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2018

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Fine del racconto heideggeriano
di Marco Baldino




Il dramma dell’etica originaria
Maggio 2018


Abstract
Secondo Nancy, la filosofia di Heidegger, in quanto riflessione sul senso dell’agire a partire dal suo rapporto con l’essere, è in realtà un’etica originaria. Il suo contrario sarebbe perciò, in questo senso, un agire cieco (nichilismo). L’adesione di Heidegger al nazismo non va pertanto configurata sotto la categoria della colpa morale, ma a un livello più profondo, in cui è diventa necessario declinare l’inadeguatezza del suo stesso pensiero rispetto alla grandezza del suo tema. Tuttavia, Nancy è propenso a considerare il rapporto con il nazismo come una sorta di deviazione. Dopo la pubblicazione dei Quaderni Neri si sta in effetti facendo strada una nuova linea interpretativa che tende a isolare la riflessione degli anni ’30, per consentire il recupero di due elementi che sembrano ancora vitali, la fenomenologia e la riflessione sul linguaggio. Secondo chi scrive, tale spezzone speculativo non consiste in una deviazione, ma nel il tentativo di essere conseguente con le premesse poste nella fase precedente (la ripetizione del problema dell’essere e l’andare fenomenologico alla cosa stessa), secondo un modo di essere conseguenti che si prende la responsabilità di scendere sul piano della concretezza storica (insurrezione contro l’ente) e politica (la riorganizzazione spirituale della civiltà europea). Gli esiti di questa fase furono, com’è noto, catastrofici. Lo scacco di Heidegger non fu solo personale, ma attraversò l’intera sua riflessione. Heidegger, se così si può dire, svoltò di nuovo. Il fallimento del pensiero dinanzi al radicalizzarsi del nichilismo nella forma del nazismo, viene ora declinato come necessario, il programma dell’attraversamento della durezza storica si trasforma in un programma di approssimazione dei medesimi obiettivi ripetuti secondo un nuovo stile filosofico, l’agire si rovescia in patire, il dominio dello sguardo si converte nell’etica dell’ascolto. Ma il dramma dell’etica originaria di Heidegger si annida proprio qui, nell’idea secondo cui si tratta di perseguire sempre i medesimi obiettivi: la cosa stessa, il nuovo inizio, e che il modo necessario è la completa distruzione di quel qualcosa il cui correlato etno-storico, svelato dai Quaderni Neri, è, resta e ricopre retrospettivamente, l’intera sua opera: l’Ebraismo mondiale. In una famosa intervista del 1966 Heidegger non usa, pubblicamente, il termine ebraismo, parla di americanismo, di comunismo, di democrazia come espressioni dell’incontro della tecnica planetaria con l’uomo moderno, laddove i Quaderni Neri rivelano come il carattere ebraico debba essere compreso come la radice essenziale di quelle manifestazioni ontiche cui altrove si riferisce con il nome di alcune note categorie storico-politiche.

§

1. L’«etica originaria» di Heidegger. Secondo l’indicazione di Nancy, il Dasein, l’Esserci (l’uomo, con qualche cautela) è l’ente per il quale, nel suo agire, o nella sua condotta, ne va, è implicato radicalmente, il suo “modo d’essere” o esistenza. [1] La filosofia di Heidegger non solo si presenta, al di là dei velamenti che gli “iniziati” intessono più o meno consapevolmente, come un’etica originaria, ma si addentra nella riflessione del senso dell’agire a partire dalla determinazione del pensiero che pensa il rapporto con l’essere. Ciò che qui si profila [2] è dunque il tentativo di una considerazione originariamente etica del Denken heideggeriano e, in quanto tale, tale da non abbandonare l’intera questione dell’agire a quello che, grosso modo, viene chiamato nichilismo contemporaneo. Tale ‘nichilismo’ è caratterizzato da Heidegger come “fuga dal pensiero”. Il nichilismo sarebbe dunque un de-privarsi del pensiero che, come ultima istanza, ascolta i messaggi dell’Essere provenienti dall’altrove, nel bel mezzo di una prassi che lascia l’uomo nel vuoto, in balìa di un agire de-orientato, forte solo della sua capacità di calcolo, di un pensiero senza vero inizio, e quindi cieco, ossia incapace di inserire i suoi calcoli in un orizzonte di senso, e quindi propriamente privo di futuro.

Nancy sostiene che se è possibile mettere in relazione una “colpa morale” con una certa condotta del “mestiere intellettuale”, ciò sembra non più possibile «quando è in questione la logica con cui un pensiero ha voluto analizzare ciò che fa dell’uomo colui attraverso il quale l’“essere” ha originariamente per “senso” (ethos) la scelta e la condotta dell’esistenza». [3]

