Kasparhauser





Rivista di cultura filosofica
2016


Home


Monografie


Culture Desk


Ateliers


Chi siamo


Info



Quel che resta dell’utopia | Kasparhauser 14
A cura di Giuseppe Crivella




II. DIALETTICA DELL’UTOPIA | APPENDICE 2
[Utopia delle immagini, atopie del reale]*
di Jean Baudrillard

(traduzione di Giuseppe Crivella)

Novembre 2016

Ciò che voglio evocare a proposito dell’immagine in generale (l’immagine dei media, l’immagine tecnologica) è la perversità della relazione dell’immagine e del suo referente, il supposto reale, la confusione virtuale e irreversibile della sfera delle immagini e della sfera di una realtà di cui noi possiamo sempre di meno cogliere il principio.

Sono molti i modi di questo assorbimento, di questa confusione, di questa seduzione diabolica delle immagini. Ciò che bisogna mettere in dubbio, in un modo radicale, è il principio di una referenza dell’immagine, stratagemma tramite cui essa dà sempre l’aria di riferirsi a un mondo reale, a degli oggetti reali, di riprodurre qualcosa che le sarebbe logicamente e cronologicamente anteriore. Nulla di tutto questo è vero. In quanto simulacro, l’immagine precede il reale nella misura in cui essa inverte la successione logica, causale, del reale e della sua riproduzione. Benjamin aveva già fortemente puntato l’attenzione su questo, su questa rivoluzione moderna dell’ordine della produzione (del reale, del senso) tramite la precessione, l’anticipazione della sua riproduzione, nel suo saggio intitolato L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

È precisamente qui che essa appare più veridica, più fedele, più conforme al reale (e le nostre immagini tecniche, che siano foto, cinema o televisione, sono nella loro immensa maggioranza molto più «figurative», «realiste» di tutte le immagini delle culture passate) — è qui precisamente che l’immagine è la più diabolica, è nella sua rassomiglianza (non più soltanto analogica, ma tecnologica) che l’immagine è la più immorale e la più perversa.

Già lo specchio e la sua apparizione hanno introdotto nel mondo delle percezioni un effetto ironico di trompe-l’oeil e si sa quale maleficio si ricolleghi all’apparizione del doppio. Questo è vero anche di tutte le immagini che ci circondano — le si analizza in generale in funzione di una presenza e di un senso. Nella loro immensa maggioranza, le immagini attuali, foto, cinema, televisione, sono ritenute testimoniare il mondo con una rassomiglianza ingenua, con una fedeltà toccante. Noi riconosciamo loro spontaneamente una affidabilità nel loro realismo. Abbiamo torto. Esse fanno semplicemente finta di rassomigliare alle cose, al reale, agli eventi, ai volti. O piuttosto esse sono veramente conformi, ma è il loro stesso conformismo che è diabolico.

Si potrebbe trovare un equivalente sociologico e politico di questo conformismo diabolico, di questo malin génie del conformismo nel comportamento moderno delle masse che sanno obbedire così bene ai modelli che gli si propone, sanno riflettere così bene gli obiettivi che gli si impone e in tal modo si riesce ad assorbirle e ad annientarle. C’è in questo conformismo una potenza di seduzione nel senso letterale del temine, vale a dire di sviamento, di distorsione, di captazione e fascinazione ironica.

Più generalmente, non è nel suo ruolo di riflesso, di specchio, di contropartita del reale, di forma rappresentativa che l’immagine è interessante, ma è quando essa comincia a contaminare il reale e a modellizzarlo, quando essa non si conforma più al reale che per deformarlo meglio, quando essa assottiglia il reale a suo profitto, quando essa lo anticipa in modo tale che questo non ha più il tempo di prodursi in quanto tale.

