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Quel che resta dell’utopia | Kasparhauser 14
A cura di Giuseppe Crivella




COCLUSIONI
Instabilità e longevità dell’utopia

Novembre 2016

Nervosamente travagliata da fratture e interferenze, tramonti e ritorni, commistioni e scomparse, la storia dell’utopia è la narrazione convulsa di una vicenda che non smette di subire trasformazioni imponderabili e vitali, continue e sorprendenti, da cui essa sorge con i connotati profondamente mutati e nonostante ciò perfettamente riconoscibile.

Ciò accade probabilmente proprio perché un carattere specifico dell’utopia è quello di non avere una fisionomia precisa, rigida, ossificata in una conformazione concettuale che non ammetta o non preveda ampie oscillazioni, radicali mutamenti, profonde infiltrazioni allotrie. Ma qual è la causa di tutto ciò? Che cosa rende l’utopia così instabile e, nonostante ciò, così longeva? Essa vive e si rigenera nell’orizzonte sfumato e contratto di una intersezione fluida tra contesti e dimensioni molto diversi e apparentemente remoti. Fin dal suo sorgere infatti, l’utopia orbita in modo obliquo tra territori situabili a metà tra il pamphlet filosofico e la narrativa di finzione. Ma questa sua natura ibrida la rende al tempo stesso controversa nelle sue movenze propriamente speculative e nelle sue finalità, ma intramontabile, refrattaria ad ogni tipo di aggressione dissolutiva.

L’Utopia di More infatti, come abbiamo avuto modo di vedere in apertura, non è solo un punto di fuga collocato al di fuori del tempo e ai margini imprecisati e sfuggenti dello spazio materiale entro cui vive l’autore, ma diventa a tutti gli effetti un vigorosissimo atto di accusa contro il presente, una narrazione sottilmente polemica e solo blandamente profetica. Tale natura bifida — polemica e profetica — già da ora si palesa e si precisa senza però esplicitare quell’attitudine al calcolo prognostico che solo in seconda battuta emergerà in tutta la sua felice virulenza.

Da More a Mercier, l’utopia subisce la prima grande mutazione intestina. Il testo dell’autore francese infatti colloca con asciutta precisione l’altrove proprio dello spazio di More, nel cuore stesso della Francia, dilatando però la coordinata temporale in una linea di sviluppo e maturazione storici lungo la quale affiora con sempre maggior urgenza la velleitaria vocazione progettuale dell’orizzonte utopico. Mercier carica di attese e speranze la propria narrazione, tramutandola da spuntato atto di accusa contro il proprio tempo in un astratto furore costruttivo a cui però manca ogni postulato scientifico in base al quale suggerire delle concrete traiettorie realizzative.

Se More ancora faceva del lontano un luogo da cui guardare (e condannare) il presente, Mercier dal presente e nel presente cerca di immaginare il futuro; in entrambi i casi però gli intenti degli autori sono soggetti allo scacco poiché in essi manca una linea di continuità effettiva e quindi di solido raccordo tra il momento attuale concreto e la proiezione postulatoria dell’avvenire.

Sarà quindi solo con Marx che si perverrà a quella riflessione progettuale e approfondita sul reale, la quale condurrà a svalutare la portata realizzativa dell’utopia; proprio in forza di tale tipo di riflessione si perverrà alla derubricazione definitiva dell’utopia, completamente screditata poiché vista come uno strumento privo di ogni spessore scientifico. Non sarà allora un caso che gli autori del Manifesto del partito comunista ratifichino col termine /utopistico/ il fallimento del disegno politico di autori come Saint-Simon, Owen, Fourier, poiché incapaci di un’analisi ravvicinata della realtà al fine di evidenziarne tare e potenzialità effettive.

Il socialismo scientifico identifica l’utopia con il peccato originale di ogni progettualità politica: essa appare così per la prima volta come una forma sottilmente e velatamente ideologizzata di pensiero che invece di postulare il futuro sulle concrete possibilità realizzative ravvisabili nel presente, guarda all’avvenire dimenticando lo stato attuale dei fatti, in modo tale da disinnescare ogni volontà concretamente rivoluzionaria prima e ricostruttiva poi.

Siamo così giunti alle soglie del Novecento. Ora l’utopia si risveglia nelle forme allucinate e allarmanti di un incubo. Se le nostre analisi sono corrette, la distopia emerge dalle macerie del marxismo come l’estrema — ma probabilmente non l’ultima — incarnazione storica dell’utopia stessa, che non ammette rimozioni o esclusioni dalla sfera del pensiero, ed anzi continua ad abitarla e frequentarla come una ossessiva possibilità di riflessione che non conosce tregua.