La frase, mi pare, vada intesa in questa maniera, messa in risalto dallo stesso Nancy:
«Che questo pensiero non sia stato all’altezza della dignità (Würde) che assumeva come tema, ci deve fare ancora pensare». [4]
Nancy dice: “questo pensiero”, non: questo pensatore. Ciò che fa questione è cioè il pensiero di Heidegger, il quale, nel suo sviluppo, non sarebbe stato all’altezza della dignità (= specifica grandezza) del suo stesso tema (cosa fa dell’uomo colui attraverso il quale l’Essere ha originariamente per senso la scelta e la condotta dell’esistenza). L’uomo è cioè l’ente attraverso cui l’Essere costituisce il senso e lo costituisce attraverso l’agire, che è scelta e condotta dell’esistenza. L’uomo, ricordiamo, è essenzialmente un progettarsi, un progettarsi e nient’altro (è questo che vuol dire esistenza), il che significa che l’uomo non è un dato, un fatto eterno, un’essenza data, ma svolgimento e azione, azione entro cui si dà l’edificazione del proprio essere, il quale, nella sostanza, è tempo. L’uomo è cioè l’ente il cui modo d’essere è l’agire e quindi, e per questo, l’essere intrinsecamente etico. Nel ‘senso’ che questo agire apre man mano, si manifesta l’oriente che è l’Essere, o anche: l’essere è presente nell’agire come oriente, come orientamento. Ora, se è vero che tra “colpa morale” e “professione intellettuale” può darsi relazione, implicazione, per esempio tra l’aver intimamente aderito allo spirito delle SA e l’aver svolto il proprio compito di rettore in stretta relazione con le direttive del partito nazionalsocialista e nel caso che in questione sia un pensiero così radicale da porsi a livello delle radici del formarsi stesso della morale non possa darsi, Nancy lascia però intendere che la responsabilità in gioco, qui, è, se possibile, ancora più grande, più radicale, perché investe la radice stessa di tutto il pensiero di Heidegger che, nella sua auto-concezione, è poi il pensiero tout-court. [5] Tuttavia, Nancy sembra propenso a considerare il rapporto del pensiero di Heidegger con il nazismo come una «deviazione» o, più precisamente, come qualcosa che accade dentro e nel corso di una deviazione. Anche se questa “deviazione” non sarebbe estranea a un certo “tendersi”, a un certo “agitarsi”, a un certo “aggravarsi” del “motivo etico”, che però pre-esiste, e sopravvive, a quella “deviazione” e che costituisce, in verità, «una preoccupazione costante» e anzi un’autentica «direzione del suo pensiero». [6]

2. Dopo la pubblicazione dei Quaderni Neri, si sta tuttavia facendo strada una nuova linea interpretativa che introduce il seguente elemento: la riflessione degli anni Trenta, concomitante con ciò che Nancy nomina come “deviazione”, effettivamente adulterata dal rapporto con il nazismo, è del resto effettivamente non organica all’impianto del pensiero heideggeriano (è cioè affetta da quella famosa “deviazione”), che invece ruota intorno a due centri di vitalità teorica: la fenomenologia e l’“ascolto” di ciò che “risuona” nel linguaggio dall’altrove ed è pertanto espungibile, senza tema di stravolgere il lascito del grande pensatore:
«È molto chiaro — dice Günter Figal — che dalla fine degli Anni ’20 assistiamo a un cambiamento significativo nel suo pensiero: Heidegger rinuncia al fondamentale orientamento individuale dell’Esserci che si trova in Essere e tempo e adotta il concetto del Volk, della collettività. I Quaderni neri riguardano soltanto quest’ultimo orientamento. Sono convinto che testi come Essere e tempo non debbano essere interpretati diversamente rispetto a come sono stati interpretati sino a oggi […]. Immediatamente dopo la guerra, [Heidegger] riprende nuovamente i temi fenomenologici degli Anni ’20. Accanto a Husserl, Heidegger è il più importante filosofo della fenomenologia. Ma negli Anni ’30 l’aveva dimenticata». [7]
Dunque non ci sarebbero due Heidegger, come si è sostenuto nel corso della Heidegger-Renaissance anni-ottanta, ma tre. Il primo che si salda al terzo, fornendogli una sicura base metodologica, mentre il secondo, bubbone deviato in seno al cosiddetto Denkweg del filosofo, sarebbe da tagliar via prima che a qualcuno venga in tentazione di fondare tutto Heidegger sulla riflessione degli anni Trenta e consegnare l’intero alla damnatio memoriae.

In estrema sintesi: avremmo un primo Heidegger, centrato su Essere e tempo (1927) e su quello che era sembrato essere un approccio antropologico al problema dell’Essere, e poi un secondo Heidegger, la cui riflessione si snoderebbe attraverso i meandri della “storia dell’Essere” (critica del mondo della tecnica, tensione verso un “nuovo” inizio) grosso modo collocabile nel periodo dal 1930-1945. Quindi una terza maniera, dove prenderebbero il sopravento le questioni del linguaggio e dell’ascolto, riagganciate alla questione della ripetizione della domanda sull’essere.

Ovviamente questa tripartizione è completamente fasulla. Il manifesto del secondo Heidegger secondo la vecchia periodizzazione, La lettera sull’umanismo, è infatti del 1946 e contiene tutti i temi, sia in cifra, sia in dettato essoterico, dei trattati e delle Riflessioni non pubblicati (ma inseriti dall’autore nel piano della Gesamtausgabe) degli anni ’30.

La speculazione anni-trenta non consiste in una deviazione, ma è il tentativo di essere conseguente con le premesse poste nella fase precedente (la ripetizione del problema dell’essere o l’andare fenomenologico alla cosa stessa), secondo un modo di essere conseguenti che si assume la responsabilità di scendere sul piano della concretezza storica (insurrezione contro l’ente, che vela e rende inattingibile ciò che la filosofia ha posto come suo obbiettivo fin dalle origini) e politica (la riorganizzazione spirituale della civiltà europea a partire dall’auto-affermazione dell’università tedesca).