Nella relazione dialettica del reale e dell’immagine (che noi vogliamo credere dialettica, vale a dire leggibile nel senso che va dal reale all’immagine) da tempo l’immagine ha avuto la meglio e ha imposto la sua propria logica, una logica immanente, effimera, senza profondità, immorale, al di là del vero e del falso, al di là del bene e del male, logica di sterminio del suo proprio referente, logica di implosione del senso in cui il messaggio scompare all’orizzonte del medium. Lassù noi rimaniamo collettivamente presi da una ingenuità incredibile, noi pretendiamo sempre di trovare un buon uso, vale a dire un uso morale, sensato, pedagogico, informazionale, dell’immagine, senza vedere che l’immagine si rivolta in qualche modo contro questo buon uso, essa non è conduttrice del senso né del buon senso, ma al contrario di una implosione, di una denegazione del senso (dell’evento, della storia, della memoria, ecc). Pensiamo all’episodio di Holocausto, trasmissione televisiva sui campi di sterminio.

Per tutti questi motivi io non credo a una pedagogia dell’immagine, né a quella del cinema, né a fortiori a quella della televisione. Io non credo a una dialettica dell’immagine e del reale, né quindi, in fatto di immagine, a una pedagogia del messaggio e del senso. Il segreto dell’immagine (parliamo sempre delle immagini tecniche e contemporanee) non deve essere cercata nella sua distinzione con il reale e quindi nel suo valore di rappresentazione (valore estetico, critico o dialettico), ma al contrario nel suo rapporto telescopico con il reale, nel suo cortocircuito con il reale e in fine nella implosione dell’immagine e del reale — esiste per noi una indistinzione definitiva dell’immagine e del reale che non lascia più spazio alla rappresentazione in quanto tale.

Questa collusione dell’immagine con la vita, dello schermo con la vita quotidiana voi la sperimentate tutti i giorni come la cosa più naturale del mondo. In America in particolare, ove non vi è un fascino minore rispetto all’esterno delle sale cinematografiche, tutto il paese è cinematografico. Percorrete il deserto come un western, le metropoli come uno schermo continuo di segni e di formule. La vita è un travelling, ovvero un percorso cinetico, cinematico, cinematografico. C’è lo stesso livello di piacere rispetto a una città italiana o olandese in cui, lasciando i musei, voi ritrovate una città a immagine della pittura, come se esse fossero uscite da quelle sale. C’è qui una sorta di miracolo che ridà, anche nella banalità americana, una sorta di forma estetica, confusione ideale che la trasfigura come in sogno. È qui che il cinema non riveste la forma eccezionale di un’opera (anche geniale), è qui che esso investe la vita intera di una ambientazione mitica, è qui che esso è veramente appassionante. Per questo l’idolatria delle stars, il culto degli idoli holliwoodiani non è un patologia mediatica, ma è una forma gloriosa di cinema, la sua trasfigurazione mitica, l’ultimo grande mito forse della nostra modernità. Proprio nella misura in cui l’idolo non rappresenta niente, ma si consegna come una pura immagine passionale, contagiosa, che cancella la differenza tra il reale e la sua assunzione nell’immaginario.

Le stars non sono un supporto romanzesco. Esse sono un ideale violentemente realizzato. Si dice: esse fanno sognare, ma sognare è altra cosa dall’essere affascinato da immagini. Ora gli idoli dello schermo sono immanenti allo svolgimento della vita in immagini. Esse sono un sistema della prefabbricazione lussuosa, sintesi brillanti di stereotipi della vita e dell’amore. Esse incarnano una sola passione: quella dell’immagine e l’immanenza del desiderio nella immagine. Esse non fanno sognare, esse sono il sogno, di cui hanno tutte le caratteristiche: producono un forte effetto di condensazione (di cristallizzazione), di contiguità (sono immediatamente contagiose); e soprattutto esse hanno quel carattere di materializzazione visuale istantanea (Anschaulichkeit) del desiderio che è anche quello del sogno. Esse non conducono quindi alla immaginazione romanzesca o sessuale, esse sono visibilità e trascrizione immediate, collage materiale, precipitazione del desiderio nell’immagine. Feticci, oggetti-feticcio che non hanno nulla a che vedere con l’immaginario, ma completamente compromessi con la finzione materiale dell’immagine.

