Kasparhauser





Rivista di cultura filosofica

2018

Home


Monografie


Culture Desk


Ateliers


Chi siamo


Info



Fine del racconto heideggeriano
di Marco Baldino




La mistica dell’altro pensiero
Maggio 2018


Abstract
Apparentemente Heidegger sembra rispettare l’interdetto kantiano contro l’intuizione intellettuale. Il problema sorge là dove l’intera analitica dell’esserci deve essere sottoposta ad un radicale ripensamento, allo scopo di mostrare l’Essere “in assoluto”. È noto come, dinanzi a questo compito, Essere e tempo si interrompa. Heidegger dice che il linguaggio della Metafisica non è sufficiente. Occorrono un altro linguaggio e un altro pensiero. Ora, quest’altro pensiero, benché sempre meticolosamente tentativo di ripensare l’analitica dell’esserci in chiave onto-storica, proprio perché si pone il compito di abbandonare a se stessa la Metafisica e il suo linguaggio, abbandona anche la logica fenomenologica dei concetti e, con essa, l’interdetto kantiano contro la mistica. Il senso non poggia più su un’esposizione degli elementi nella chiarezza e distinzione. L’interpretazione cambia di senso: è lei ora il Logos verace che restituisce non già il senso della cosa, ma una possibilità di avvicinamento all’Essere in assoluto. Pensare non significa più determinare l’ente, ma risuonare in uno con l’Essere. Il genio di Heidegger, che aveva ritessuto la logica dei concetti nel congegno del circolo ermeneutico, si è totalmente perso nella mistica del ringraziamento (Denken ist Danken). Ormai noi possiamo solo risvegliare la possibilità dell’attesa, esprimere per mezzo del linguaggio il silenzio. Ma parlare dell’inquietante immane silenzio come parola dell’Essere è di nuovo una mistica.

§

Ad Heidegger si potrebbe obiettare che non è vero che ci troviamo su un piano dove c’è principalmente l’essere (1946), non è vero che senza la ripetizione della questione dell’essere, l’Occidente si perderà. L’Occidente non si è forgiato così inutilmente e per la rovina del mondo. Noi ci troviamo su un piano dove c’è principalmente l’uomo — e forse Heidegger stesso ha oscillato intorno a questo punto: il linguaggio (uomo) è la casa dell’essere; l’esserci (uomo) è l’ente — il solo — già sempre aperto alla comprensione dell’essere; l’uomo è il pastore dell’essere (va osservato che questa ‘pastorizia’ ha qui piuttosto un senso pontificale). Sì, c’è il problema dell’essere, come si vede, ma solo perché c’è l’ente che se lo pone. Il piano, in verità, è antropologico — e anche questo è un limite invalicabile, a meno di non volerci consegnare alla non verità del misticismo.

Tuttavia il pensiero di Heidegger illustra assai bene lo scacco del pensiero dinanzi al progetto di voler giungere all’essere oltreumano a partire dal piano antropologico, cioè a partire dall’umano, peggio: dal troppo umano della quotidianità media, barcamenandosi tra discorso (lógos) e intellectus. Heidegger ha combinato qui un vero gioco di prestigio: ha rubricato il concetto (Begriff) sotto la categoria del Begreifen, lasciandone intatto il valore di “afferramento” [Greifen], in modo tale che nel Begriff risuonasse, in verso, l’intus légere, la penetrazione ermeneutica della complessità del testo del mondo, rifiutando però sistematicamente di parlare di intuizione.

Nello Heidegger prima maniera, il Logos, o logica fenomenologica dei concetti, è pensato a partire dal verbo Greifen. Esso consiste nel penetrare la superficie dell’esperienza, nello spingersi dentro con lo sguardo, in modo tale da afferrare, ritagliando, e portar fuori, alla piena luce, ciò che si è così ritagliato e afferrato. In tal modo, il Greifen è posto sotto il segno dell’intellectus il quale, in quanto intus-légere, è propriamente un penetrare e raccogliere scegliendo. L’intelletto, Verstand, è poi anche quell’attività che, nella piena luce del di fuori, ordina il materiale (Analyse) sul “tavolo anatomico” del filosofo. Gli elementi così ordinati, ora mostrano chiarezza (non sono più nell’oscurità ctonia) e distinzione (non si trovano più nel con-fuso amalgama del loro mero funzionamento). Su questo lavoro di penetrazione che afferra ed espone, Heidegger costruisce poi un’interpretazione (Bedeutung) o lettura che restituisce il senso (Sinn) della cosa. Il senso della cosa è il concetto (Begriff) o l’afferrato che mostra il suo (della cosa) modo d’essere. Pensare è cioè intelligere e intelligere significa interpretare. Non come atto d’istantaneo afferramento, ma come fatica dello scavo (intus), della scelta e della raccolta (légere), dell’ordinamento (Analyse) e della ricomposizione virtuale (Bedeutung), nonché della delineazione del procedimento ripetibile (Wissenschaft).