È Nancy a metterci su questa strada: «Fin dalla sua prima frase — scrive — la Lettera sull’umanismo (1946) si annuncia con forza e chiarezza come una riflessione sull’agire» [8]: «Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire». [9] La questione dell’umanismo è la questione di ciò che l’uomo è «in quanto ha da agire o condursi, ma ciò che l’uomo è in quanto ha da agire è il suo stesso essere». [10] Così risulta che quell’apertura originaria alla comprensione dell’essere, di cui Heidegger parla in Essere e tempo [11] non è un semplice interesse “teorico o speculativo”, anzi, Heidegger fa fuori proprio la pretesa autonomia di tale interesse [12] fin da Essere e tempo, mostrando che ciò che è in gioco è piuttosto la condotta dell’esserci. È perché il rapporto originario dell’uomo con l’essere si districa con e attraverso l’agire che ha senso farsi carico e assumere dentro lo sforzo del pensiero la durezza storica dell’evenienza politica che i tempi mettono a nostra disposizione. In questo senso, in Heidegger non sono ravvisabili né opportunismo, né sopravalutazione o sottovalutazione, cioè nessuna ingenuità nello stabilire rapporti di collaborazione con il movimento giunto al potere nel ’33. Nessun “errore” o “fallacia” soggettiva (Arendt) e, forse, vedremo meglio, nemmeno una “deviazione” o insufficienza d’altezza dinanzi alla dignità del tema (Nancy); piuttosto sembra trattarsi di un autentico sforzo di assumere l’evento politico che rompe la cristallizzazione storica, facendosene carico sulla base delle premesse tracciate nella fase prima e chiarite nella Lettera sull’“umanismo”.

Ma qui non si tratta, scorto l’errore, di liberarsi della seconda speculazione (anni Trenta, storia dell’Essere, rifondazione dell’Europa) a vantaggio di una “terza” che si ricongiungerebbe con la prima, bensì, e di nuovo, del tentativo di essere conseguente, questa volta con gli esiti catastrofici dell’incontro con la durezza della realtà storico-politica, senza tuttavia smentirne la necessità, secondo un modo di essere conseguenti che si assume sì la responsabilità di riflettere a fondo l’esito catastrofico, ma interpretandolo, secondo lo stile inaugurato negli anni ’30, come il destino stesso della filosofia nel suo rapporto con l’effettualità politica. Qualcuno usa l’espressione “storicizzazione”: Heidegger storicizza lo scacco. Il fallimento del pensiero dinanzi al radicalizzarsi del nichilismo nella forma storico-politica del nazismo è per Heidegger, secondo la storia dell’Essere, necessario, ma di fronte all’esito catastrofico di questa esperienza Heidegger trasforma il programma dell’attraversamento della durezza storica con un programma di approssimazione in iscorcio dei medesimi obiettivi (l’altro inizio), trasformando lo stile trattatistico degli anni ’30 in un nuovo stile di pensiero, fatto di “sentieri tentativi” (Holzwege), investigando intorno a incerti e approssimativi “segnavia” (Wegmarken) nel folto della nuova condizione, alla ricerca di uno slargo (Lichtung) da dove la luce filtri o la “chiamata” risuoni. Chiamata di che? dell’Essere.

3. Probabilmente, Heidegger non è mai tornato tematicamente sulla questione nazismo nei termini della critica etica corrente, proprio perché pensava che tale “critica” fosse inconsapevolmente mossa da interessi teorici e speculativi, presupposti e non chiariti e in verità compromessi con l’affondamento nichilistico, mentre tutto il suo Denkweg si svolgeva all’insegna di un interesse originariamente etico, latente nelle opere degli anni Venti, acuitosi a contatto con gli eventi storici degli anni Trenta, ripreso nella riflessione del ventennio posteriore attraverso la presa in carico dell’evento storico-politico del fallimento, per giungere infine a configurare il “nuovo” o “altro” inizio come un depotenziarsi, come un rimettersi ai messaggi deboli ed enigmatici dell’Essere che ci giungono come da lontananze siderali, sotto forma di segni, attraverso la “poesia della poesia” o attraverso la contemplazione crepuscolare di piccole cose (il ponte, la brocca).

Il problema, con Heidegger, è appunto che non è possibile ritagliare qualche lacerto di percorso all’interno del suo cammino di pensiero se non al prezzo di disperderne il senso complessivo — cosa che si può sempre fare, in verità, ma che distrugge l’esatta comprensione dello specifico significato del suo lascito: Heidegger non è separabile dal suo rapporto con il nazismo perché questo rapporto è organico al suo progetto di una rifondazione dell’Occidente, alla presa di coscienza dello scacco del pensiero dinanzi al disastro, al complice silenzio dinanzi sterminio, alla conversione della pratica analitica in una mistica dell’ascolto e così via.