Questa fascinazione bruta, al di qua o al di là di ogni determinazione morale o sociale, non è quella del sogno o dell’immaginario intesi nel senso tradizionale. Altre immagini hanno saputo farci sognare o immaginare, la pittura, il disegno, il teatro, l’architettura e altri mezzi di espressione (senza dubbio il linguaggio fa sognare molto meglio dell’immagine). C’è qualcos’altro oltre a questo e che è proprio delle nostre immagini-media moderne: se esse ci affascinano a tal punto non è perché esse siano un luogo di produzione di senso e di rappresentazione, ma perché esse sono al contrario il luogo della scomparsa del senso e della rappresentazione — un luogo che ci tiene sospesi da ogni giudizio di realtà, quindi il luogo di una strategia fatale di denegazione del reale e del principio di realtà.

Siamo giunti al paradosso che l’immagine, le nostre immagini, quelle che si infrangono sulla nostra quotidianità, che invadono la nostra vita e la cui proliferazione è potenzialmente infinita (là dove l’estensione del senso è sempre limitata proprio dalla sua fine, dalla sua finalità — l’immagine in fondo non ha alcuna finalità e procede per contiguità radicale, moltiplicandosi secondo un processo epidermico irresistibile, che nessuno può oggi controllare — il nostro mondo è divenuto davvero infinito, o piuttosto esponenziale tramite l’immagine, preso in una corsa folle all’immagine, in una fascinazione sempre più grande che non fa che accentuarsi con il video e l’immagine digitale), noi siamo quindi giunti al paradosso che queste immagini descrivono per noi l’impossibilità del reale e dell’immaginario.

Tra il reale e l’immaginario e rompendo la bilancia tra questi due, il medium, il medium-immagine si è imposto per noi con una sorta di fatalità che ha la sua logica specifica. Io dico che abbiamo qui un processo fatale nel senso di una immanenza definitiva dell’immagine, senza trascendenza possibile di senso, senza dialettica possibile della storia — fatale anche nel senso esponenziale: non più di sviluppo lineare delle immagini e del messaggi, ma di enroulement esponenziale del medium attorno a se stesso. La fatalità è in questo imbozzolamento senza fine (letteralmente: senza destinazione) delle immagini che fa in modo che non vi sia più altro destino per l’immagine che l’immagine. La stessa cosa si produce oggi ovunque, dal momento che non vi è più altro destino per la produzione che la produzione stessa – poiché non vi è più altro destino per il sesso che il sesso — sovradeterminazione sessuale della sessualità. Questo processo è oggi ovunque recuperabile, sia nel bene che nel male. Quindi nell’assenza di regole del gioco le cose mettono in opera la propria strategia e l’immagine diventa più reale del reale e il cinema diventa più cinema del cinema in una sorta di vertigine in cui esso non fa altro che rassomigliare a se stesso, fuggendo nella sua propria logica, nella perfezione del suo stesso modello.

Da qui deriva, credo, la dimensione erotica specifica della nostra imagerie attuale. In molti casi questa imagerie erotica e pornografica — tutta quella panoplia pubblicitaria di seni, di cosce, di sessi, lo squadernarsi del corpo nudo e del corpo sessuale — non ha altro senso che questo: non la sollecitazione di qualche desiderio, ma la rappresentazione della oggettività inutile delle cose (là dove la seduzione è una sfida alla oggettività inutile delle cose). Il sessuale, la nudità, nella pubblicità e altrove, serve solo come effetto speciale, effetto di credibilità, un tentativo disperato per sottolineare l’esistenza di qualcosa. Il sessuale non è che un rituale della trasparenza. Esso, che bisognava nascondere, non serve più paradossalmente che a mascherare il poco di verità, il poco di realtà — e certo partecipa anch’esso a questa passione disincarnata.

Ma da dove deriva allora per noi la fascinazione per queste immagini erotiche o pornografiche? Certamente non dalla seduzione. In effetti noi non lo guardiamo affatto. Perché vi sia sguardo è necessario che un oggetto si veli e si sveli, scompaia ad ogni istante poiché vi sia nello sguardo qualche sorta di oscillazione. Queste immagini nude al contrario non sono prese in un gioco di emergenza e scomparsa. Il corpo è già lì, come gli altri oggetti, senza la scintilla di una assenza possibile, nello stato di disillusione radicale che è quello della pura presenza. In una vera immagine alcune parti sono visibili e altre no, le parti visibili rendono le altre invisibili e si innesca una sorta di ritmo dell’emergenza e del segreto, una linea di fluttuazione dell’immaginario. Dal momento che qui tutto è in una visibilità uguale, tutto condivide lo stesso spazio senza profondità. E la fascinazione viene giustamente da qui, da questa disincarnazione, è l’estetica della disincarnazione di cui parla Octavio Paz. La fascinazione è questa passione disincarnata di uno sguardo senza oggetto, di uno sguardo senza immagine. Da tempo ormai tutti i nostri spettacoli mediatizzati, compreso quello del corpo, del sesso, hanno oltrepassato il muro della stupefazione. Quella di una esacerbazione vetrificata del corpo, di una esacerbazione vetrificata del sesso, di una scena vuota in cui più nulla ha luogo e di cui però lo sguardo è riempito. Non è più quella del sesso, è anche quella della informazione, o quella della politica: nulla vi ha luogo e tuttavia noi ne siamo saturati.