Il vero significato del Logos (Vernunft) è pertanto, secondo Heidegger, questo lavoro: scavo, scelta, afferramento, separazione, ordinamento, riunione. Heidegger rispetta l’interdetto kantiano contro l’intuizione intellettuale (mistica) e si compiace di riconoscere la necessità della hegeliana fatica del concetto.

Il problema sorge là dove tutto deve rovesciarsi (umkehren), dove l’intera analitica dell’esserci, secondo il progetto heideggeriano, deve essere sottoposta ad un radicale ripensamento allo scopo di mostrare ciò che, pur detto in molti sensi (Begriffe), è l’Essere überhaupt, in assoluto, sciolto da ogni determinazione particolare. È noto come, dinanzi a questo compito, Essere e tempo si interrompa. Heidegger dice che non c’è linguaggio. Il linguaggio della Metafisica non è sufficiente perché tutto ciò che essa tocca viene trasformato in ente, cioè in determinazione e, quindi, l’essere überhaupt gli sfugge sempre, strutturalmente. Occorre pertanto un altro linguaggio, un altro pensiero.

Quest’altro pensiero, benché sempre meticolosamente tentativo di ripensare l’analitica dell’esserci in chiave onto-storica, proprio perché si pone il compito di abbandonare a se stessa la Metafisica e il suo linguaggio, abbandona anche la logica fenomenologica dei concetti e, con essa, l’interdetto kantiano contro la mistica e la prassi della faticosa costruzione del concetto. Il senso non è più raccolto e articolato nel Begriff, per mezzo di un Greifen; non poggia più sulla base di una penetrazione (intus) che ritaglia e incetta (légere), non su un’esposizione degli elementi nella chiarezza e distinzione della luce diuturna e, tuttavia, è sempre collegato all’interpretazione. Ma l’interpretazione qui cambia di senso. È lei ora a lavorare, è lei il Logos verace, il Logos autentico. Essa è penetrazione che non rompe e ritaglia; esposizione che non dispone gli elementi nella nuda giustapposizione delle cose morte. Essa è l’attività che ausculta i sintomi e legge le posture, ascolta arcane storie che emergono dal sottosuolo dell’esperienza del pensiero e, con un salto, raccolto in una frase misteriosa ed enigmatica come l’oracolo di un dio, restituisce non già il senso della cosa, ma una possibilità di avvicinamento, di approssimazione, all’Essere überhaupt. Si tratta di un comprendere, ma che non è anzitutto un afferrare, bensì, anzitutto, un sentire (hören). Il pensato non è più un “afferrato” (Begriff), ma un Gedachtes, ossia qualcosa che ha bisogno della memoria (Gedächtins) e a cui appartiene il ringraziamento (Dank). Pensare non significa più determinare, isolare l’ente, ma risuonare in uno con l’Essere: sentire, ascoltare, vibrare all’unisono con il misterioso che si manifesta. «Pensare non è più specchiata consapevolezza non si può parlare dell’essere se non parlando degli enti e viceversa, che la filosofia si realizza sempre in una non sommabile molteplicità, che l’unità del sapere filosofico non si realizza in modo onnicomprensivo e definitivo, ma trasversalmente, perché ogni filosofia è una prospettiva, uno scorcio e, pertanto, niente di esclusivo, niente di totale», [1] ma «il presentire un sentore […] di “ciò che deve venire e presentarsi” in quanto quest’ultimo è l’Essere stesso inteso nella sua verità originaria». [2] Il genio di Heidegger, che aveva ritessuto la logica dei concetti nel congegno del circolo ermeneutico, si è totalmente perso nella mistica del ringraziamento (Denken ist Danken) [3] levato, questo, come inno, al più considerevole, cioè all’Essere che ci chiama velandosi, facendoci vibrare come quaccheri. Cosa per cui diventiamo, poeticamente, quel “segno che nulla indica” (nulle di essente, nessun ente) e che perciò, anche, nulla dice.