Il problema dello scacco dipende dal fatto che in Heidegger il motivo etico, preoccupazione e direzione costante del suo pensiero, si presenta come un’“etica originaria”. Scelta e condotta dell’esistenza sono ciò in cui si esprime l’essere dell’esserci. L’uomo si orienta non basandosi in e su se stesso, ma progettandosi (fare) in modo tale da andare incontro all’Essere. Secondo Heidegger, lo scacco dipende dal fatto che in questo suo “fare” l’uomo avrebbe lasciato cadere l’Essere e, mediante la tecnica, si sarebbe di fatto costituito signore del mondo. Ma poiché l’uomo è consegnato a un rapporto attivamente originario con l’Essere, se siamo qualcosa, e lo siamo in virtù del nostro fare, una volta che abbiamo realizzato che il nostro destino è comprendere e fondo questo “fare”, dobbiamo scendere nell’arena e, ad esser precisi, nel momento di massima “tensione”. Ma in questa tensione l’uomo si spezza, ogni legame con l’essere si frantuma. Solo questa esperienza, che è perciò per Heidegger necessaria, conduce il pensiero a rovesciare il suo atteggiamento fondamentale, cioè a convertire l’agire (atto, attività, azione) in un ascoltare (patire, patimento, attesa) originario, il quale è la conclusione necessaria del racconto onto-storico. È proprio questo destino a costituire il dramma dell’etica originaria di Heidegger, che l’ascolto poetico e dilatorio dei segni, emerge dall’esperienza dell’annientamento, comunque lo si voglia declinare: L’anti-Cristo — scrive Heidegger nei Quaderni Neri — deve, come ogni anti-, emergere dallo stesso fondo essenziale nei cui confronti esso è anti-. Ed è questo che emerge, nell’epoca dell’Occidente cristiano, cioè nell’epoca della metafisica, dallo Judenschaft, il principio di distruzione. E il distruttivo risiede nel completo capovolgimento della metafisica: Marx contro Hegel. Lo Spirito e la Kultur diventano allora una sovrastruttura della “vita”, diventano economia, organizzazione, biologia, “Volk”. Se ciò che è essenzialmente ebraico combattesse in senso metafisico contro ciò che è ebraico, l’apice dell’autoannientamento della storia sarebbe raggiunto. E dal momento che «das “Jüdische”» ha raggiunto ovunque il dominio, combattere contro «das “Jüdische”» diventa un obbligo, [13] solo così, dopo il disastro purificatore, [14] ci si dispone all’ascolto di quell’immane silenzio che è la vera parola dell’Essere.

4. I prodromi del dramma. C’è una sottile linea di sprofondamento che attraversa il pensiero di Heidegger negli anni Trenta. Si tratta dell’idea secondo cui l’esortazione e l’insegnamento sono una percorribile strada per impedire l’imminente deriva del mondo (la deriva nelle illusioni della chiacchiera quotidiana, nell’inarrestabile sviluppo della tecnica, ecc.), l’esortazione a giocare la meditazione dei filosofi (sempre che siano pochi) contro la competenza meramente calcolista di ingegneri ed economisti (pragmatismo) e, soprattutto, di matematici e fisico-chimici (fenomenologia), compendiati nell’immagine del dominio planetario della tecno-scienza e del suo correlato onto-storico, l’economia capitalistica, l’americanismo e, da ultimo, o nell’insieme, l’ebraismo che, come abbiamo visto ne è il fondamento, l’onni-sradicante approccio calcolante alla gestione dell’ente.

Heidegger non ha certamente inteso mettere il proprio pensiero a disposizione del regime. Tutto al contrario, pensò che con il nazionalsocialismo fosse sorto un movimento politico le cui energie potevano esser messe a disposizione degli obiettivi epocali della filosofia, così come lui stesso li veniva enunciando in quegli anni. Ma il dinamismo di quel movimento non si lasciava piegare ai suoi obiettivi. Di certo Heidegger si batté contro questa impermeabilità, il che viene di norma confuso con una presa di posizione critica di nei confronti del nazismo, ma non è così. Heidegger non si sognò mai di pensare che il nazionalsocialismo, secondo la storia dell’Essere, fosse il male assoluto, perché il “male assoluto”, nella drammatizzazione etno-metafisica della storia dell’Essere, era per lui l’Americanismo, il bolscevismo, l’ebraismo che planetarizzavano la macchinazione (lo scatenamento dell’ente) e la desertificazione (il completo sradicamento). Non è nemmeno il caso di parlare della brutalità, delle leggi razziali, della dittatura, ecc., del fatto che per Heidegger ciò non fosse che una questione collaterale. La presa di distanza dal regime non avvenne mai su questo terreno, ma su quello di chi doveva veramente esercitare la Führung, se le SS o un piccolo gruppo di professori di filosofia. [15] Nel Rektoratsrede, [16] Heidegger inquadra la libertà accademica nello schema nazionalsocialista della Führerschaft e della Gefolgschaft, della guida e della comunità che si pone al seguito: «Dovere del rettore è guidare spiritualmente gli insegnanti e gli studenti» e questi [il rettore] «è a sua svolta guidato “dal compito spirituale del suo popolo”», che, a propria volta, è quello di guidare l’Europa ad insorgere contro l’ente. [17] Le dimissioni di Heidegger non sono in nessun modo connesse a una qualche presa di coscienza dell’abisso che il nazismo stava preparando, ma alla sua idea di lotta per la purezza del movimento rivoluzionario che il regime, a suo modo di vedere, non coglieva a pieno.

