Kasparhauser
come si accede al pensiero





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2012


Philosophical culture quarterly


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Chaosmografie II. Teleologia | Æsth-etica
di Jacopo Valli



Il grado zero della gnosi


1. Lo gnosticismo

Il panorama gnostico è riccamente sfaccettato: alle tante correnti corrispondono altrettanti atteggiamenti, altrettante linee estetiche (in ambito culturale cristico, ad esempio, valentiniani e carpocraziani non rifiutavano la materia, la carne, ma si intrattenevano libertinamente con ed in essa, evitando di farsi di essa schiavi). Lo gnosticismo è primariamente una maniera estetico/etica, una disciplina, individuale; un tratto, aristocratico: ricorda Henri-Charles Puech. E la gnosi è eminentemente letteratura — così perché i testi sacri non sono sacri, ma scritti da uomini (che talvolta e non necessariamente attendono il ed argomentano attorno al mancante dio-ipotesi oggetto di eventuale exoterica fede) — ed è pertanto letterariamente dualista, ma il dualismo è spesso non altro che un buon costume de scène per il monismo. Integrale, ed avverso finanche al dualizzante 1 postulante alterità ontologica (lo Zero come Nulla; il silenzio come non già anche suono; il nero come assenza di luce), in quanto 0 = n.

Ciò vale anche per quel Manicheismo che carsicamente filtra finanche nella sovrana esperienza non-duale, anti-platonica, carnalmente materiale e materialmente carnale dell’Acéphale di Bataille e Klossowski, di Wahl e Caillois, di Monnerot e Rollin, e di Masson, “autore” dell’illustrazione riportata sulla copertina del primo numero della rivista, illustrazione richiamante una statuetta di origine manichea ritrovata da Bataille alla Bibliothèque Nationale. A riguardo di ciò, è interessante il fatto che, per il luciferino–prometeico Bataille stesso, la figura acefala fosse sostanzialmente assimilabile alla croce, intesa à la Frazer, come simbolo della messa a morte del re/signore — e Klossowski altrove indica come ogni reggicidio sia anche un parricidio —, simbolo che viceversa è innalzato dai credenti e dai fedeli come afferibile ad un sacrificio necessario alla salvezza e troppo spesso alla fondazione dell’autorità e alla sua corroborazione morale ornata d’una veemente retorica eroico/martirica, servile, e, quindi, carnefice.

Il simbolo della croce ribaltata, o bruciata, viceversa, è inteso:

Exotericamente — e nondimeno devozionalmente, in prospettiva rovesciatamente cattolica e speculare a quella che nella croce vede il simbolo di un sacrificio necessario del quale essere grati e al quel prostrarsi; in prospettiva miserevolmente “satanista acida”, e quindi perversa, ossia, procedente da una norma e corroborante la stessa, come si dice nella Roberta klossowskiana attorno all’a-teismo finto, ancora duale, di chi rovescia il dia–bolico Dio per farlo vivere, per dargli nutricante linfa: ancora teista, con ringraziamenti da parte della Chiesa stessa, e con deplorazione da parte del decostruttivo gnosticismo luciferino razionalista e squisitamente a-teo —, come vessillo del culto del Male, che è evidentemente il Bene, la causa, il Dio di chi lo supporta ed insegue e ad esso anela servendolo, proprio come specularmente è un Bene che si tramuta in Male l’amore (l’idea o le idee di amore) che taluni intendono imporre come buono, giusto, vero e bello, e che compare in tutta la sua nivea violenza pure in Mt 22, 37 (Marc Augé afferma che le ideologie più efficaci son quelle che ordinariamente non percepiamo come tali; e d’altro canto Breton ricorda come la Magia — termine duttile e denso quanto “religione” — non sia mai stata condannata in sé dalla Chiesa Cattolica apostolica romana, perché da essa condannata è sempre stata quella magia avversabile il e non funzionale al proprio senso: tuttavia, la magia non é bianca, nera o variopinta, e sostanzialmente non riguarda altro che l’ottimizzazione del proprio agire caso per caso, secondo una logica non distante dalla razionale ed a-morale etica spinoziana, dal Taoismo, dal Chán, dalla strategia geofilosofica).