Per Heidegger tra il pensiero che analizza e ordina l’essente e il pensiero che ringrazia non c’è più alcuna possibile trattativa, nessun possibile transazione, e se questo è la patria da raggiungere, quello è l’esilio da evadere, come si conviene a un’autentica metafora gnostica. Tra l’uno e l’altro non c’è che rottura (Aufbruch), il salto sopra l’abisso. [4] Benché Heidegger continui a ripetere che «uomo significa colui che può pensare. [Cioè] il Lebewesen [il vivente, l’essere vivente, in definitiva l’animale] razionale [vernünftige]», [5] la ragione ora non appare più che come il servizio che la mega-macchina (al secolo: l’im-posizione tecnica, Ge-stell) svolge per conto dei demoni etno-metafisici che, per suo mezzo, controllano il mondo. [6] E qui, come nella metafora gnostica, non c’è più nulla da fare se non creare le condizioni che consentano alla chiamata dell’Essere di giungere a noi oltre il rumore del mondo [7]: il salto (Sprung) nell’Essere, bruciando tutto ciò che sta nel mezzo, riconnetterà il primo [i Greci] e l’altro inizio [i Tedeschi] a partire dalla “risonanza” [Anklang] dell’Essere nell’indigenza dell’abbandono (macchinazione). [8] “Ormai solo un Dio ci può salvare”, “Noi possiamo [solo] risvegliare la possibilità dell’attesa”. [9] Ma esprimere verbalmente, in qualsiasi modo, in ogni caso per mezzo del linguaggio, il silenzio; parlare dell’ineffabile, inquietante immane silenzio come parola dell’Essere, [10] è una mistica. Pensare l’uomo come segno che indica ciò che si sottrare, ed è perciò oscuro, imbastendo un’“interpretazione”, significa parlare senza dire niente e questo “parlare”, questa trasformazione del vernünftige Lebewesen (il vivente razionale) nel Zeichen deutungslos (segno che nulla indica, un “mostro” nella lettura derridiana [11]), è, di nuovo, una mistica. «Non c’è chiacchiera peggiore di quella che trae origine dal discorrere e dallo scrivere sul silenzio…», scrive Heidegger, ma questo perché bisognerebbe saper serbare il silenzio sul Silenzio, e questo spetta a lui, l’ultimo filosofo, in quanto questo solo «è l’autentico parlare…». [12]


[1] Cfr. L. Pareyson, “Pensiero ermeneutico e pensiero tragico”, in J. Jacobelli (ed.), Dove va la filosofia italiana?, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 136.

[2] Cfr. M. Heidegger, Metafisica e nichilismo, a cura di C. Angelino, trad. di C. Badocco e F. Bolino, Il Melangolo, Genova 2006, p. 84.

[3] Cfr. M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, 2 voll., trad. di U. Ugazio, SugarCo, Milano 1979, vol. 2°, “Dalla terza lezione alla quarta”, p. 126 sgg. Questa edizione in due volumi (rispettivamente primo e secondo semestre del corso 1951-52) riporta i passaggi da una lezione all’altra alla fine di ciascun volume. Le successive edizione, rispettando l’impostazione dell’edizione della Gesamtausgabe, i “passaggi” sono disposti tra una lezione e l’altra. Vedi GA 8, p. 149, sgg.

[4] M. Heidegger, Metafisica e nichilismo, cit., p. 84.

[5] M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., vol. 1°, Lezione I, p. 37.

[6] Cfr. U. Galimberti, “Heidegger e la gnosi”, in AA.VV., Eredità di Heidegger, a cura di M.L. Martini, Transeuropa, Bologna 1988.

[7] Cfr. Ivi, p. 82.

[8] «Und nur ein Geringes kann hier in diesem anfänglichen Denken “vom Ereignis” gesagt werden. Was gesagt wird, ist gefragt und gedacht im “Zuspiel”. des ersten und des anderen Anfangs zueinander aus dem “Anklang” des Seyns in der Not der Seinsverlassenheit für den “Sprung” in das Seyn zur “Gründung” seiner Wahrheit als Vorbereitung der “Zukünftigen” “des letzten Gottes”» (M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), a cura di F.-W. von Herrmann, GA 65, Klostermann, Frankfurtt a.M. 1989, p. 7).

[9] M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, a cura di A. Marini, Guanda, Parma 1987., pp. 136-137.

[10] A proposito dell’“immane silenzio” in cui si esprimerebbe la parola dell’Essere nella sua verità originaria [Seyn], cfr. L. Amoroso, Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg & Sellier, Torino 1993, p. 97 e passim. Segnatamente cap. 3, “L’altro inizio”.

[11] J. Derrida, La mano di Heidegger, a cura di M. Ferraris, trad. di G. Scibilia e G. Chiurazzi, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 46.

[12] M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1988, p. 123.





Home » Monografie » Fine racconto heideggeriano

© 2018 kasparhauser.net