Heidegger ha creduto possibile che, operando pedagogicamente sul movimento giunto al potere nel ’33, con quel suo coté paesano-contadino-originario, anti-metropolitano, anti-politico nel senso della democrazia parlamentare, [18] si potesse ricondurre l’Europa al pensiero, ma certamente servendosi del ruolo che la nuova Germania si stava guadagnando con la rivoluzione. L’insurrezione [Aufbruch] dell’Europa contro l’ente aveva per Heidegger il suo presupposto onto-storico nella volontà di autoaffermazione del popolo tedesco, guidato dalla sua università. [19] In una lettera del 1960 Heidegger dichiara di aver creduto che il nazionalsocialismo fosse capace di «raccogliere dentro di sé tutte le forze costruttive e produttive» [20] e che da quella posizione fosse possibile fronteggiare la povertà di pensiero dell’epoca della tecnica. Nel verbale della commissione di epurazione dell’università di Friburgo è scritto come egli credesse che il movimento giunto a potere «potesse essere guidato spiritualmente su altre vie, in modo da far incontrare tutto sul terreno di un rinnovamento e di un raccoglimento in vista di una responsabilità per l’Occidente». [21]

5. Lo svolgimento del dramma. Il dramma dell’etica originaria di Heidegger si annida nell’idea secondo cui la strada giusta per fronteggiare il dominio planetario della tecnica, avrebbe un correlato etno-storico, il Weltjudentum, caratterizzato da un progetto di dominio planetario. Accanto a capitalismo e americanismo, Heidegger cita spesso anche il bolscevismo, ma a questo egli non riconosce la forza spirituale di condurre l’età moderna al suo compimento nichilistico, perché estraneo o povero di quella volontà e di quel sapere che caratterizzano l’Europa. Solo l’Europa è terreno fertile per l’abbandono da parte dell’essere (macchinazione) e per fare della sradicamento (desertificazione) il fondamento; [22] e solo la Germania possiede la capacità per riferirsi a ciò che, nel compimento dei tempi, è sul punto di accadere (Rektoratsrede) e a disporsi effettivamente al presentarsi dell’Essere.

Nei Quaderni Neri, lo sradicamento è attribuito, secondo la storia dell’Essere, agli ebrei, come se l’Ebraismo [Judentum] fosse il carattere che riunisce i pur differenti tratti delle diversi personaggi etno-metafisici della storia dell’Essere; come se il carattere apolide, sradicato, diasporico e sans Patrie dell’ebreo fosse la verità stessa del nichilismo. Secondo alcuni interpreti, si tratterebbe di un’accusa “metafisica”, cioè priva di qualsiasi riferimento biologico e razziale. [23] Quando Heidegger parla di “sradicamento” — dicono — in realtà starebbe alludendo alla forza messianico-planetaria dell’Ebraismo e delineando, come farebbe un conservatore della Germania prenazista, i tratti della battaglia escatologica tra le potenze della desertificazione e le forze del radicamento (Bodenständigkeit) e della riappropriazione ubertosa dell’inizio, ossia la Germania. Si vorrebbe quasi non doverlo ricordare, ma il termine Boden, non estraneo all’ebreo Husserl, indica, presso quest’altro filosofo, che fu il maestro di Heidegger, la Terra come luogo incorporeo, almeno in quanto a-territoriale, dove i popoli e la loro storicità stanno di casa — con il che Husserl voleva dire che “tutte le evoluzioni e tutte le storie relative hanno un’unica storia originaria di cui [quelle non] sono [che] degli episodi”, [24] mentre per Heidegger il Boden indica anzitutto il territorio originario dove un popolo (Blut, diciamo: una certa coerenza etnica) alligna e costruendo e progettando entro essa, basandosi sulla lunga permanenza su un suolo (Boden — una certa stabilità geopolitica), la propria storicità, mostra ed espone il proprio compito storico-universale. Ancora nel 1966 Heidegger si esprime così: «tutto ciò che è essenziale e grande è scaturito unicamente dal fatto che l’uomo aveva una patria (Heimat) ed era radicato in una tradizione».

Heidegger avrebbe dunque «capito tutto, pur stando dalla parte sbagliata»? Questo tipo di posizione è così ideologicamente preconcetta e cieca nei confronti del dramma dell’etica originaria di Heidegger che, non potendo non vedere nella globalizzazione il grande Satana, anche le espressioni più consonanti con l’atmosfera fasulla instaurata dai Protocolli dei Savi di Sion, diventano un fatto quasi positivo: Heidegger — si dice — aveva visto giusto, il male viene dalla planetarizzazione che sradica, anche se, costretto nella visione conservatrice, si abbassa a ripetere il cliché del complotto dell’Ebraismo mondiale.

La prima osservazione che mi viene alla mente è stupefacente: l’antisemitismo di Heidegger, così come emerge dai Quaderni Neri, è identico all’antisemitismo in generale, non c’è una specificità heideggeriana ed è tanto più stupefacente laddove tutto ha invece una caratteristica così specifica. Il punto cruciale è proprio questo, il fatto che Heidegger ripeta il luogo comune antisemita, riconducibile, per affinità tematica, all’humus mistificatorio dei falsi protocolli, assumendolo organicamente nella suo racconto onto-storico. Se questo aspetto fosse verificato, la critica della tecnica dovrebbe subire ripensamento e non credo che sia sufficiente isolare gli anni Trenta, come propone Figal, tagliando via il legame tra l’adesione al nazionalsocialismo alla critica della razionalità tecnico-scientifica e della modernità sviluppata in quegli anni.

La seconda osservazione, più delicata, è il problema dell’“etica originaria”. Punto complesso, indistricabilmente connesso alla critica della tecnica e tale che, se l’impianto di tutto il pensiero di Heidegger risultasse poggiare su quella certa interpretazione dell’agire, anche testi come Essere e tempo dovrebbero subire ripensamento.