Esotericamente — in maniera sostanzialmente assimilabile alla visione frazeriana/batailliana della croce, dal francese contrapposta al fascio littorio — come simbolo del disvelamento, della messa a morte della messa a morte; come simbolo di rinuncia rispetto al culto del sacrificio a- e per-, vale a dire del rifiuto e superamento de–costruttivo e razionalmente comprendente del dualismo: come si getta via la wittgeinsteiniana scala, così si rovescia o brucia la croce, fosse anche quella alla quale inchiodati fossero il dio–Uomo o il dio–linguaggio; ogni universalismo ed idealità e positività dialettica ed entusiasmo — magari delle folle acritiche, ipnotizzabili e pilotabili attraverso il prestigio illustrate da Gustave Le Bon e tenute a distanza da Benjamin —; nonché il dio-Nulla, Padre d’ogni dio, categoria, asservente forma trascendente).

Invero, la croce, che mai è, né mai dovrebbe essere intesa come segno (sic!), è innecessario «simbolo che, sotto forme diverse, si incontra quasi dappertutto, e a partire dalle epoche più remote [e che] è quindi ben lungi dall’appartenere in proprio ed in modo esclusivo al Cristianesimo [, il quale] sembra aver[ne] un po’ perduto di vista il caratterere simbolico [nel suo] significato metafisico, il quale è del resto il primo e il più importante di tutti» (cfr. René Guénon, Le Symbolisme de la croix).


2. Lo gnostico

Lo gnostico si salva da sé (diversamente non potrebbe essere: colui che è salvato non è salvo ma cade in debito col proprio salvatore, che invero naturalmente per sé agisce, al quale viene dualisticamente, gerarchicamente sottoposto), attraverso la conoscenza, per mezzo di un esercizio razionale bruciante e non auto-limitato: ne consegue che possa esservi un atteggiamento gnostico alla base delle politiche volte alla “immanentizzazione dell’Eschaton”, sebbene mi paia invero maldestramente imprecisa anche una simile affermazione, ché lo gnostico — talora, interessatamente o pour naïveté, erroneamente descritto come anelante ad una salvezza collettiva corrispondente all’instaurazione, nell’immanenza, di una condizione di perfezione e purezza ideali evidentemente procedenti da un senso del mondo necessariamente Altro rispetto ad esso, secondo la consueta retorica dell’originario, dell’originale e della copia, del dualismo platonico simmetricamente riscontrabile nelle dottrine non gnostiche ma ortodosse e delineante la sostanza stessa di ogni eventuale oggetto di fede, atteso, o creduto, o creduto e preteso — non solo non attende beneplaciti e non dimena la propria anima, ch’è corpo (il corpo ch’egli stesso è: modo dell’Essere Ni-ente che È, coincidente con esso, che non è Cosa), entro i bordi salmastri di divini silenzi, ma salva sé attraverso una conoscenza che non di rado assume i tratti aristocratici, sovrani, di un sapere che sa di non sapere, sapendo congiuntamente che nulla v’è da sapere: che Altro non c’è; di un sapere che non si arresta dunque socraticamente alla coscienza d’essere un non sapere concedente corte ad un possibile sapere particolare, ad un ipotetico oggetto di pensiero tronizzabile come reggente del pensare allora servo, ad una Verità particolare, ad un Altro umiliante — nei termini di Weil —, infine, e per colui che vi si sottomettesse e per colui che nondimeno ad esso si inginocchiasse a schiena ritta, convinto, nella e dalla sua miope, ottusa, parcellizzante prospettiva ed inquadratura, di possedere e dominare gratuitamente e stabilmente: convinzione che lietamente accompagna il varietà ideologico/teologico, nonché lo stesso Signore Dio jarryano, colui che, sacro, sarebbe perforce profano rispetto all’alieno profano a lui sacro, da lui separato dalla Genesi: in tal senso, sarebbe ironicamente ad Egli stesso (quandanche potesse mai darsi) comodo e lieto essere in-utile ed anche poco propenso ad un suo ritorno.


Geometric Horsehair, Hiéroglyphe brut, 2013



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