e disposizioni statiche. Esse concorrono a una conservazione della situazione attuale e non ad una propulsione trasformativa del reale. Anche l’utopia partecipa a questa vasta disattivazione delle istanze rivoluzionarie poiché nella ricostruzione che ne offre lo studioso tedesco essa da una parte appare come una istanza metodologicamente inadeguata per analisi ravvicinate della realtà — cosa che la conduce lontanissimo da ogni forma di «realismo critico» — dall’altra essa non riesce mai a palesare in modo cristallino i suoi rapporti con la/e ideologia/e dominanti, così che essa piuttosto che essere uno strumento per sognare realizzazioni diverse da quelle concrete, finisce col consolidare forme di vita e di potere già presenti in fieri nella realtà. Ecco infatti cosa dice Mannheim in proposito: poiché la concreta determinazione di ciò che è utopico procede sempre da una certa situazione, è possibile che le utopie di oggi divengano le realtà di domani […]. Ogni qual volta un’idea è chiamata utopica, a ritenerla tale è quasi sempre un rappresentante di un’epoca già trascorsa. D’altra parte la qualifica che si attribuisce alle ideologie di idee illusorie, adattate all’ordine presente, è generalmente opera dei rappresentanti di un mondo in fase di emergenza. È sempre il gruppo dominante, in pieno accordo con l’ordine vigente, a determinare ciò che deve essere considerato come utopico, mentre è il gruppo in ascesa e in contrasto con la situazione di fatto a stabilire quanto deve venire riguardato come ideologico. Un’ulteriore difficoltà nella definizione dell’elemento ideologico e utopico in un certo periodo deriva dal fatto che le utopie e le ideologie non si danno separatamente nel processo storico. Le utopie delle classi ascendenti sono spesso e in larga misura permeate da fattori ideologici. [10]
gc


[1] R. Koselleck, Il vocabolario della Modernità, a cura di C. Sandrelli, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 205-208.
[2] Ecco come More presenta la geografia del territorio dove sorge Utopia: «Situm est igitur Amaurotum, in leni deiectu montis, figura fere quadrata. Nam latitudo eius paulo infra collis incoepta uerticem, millibus passuum duobus ad flumen Anydrum pertinet, secundum ripam aliquanto longior. Oritur Anydrus milibus octoginta supra Amaurotum, modico fonte, sed aliorum occursu fluminum, atque in his duorum etiam mediocrium auctus, ante urbem ipsam, quingentos in latum passus extenditur, mox adhuc amplior, sexaginta milia prolapsus, excipitur oceano. Hoc toto spacio, quod urbem ac mare interiacet, ac supra urbem quoque aliquot milia, sex horas perpetuas influens aestus, ac refluus alternat celeri flumine. Quum sese pelagus infert, triginta in longum milia, totum Anydri alueum suis occupat undis, profligato retrorsum fluuio». Si tratta di una geografia pensata all’insegna della separazione dal resto del mondo.
[3] Si tratta in sostanza di quella variante méphistophélique dell’utopia ben studiata da Ruyer (cfr R. Ruyer, L’utopie et les utopies, PUF, Paris 1950, p. 237). Va detto che che Ruyer vede attuarsi questa torsione negativa nel modo in relazione all’opera di Bulwer Lytton.
[4] R. Koselleck, Il vocabolario, cit., p. 141.
[5] Riguardo a questo passaggio cfr Th. Molnar, L’utopia eresia perenne, a cura di C. Bianchi, Borla, Torino, 1968, pp. 107-124.
[6] «L’utopista è indiscutibilmente un uomo irrazionale», Ivi, p. 146.
[7] K. Mannheim, Ideologia e utopia, a cura di A. Izzo, Il Mulino, Bologna 1997.
[8] Adorno, tra gli altri, ricuserà molte tesi del volume di Mannheim, sposando posizioni più prossime a quelle blochiane.
[9] K. Mannheim, Ideologia e utopia, cit., p. 251-252. Corsivo nostro.
[10] Ivi, p. 200. Corsivo nostro. Su questo aspetto cfr M. Baldini, Il linguaggio delle utopie, Studium, Roma 1974, soprattutto pp. 119-137 e 221-224, quest’ultima sezione dedicata proprio a Mannheim.



Jean de Gourmont, La cave, 1537

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