Se vogliamo infatti prendere sul serio il monito di Nancy, il suo richiamo a fare attenzione all’etica di Heidegger, bisogna ripartire dall’assunzione del dramma che questa interpretazione mette in scena. Pensare che Heidegger — pur ripetendo un luogo comune della cultura conservatrice tedesca, denso di antisemitismo, che si è disposti persino a tollerare perché tanto il concetto introdotto da Essere e tempo continua ad esercitare una sfida filosofica altamente produttiva — avrebbe colto con grande precisione e largo anticipo il “disastro della globalizzazione”, significa eludere l’esito vincolante del dramma di questo pensiero che, dinanzi all’impatto della realtà storica, rovescia l’agire in patire, il dominio dello sguardo nell’etica dell’ascolto e conclude lasciando cadere nell’abbandono lo slancio ‘creativo’ del Volk radicato in un Boden, per assumere i toni di una mistica dell’attesa dell’altro inizio. A una prima fase legislativa, che getta le basi per un ri-cominciamento della filosofia, fa seguito una fase tormentosa, apocalittica, in cui avviene la reinterpretazione onto-storica della precedente “fenomenologia genealogica dell’uomo”: è Essere e tempo nient’altro che una metafisica più originaria, ma pur sempre una metafisica? «No — risponde Heidegger — in Essere e tempo vi è un inizio totalmente altro a partire dal dispiegamento essenziale dell’Essere stesso. […] un riferimento anche più inziale al primo inizio»; del resto, la “distruzione” avviata da Essere e tempo «è in tutto e per tutto un ritorno a ciò che è iniziale […]. Essere e tempo non corrisponde per nulla a ciò che ci si aspetta […] da un’ontologia ordinaria — e questo proprio perché l’ontologia ordinaria trabocca dall’oblio dell’essere». Una re-interpretazione tutta protesa a inscenare i prodromi di un avvento sulla base di un intervento attivo e soggettivo nell’emergenza storica: «L’oltre-passamento della metafisica va attuato in termini di esser-ci, non pubblicando un “libro” che tratta di esso». [25] L’impatto con la durezza dell’evento storico, impermeabile alla plastica del pensiero, impone, poi, l’apertura di una fase dilatoria nella storia dell’Essere, che si intesse di ascolto [Höre] e di attesa [Erwartung], e che «si limita a preparare [tutt’al più] ciò che deve accadere da sé». [26]

Nel 1966 Heidegger consegna a un’intervista (anch’essa segno dei tempi?), con quel suo appello alla venuta di «un Dio», non il banale invito a lasciar passare la burrasca per riprendere il vecchio cammino, ma l’avvenimento di un’ulteriore “svolta” in seno al suo cammino: trovare nello scacco, nella dilazione e nell’attesa, la terza verità del suo Denkweg. [27] L’espressione «Ormai solo un Dio ci può salvare» significherebbe così da un lato la consapevolezza della sconfitta [28] e dall’altro la declinazione di un altro modo di pensare, e quindi di agire, la “salvezza” — perché non è affatto vero, come pure è stato detto, che la salvezza è una questione di cui Heidegger non si è mai interessato, anzi, “salvezza/distruzione” è propriamente il quadro filosofico, cioè etico, da cui Heidegger essenzialmente parla. Il tema della “salvezza” dell’Occidente dal dominio dell’ente è un tema il cui antefatto si trova certo già nel primo Heidegger sotto la veste della ripetizione della questione dell’essere: la necessità di una ripetizione è infatti giustificata dall’evidenza, o almeno da ciò che a lui sembrava tale, dell’oblio dell’essere; quindi sviluppato dalla sua seconda riflessione nella forma dell’insurrezione contro l’ente e nella baluginazione di un altro inizio — la ‘salvezza’ dallo ‘sradicamento’ è, negli anni Trenta, declinata a partire dalla determinazione di un ‘nemico’, secondo il principio enunciato da Carl Schmitt, e giudicata perseguibile solo sotto la ‘guida’ della Germania, in vista della realizzazione di un Neue Ordung. Infine rimodellato entro gli allusivi ed evocativi parametri dell’ascolto e dell’attesa, dove però continuano a mantenersi, in tralice, anzi dissimulati, i caratteri dell’antisemitismo onto-storico. Nell’intervista del 1966, Heidegger non parla di Judentum e Weltjudentum, parla di “Amerikanismus”, di “kommunistische Bewegung” e di “Demokratie” come espressioni dell’incontro della tecnica planetaria con l’uomo moderno; incontro «che strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra». Non so se lei è spaventato — dice Heidegger all’intervistatore —, io in ogni caso lo sono stato appena ho visto le fotografie della Terra scattate dalla Luna. Ricordando assai opportunamente l’incontro con il poeta René Char, Heidegger dice: «Ho avuto recentemente un colloquio con René Char (lei sa, il poeta combattente della Resistenza) [sic]. Il poeta […] mi diceva che lo sradicamento dell’uomo che qui si compie è la fine di tutto…». Ma il senso di queste parole diventa oggi chiaro proprio alla luce dei cosiddetti “Quaderni Neri”. Non credo che ci si possa limitare a constatare che i passi in cui appaiono le parole Jude, Judentum, Weltjudentum, assommino a poco più di due pagine; è l’intera meditazione della “salvezza” che va riconnessa alla radice antisemita. Se americanismo, bolscevismo, democrazia, costituiscono l’orizzonte entro cui si compie “la fine di tutto”, non bisogna dimenticare che, per Heidegger, lo sradicamento dell’uomo e, a onor del vero, di tutto l’ente, è la missione specifica, il compito storico-universale dell’Ebraismo; non bisogna dimenticare che per Heidegger gli Ebrei sono gli agenti segreti del nichilsmo, il quale ha schiantato l’Occidente dall’interno, affermando il dominio della tecnica; non bisogna dimenticare che per Heidegger solo la Germania (grazie alla uniforme volontà di rianimare il senso greco del pensare, e quindi dell’agire) avrebbe potuto arginare gli effetti devastanti della tecnica, e che questo fu per lui il vero motivo per cui il conflitto mondiale si presentò anzitutto come guerra dei Tedeschi contro gli Ebrei. Nacondersi dietro il poeta resistente René Char è un triste tentativo di fuorviare la comprensione di quello che Heidgger sa essere (lo sa e lo vede con chiarezza proprio perché sa che, in un tempo differito, appariranno, per sua esplicita decisione, a corollario della sua opera omnia, i suoi “Quaderni Neri”) il senso della sua filosofia della salvezza, ora declinata, nella sua terza maniera, sotto forma di un colloquio tra filosofia e poesia: «… lo sradicmento dell’uomo che qui si compie è la fine di tutto — si diceva —, a meno che il pensare e il poetare non prendano il potere con la loro forza non violenta». [29] La Germania come nazione filosofica per antonomasia lascia qui il posto al “Denken und Dicheten”; il “potere” deve comunque essere preso, altrimenti sarà la fine. Pensare-e-poetare sono intrinsecamente non violenti? No, certo, qui Heidegger usa un’espressione nuova per caratterizzare la forza di “pensare e poetare”: gewaltlosen, privo di violenza. Mai, nel corso della sua vita, Heidegger ha inteso il pensare in questo modo, bensì in quest’altro: «Alles Große steht im Sturm...» («Tutto ciò che è grande… sta nella tempesta» — bell’esempio di misreading, per altro) [30]: il pensare, e il poetare (che non sfugge alla medesima determinazione), potranno cioè prendere il potere solo se radicati in una tradizione e sorretti da tutto ciò che si esprime nel termine «Heimat»: ancora la Germania a ben vedere, in quanto, avendo attraversato l’esperienza dello scacco, ha saputo inscrivere nell’esperienza dell’insurrezione contro l’ente, una piega dilatoria, trasformando l’etica originaria in una sorta di mistica originaria. La parola Heimat non evoca più direttamente la patria tedesca, ma l’Essere, a cui però si può tornare solo a partire dall’esperienza tedesca dello scacco e, quindi, ma in modo sottaciuto, annientamento incluso.