Da Orwell a Bradbury, attraverso le analisi delle pagine precedenti, abbiamo visto cause e processi di quest’ultima metamorfosi subita dall’utopia, divenuta nel corso del Novecento non più una narrazione prognostica ma un affondo visceralmente diagnostico dei mali che il progresso scientifico, politico, sociale, forse addirittura culturale ha prodotto. La distopia è quella forma alienata di utopia che non sogna più il futuro, non progetta in alcun modo l’avvenire, non illustra le possibilità più o meno concrete di sviluppo migliorativo della società proiettandola su uno sfondo di evoluzione illimitata e felice; la distopia è quel volto d’ombra della utopia che presenta un quadro nosografico probabilmente del tutto compromesso, che dunque ratifica una inguaribilità del tempo presente da una patologia storica che non ammette cura o risanamento.

È proprio per questo motivo che autori come quelli da noi chiamati in causa, invece di immaginare il futuro, raccontano un presente che non conosce sviluppo, parlano di una dimensione di attualità che non riesce a svilupparsi ulteriormente, da cui l’avvenire sembra escluso come una minaccia da esorcizzare. Orwell e Bradbury fanno della distopia l’affilatissimo bisturi con cui sezionare il corpo di quel moribondo che è il loro stesso tempo, il tempo nel quale essi vivono e scrivono e nel quale non riconoscono più la possibilità di sognare o postulare un altrove del tempo e dello spazio. La distopia chiude l’orizzonte del tempo per aprire la ferita della critica indefessa e ostinata, serra la dimensione temporale per far esplodere il presente in una suppurante critica trasversale che smonta, contesta, aggredisce, scompone e scompagina la realtà mostrandola come un esploso il cui congegno sia stato messo a punto unicamente per girare a vuoto e riprodursi in una ottusa reiterazione di un presente sub-storico.

Ma chi è il grande ispiratore di questa nuova frontiera della riflessione utopica? Chi è il primo grande autore che manomette l’utopia facendone un precipitato violentemente disforico? Ci sembra giusto qui, in sede di conclusioni, chiamare in causa un terzo narratore da affiancare ai tre precedentemente presi in esame. Stiamo parlando di Aldous Huxley il quale, nel 1932, aveva dato alle stampe Brave New World, opera destinata a condizionare profondamente tutti coloro che in un modo o nell’altro sceglieranno di confrontarsi con il tema dell’utopia.

In questo testo l’autore ipotizza l’esistenza di una strutturazione sociale caratterizzata dal minuta e capillare pianificazione non solo economica, ma biologica e intellettuale, in nome di un presunto razionalismo iper-scientifico eretto a caduco idolo a cui tutto deve e può essere sacrificato. Il benessere fisico adibito a parametro massimo di valutazione in base a cui valutare e misurare la qualità della vita dei soggetti è ciò che deve essere perseguito ad ogni costo; per esso i cittadini-sudditi devono rinunciare ad ogni emozione, ad ogni sentimento/sensazione genuini e spontanei, ad ogni atteggiamento che potrebbe schermare la propria individualità da questo ottundimento pertinace e prevaricatore che, grazie alla biotecnologia prenatale, può iniziare prima della venuta al mondo dei soggetti. [1]

Il romanzo è preceduto da un esergo di Nicola Berdjaeff che così recita:
«Le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente davanti a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva? Le utopie sono realizzabili. La vita marcia verso le utopie. E forse un secolo nuovo comincia; un secolo nel quale gli intellettuali e la classe colta penseranno ai mezzi d’evitare le utopie e di ritornare a una società non utopistica, meno “perfetta” e più libera». [2]
Si tratta di un esergo emblematico e ricco di risonanze, ora inquietanti, ora prossime alla formulazione di un nuovo illuminismo, alleggerito di ogni istanza ciecamente progressista e più ripiegato su un sorvegliato ripensamento dei propri presupposti.

Nelle parole di Berdjaeff vibra la tenebrosa severità di una condanna comminata attraverso un attacco frontale ad ogni forma di utopismo scientifico, carico cioè di una acritica fiducia nelle capacità dell’uomo di programmare e realizzare il meglio, produrre e promuovere il progresso, garantire e assicurare la perfezione in terra. L’esergo che Huxley sceglie come fosco e minaccioso vestibolo per il suo romanzo segna in modo radicale e deciso la distanza che si è venuta a creare, dalla ricezione degli assunti marxisti in poi, tra due versioni dell’utopia: quella illusoriamente positiva, deputata a proporre nuovi felici sbocchi per un futuro la cui realizzazione però porterebbe alla chiusura della linea del tempo in uno stato di ottenebrata (e ottenebrante) perfezione storica, e quella proficuamente negativa, [3] la quale, come visto finora, si incarna proprio nella distopia.