Desideriamo questa fascinazione? Desideriamo questa forma della presenza pura, desideriamo questa oggettività pornografica del mondo? Come saperlo... Ma d’altra parte questa oscenità e questa indifferenza che la caratterizzano non la conducono per forza ad un punto morto. Esse possono eventualmente ridiventare valori collettivi, dei valori-rifugio; attorno ad esse vediamo ricostituirsi nuovi rituali della trasparenza. D’altra parte ancora noi non facciamo altro che recitare la commedia della oscenità, la commedia della sessualità, così come presso altre società si recita la commedia della ideologia, come presso la società italiana per esempio, si recita la commedia della confusione e del terrorismo.

Nella pubblicità è la commedia del corpo femminile denudato e prostituito che si recita (da cui la ingenuità delle recriminazioni contro questa prostituzione del corpo femminile e la ingenuità di tutta la legislazione virtuosa). Liberazione sessuale, pornografia onnipresente, compresa quella della informazione, della partecipazione, della espressione libera — se tutto questo fosse vero, ciò sarebbe insopportabile. Se tutto questo fosse vero noi saremmo davvero nella oscenità, vale a dire nella verità nuda, primaria, senza artificio, ma non senza pretese: la pretesa folle delle cose di esprimere la loro verità. Felicemente noi non siamo a questo punto, poiché, al culmine delle cose, nel momento in cui esse si verificano, esse puntualmente si rovesciano e questo rovesciamento protegge il loro segreto.

Del sesso, nessuno saprebbe dire se è stato liberato o no, se il tasso di godimento sessuale è aumentato o no. In sessualità come in arte, l’idea di progresso è assurda. Di contro, l’oscenità, come la trasparenza, è dell’ordine del progresso. Essa progredisce ineluttabilmente, proprio perché essa non è dell’ordine del desiderio sessuale, ma della frenesia dell’immagine. La sollecitazione e la voracità in fatto di immagini aumentano smisuratamente. Esse sono divenute il nostro vero oggetto sessuale, il solo oggetto del nostro desiderio. Ed è in questa sostituzione, in questa confusione del desiderio e del suo equivalente materializzato nell’immagine (e non solamente del desiderio sessuale, ma del desiderio di sapere e del suo equivalente materializzato nella “informazione”, del desiderio del sogno e del suo equivalente materializzato in tutti i Disneyland del mondo, del desiderio di spazio e del suo equivalente programmato nelle forme multiple del telematico), è in questa promiscuità, in questa ubiquità delle immagini, in questa contaminazione virale delle cose per mezzo delle immagini che vivono la trasparenza e la oscenità della nostra cultura.

Non vi sono limiti o controlli per questo, perché le immagini, al contrario delle specie animali sessuate, su cui veglia una sorta di regolazione biologica interna, non sono preservate in nulla dal pullulamento indefinito, poiché esse non si riproducono sessualmente e non conoscono né il sesso né la morte. È senza dubbio per questo che esse ci assediano, in questo periodo di recessione del sesso e della morte di cui esse prendono posto. Noi sogniamo senza dubbio attraverso esse l’immortalità dei protozoi che si moltiplicano all’infinito per contiguità e non conoscono null’altro che una concatenazione asessuata.


* Testo inedito di J. Baudrillard. Il titolo tra parentesi quadre è nostro.



Tadami Yamada, Untitled, 1975

Home » Monografie » Utopia


© 2016 kasparhauser.net