6. Epilogo. La realtà del movimento giunto al potere nel ’33 travolse non solo Heidegger in meno di un anno, ma, in un lasso di pochi anni a seguire, travolse l’intero pianeta; il suo progetto distruttivo e pieno di vergogna poté essere arrestato solo grazie alla potenza tecnica e alla forza produttiva del capitalismo. Il che resta, nonostante Hiroshima e Nagasaki. Ecco perché un confronto sistematico e senza riserve con il problema dello scacco non può essere aggirato, perché proprio lì, nella conversione dell’etica originaria come rapporto al solo Essere in una mistica dell’attesa, nello scacco, dell’avvento dell’Essere, alligna il franare della filosofia nel confronto con l’effettualità storico-politica. L’etica originaria di Heidegger si è mostrata drammaticamente insufficiente sia a orientare la condotta di un popolo virtuoso, sia a comprendere a fondo la natura del “nemico”, degli uomini che praticano e pongono la norma del proprio agire nella tecnica e nel capitalismo o in quelli che hanno la propria Heimat non in un Boden, ma in una sparuta silloge di libri (Tanàkh); insufficiente a comprendere come sia stato possibile che il supposto “male radicale”, abbia potuto produrre l’atto virtuoso della liberazione del mondo dalle tenebre del mito del XX secolo e la sconfitta etica, inconclusa (passato che non passa), secolare, della Germania nazista. Viene così a costituirsi una nuova prospettiva sull’opera di Heidegger, quella in cui, per la prima volta, si cerca di rivoltare il terreno su cui fanno la loro comparsa i gesti dell’antisemitismo e di una insistita adesione al nazionalsocialismo. Una prospettiva che prende in considerazione, per la prima volta, le rivelazioni contenute nei Quaderni Neri per procedere alla ricostruzione di un altro senso del percorso heideggeriano e che, infine, apre a un problema nuovo, quello di porre al centro dell’attenzione filosofica l’antisemitismo che, attraverso Heidegger, agisce, quale presupposto impensato, in molta riflessione contemporanea.


[1] Cfr. J.-L. Nancy, L’etica originaria di Heidegger, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1996, p. 9 sgg, passim.

[2] In verità, Nancy dichiara di inserirsi in un dibattito già avviato, ma non fa che un solo esempio, il numero 1-2/1993 della rivista italiana Con-tratto, diretta da E. Morandi e R. Panattoni, dal titolo «Heidegger e l’etica».

[3] J.-L. Nancy, L’etica originaria di Heidegger, cit., p. 5.

[4] Ivi, p. 6.

[5] A meno di non voler relegare tutta la questione alla sfera della superficialità, il gesto di autentica compromissione del pensiero, e non della semplice professione intellettuale, con il progetto nazionalsocialista, non può essere ricondotto a un atto di demenza o imperizia o di semplice inesperienza politica. Cadono qui tutte le considerazioni relative all’errore.

[6] J.-L. Nancy, L’etica originaria di Heidegger, cit., p. 6.

[7] G. Figal, “Disgustose e terribili quelle frasi del mio Heidegger”, intervista a cura di Tonia Mastrobuoni, La Stampa, 18 marzo 2014.