Alla luce di ciò, possiamo quindi dire che quest’ultima rappresenta una sorta di plastico baluardo non tanto contro le brutture di un presente imperfetto, ma piuttosto contro una progettazione morale, culturale, sociale, intellettuale del futuro che non lascerebbe più spazio alle iniziative dei singoli, incapsulati in una strutturazione ossificata di forme iper-statuali tanto più oppressive quanto più invisibili e apparentemente libertarie. Per Huxley pertanto l’utopia “positiva” ha un doppio risvolto sinistro: da una parte essa potrebbe rappresentare l’attuazione di uno stato di cose finalizzato a bloccare in modo irrazionalmente razionale la storia — costitutivamente non irreggimentabile – nonché a conculcare o a narcotizzare le istanze di liberazione e sovversione che ogni soggetto è legittimato a nutrire presso qualsiasi forma di organizzazione socio-politica; dall’altra parte l’utopia potrebbe costituire una valvola di sfogo finalizzata proprio alla dispersione di queste energie di defezione, orientata cioè a disinnescare le spinte al cambiamento che potrebbero (e dovrebbero) fisiologicamente maturare presso determinati contesti politici. In entrambi i casi, l’utopia positiva è asservita al centro di dominio, al potere che se ne serve per perpetuare la propria esistenza e ottimizzare la sua sussistenza.

Proprio l’analisi minuziosa e impietosa di questo controverso stato di cose porta Adorno ad osservare come l’utopia viva all’interno di una dissociazione profonda ed anzi sia chiamata a riflettere tale dissociazione, incarnandola e rappresentandola in sé; egli infatti nota:
Si deve decidere tra la barbarie della felicità e la cultura come condizione oggettivamente più alta, che comprende in sé l’infelicità. «La progressiva sottomissione della natura e della società – interpreta Herbert Marcuse – elimina ogni trascendenza, fisica e psichica. La cultura, come denominazione compendiaria di uno dei lati del dilemma, vive di inappagamenti, nostalgia, fede, dolore e speranza, in breve di ciò che non è, ma trapela nella realtà. Ciò significa però che la cultura vive dell’infelicità». Il nodo della controversia sta nella energica disgiunzione dei termini associati nella idea che non si possa avere l’uno senza l’altro, non la tecnica senza il death conditioning, non il progresso senza la continua regressione infantile. Ma nella disgiunzione stessa bisogna staccare il rigore del pensiero dalla coazione ideologica della coscienza […]. La regressione è essenziale al coerente sviluppo del potere. La teoria non può con bonaria libertà accettare ciò che le va a genio nella tendenza storica, lasciando stare tutto il resto. I tentativi filosofici di adottare un “atteggiamento positivo” verso la tecnica invocando però che ad essa si dia un senso, sono consolazioni artigianali e favoriscono soltanto la più discutibile “gioia del lavoro”. Ma la pressione che esercita universalmente il mondo nuovo è in forza del suo stesso concetto inconciliabile con quella statica mortuaria che la converte in incubo. [4]
Bisogna sempre scegliere, sembra dirci Adorno, tra una utopia realizzata che ci soggioga con una preformata idea di felicità, la quale non ci appartiene in alcun modo, ma a cui piuttosto apparteniamo come sudditi inconsapevoli e una utopia negativa in grado di tener desta la nostra capacità di pensiero e riflessione, il cui esercizio ostinato e preciso rappresenta forse il punto più alto della nostra libertà e forse della nostra stessa fragile felicità.
gc


[1] A . Huxley, Il mondo nuovo, a cura di L. Gigli, Mondadori, Milano 1971, pp. 7-16.
[2] Ivi, p. 3.
[3] L’espressione /utopia negativa/ riferita al romanzo di Huxley è di Adorno: cfr TH. W. Adorno, Prismi. Saggi sulla sociologia della cultura, a cura di C. Cases, Einaudi, Torino 1974, p. 110. Va notato che la raccolta di saggi fu pubblicata nel 1955, ma lo scritto su Huxley risale ai primi anni ’40, periodo in cui il pensatore tedesco stava scrivendo con Max Horkheimer Dialettica dell’Illuminismo. Su questo anche, in questo stesso volume, J. J. Wunenburger, Variazioni su di un non-luogo, a cura di G. Crivella, p. 174 e sgg. ove l’autore si sofferma su ciò che egli denomina noyau schizoide dell’utopia.
[4] Ivi, p. 108.



Felice Casorati, Machere, 1921

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