[8] J.-L. Nancy, L’etica originaria di Heidegger, cit., p. 9.

[9] M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 267.

[10] J.-L. Nancy, L’etica originaria di Heidegger, cit., p. 10.

[11] L’esserci è l’ente «già sempre aperto alla propria comprensione d’essere, in virtù del proprio essere stesso» (M. Heidegger, Essere e tempo, § 12, 58, trad. di P. Chiodi, UTET, Torino 1969, p. 128. Per un confronto, vedi Id., Essere e tempo, § 12, 58, trad. di A. Marini, Mondadori, Milano 2006, p. 177).

[12] J.-L. Nancy, L’etica originaria di Heidegger, cit., p. 10.

[13] Cfr. M. Heidegger, Anmerkungen I-V (Schwarze Hefte 1942-1948), GA 97, a cura di P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a.M. 2015, p. 20. («Der Anti-christ muß wie jedes Anti- aus dem selben Wesensgrund stammen wie das, wogegen es anti- ist-also wie‚ “der Christ”. Dieser stammt aus der Judenschaft. Diese ist im Zeitraum des christlichen Abendlandes, d.h der Metaphysik, das Prinzip der Zerstörung. Das Zerstörerische in der Umkehrung der Vollendung der Metaphysik-d.h. Hegels durch Marx. Der Geist und die Kultur wird zum Überbau des “Lebens”-d.h. der Wirtschaft, d.h. der Organisation-d.h. des Biologischen-d.h. des “Volkes”. Wenn erst das wesenhaft “Jüdische” im metaphysischen Sinne gegen das Jüdische kämpft, ist der Höhepunkt der Selbstvernichtung in der Geschichte erreicht; gesetzt, daß das “Jüdische” überall die Herrschaft vollständig an sich gerissen hat, so daß auch die Bekämpfung‚ des “Jüdischen” und sie zuvörderst in die Botmäßigkeit zu ihm gelangt.»).

[14] Cfr. nota 61.

[15] La questione del numero non è peregrina ed è apertamente allusa in uno scambio di opinioni con Karl Jaspers. Cfr. R. Safranski, Heidegger e il suo tempo, trad. di N. Curcio, Longanesi, Milano 1996, p. 282.

[16] Si tratta del “Discorso di rettorato”, pronunciato il 7 maggio 1933 in occasione della cerimonia di insediamento del nuovo rettore dell’Università di Friburgo in Bresgovia, edito nel 1933 con il titolo Die Selbstbehauptung der deutschen Universität, W.-G. Korn Verlag, Breslau 1933. Di questo testo esistono diverse traduzioni in italiano. Si veda L’autoaffermazione dell’università tedesca ? Il rettorato 1933/1934, a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1988.

[17] Cfr. K. Löwith, La mia vita in Germania, trad. di E. Grillo, Il Saggiatore, Milano 1995 (1988), p. 58.

[18] La politica, per i tedeschi dell’epoca, e anche per Heidegger (che l’aveva connessa all’inautenticità deietta della sfera della chiacchiera quotidiana), era la democrazia di Weimar, il parlamentarismo inconcludente dei 22 partiti, che non avevano saputo fronteggiare adeguatamente la crisi economica, la questione del debito di guerra, il franare della Germania verso la marginalità politica e l’indigenza spirituale in cui la nazione era caduta. La politica, considerata da Heidegger con disprezzo nella prima fase della sua riflessione, tornerà ad essere centrale negli anni Trenta, nella seconda fase della sua riflessione.

[19] Cfr. K. Löwith, La mia vita in Germania, cit., p. 59.

[20] M. Heidegger, «Lettera a Hans-Peter Hempel», cit. in R. Safranski, Heidegger e il suo tempo, cit., p. 278.

[21] B. Martin (a cura di), Martin Heidegger un das “Dritte Reich”. Ein Kompendium, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1989, citato in R. Safranski, Heidegger e il suo tempo, cit., p. 283. Per questo la giustificazione di Heidegger in termini di “inesperienza politica” deve essere respinta, perché il problema non è la responsabilità personale di Heidegger in politica, ma la sua responsabilità filosofica dinanzi all’evento politico del nazismo.

[22] Cfr. M. Heidegger, Metafisica e nichilismo, a cura di C. Angelino, trad. di C. Badocco e F. Bolino, Il Melangolo, Genova 2006, pp. 135-140.

[23] Cfr. A. Gnoli, “Heidegger, l’ultimo segreto: i diari neri contro gli ebrei”, La Repubblica, 18 dicembre 2013. Si tratta di un articolo a firma di Antonio Gnoli, dove viene riportata l’opinione di Donatella Di Cesare, membro della Comunità ebraica romana e, allora, ancora vice presedente della HeideggerGesellschaft. L’opinione qui riportata è attribuita, da Gnoli alla Di Cesare, che in seguito ha corretto questa opinione.

[24] Cfr. A. Marini, “La politica di Heidegger”, in M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare. Intervista con lo “Spiegel”, a cura di A. Marini, Guanda, Parma 1987, pp. 35-36.

[25] M. Heidegger, Metafisica e nichilismo, cit., p. 42.

[26] Ibidem.

[27] M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, cit.

[28] Cfr. A. Marini, «Heidegger e la politica», cit., p. 78.

[29] Ivi, p. 134.

[30] Sono le parole conclusive de L’autoaffermazione dell’università tedesca, cit. p. 30, dove Heidegger, com’è noto, interpreta piuttosto liberamente un passo di Platone (Repubblica 497, d 9).


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