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Il reale? Un libro, nient’altro che un libro...
di Marco Della Greca

2 giugno 2018


Maintenant, c’est maintenant que je parle.
MAURICE BLANCHOT, Le Très-Haut


1. Je parle. Qui parle?

Tra i primi a dedicare un lungo studio all’opera di Blanchot, Michel Foucault pensa bene di partire dal principio. [1] E abbordando la questione frontalmente, incappa subito nel problema. Je parle. Proposizione puntiforme e infinita, che quando è pronunciata sembra eterna e quando non lo è sembra eternamente impronunciabile. Paradosso ancora più infido dell’io mento di Epimenide, che può essere sciolto se si fa della proposizione l’oggetto di un’altra proposizione di grado superiore — io dico che io mento — dal cui valore di verità dipende quello dell’altra. Ma se si scrive io dico che io parlo, nulla si risolve: non si può “risolvere”, parlando, l’atto di parlare, che nel momento in cui avviene sembra non aver mai avuto inizio, e che quando si tace sembra non aver avuto fine, nel senso che non può essersi concluso ciò di cui nessuna traccia testimonia la passata esistenza.

Il tema ispira a Foucault questa riflessione: la letteratura è incollata al centro di se stessa e non può uscire dai suoi confini che con un balzo che ne annulli l’esistenza; e lo stesso destino annichilente si compie per chi il balzo lo compie dall’esterno per raggiungere il suo centro. Quando, nelle ultime pagine di Thomas l’obscur, Thomas afferma: «Je pense, donc je ne suis pas», [2] possiamo intendere proprio questo: l’atto di pensare, l’atto di parlare, arresta la mia esistenza reale, la mia parola mi toglie la parola, mi mette in comunicazione con l’eco dell’ultima parola, quella della mia morte, che mai potrò ascoltare. [3] Tale esperienza è lo spazio di un dehors esistenziale in cui il soggetto scompare se la sua parola si manifesta.

La letteratura ha costruito il suo palazzo nel cuore di questo deserto, a cui nessuna strada può condurti se non ci sei già. Foucault chiama questa dimora la pensée du dehors, definendola «la percée vers un langage d’où le sujet est exclu», luogo in cui «l’être du langage n’apparait pour lui-même que dans la disparition du sujet». [4] Dopo aver citato, come portatori di tale pensiero del fuori (nell’ordine): Sade, Hölderlin, Nietzsche, Mallarmé, Artaud, Bataille, Klossowski — pressappoco l’intera squadra letteraria, Racine e Diderot esclusi, di Folie et déraison —, Foucault eleva Blanchot a qualcosa di più che un semplice rappresentante di una parola da cui il soggetto è evaso:
De cette pensée, Blanchot ne peut être pas seulement l’un des témoins. Tant il se retire dans la manifestation de son œuvre, tant il est, non pas caché par ses textes, mais absent de leur existence et absent par la force merveilleuse de leur existence, il est plutôt pour nous cette pensée même – la présence réelle, absolument lointaine, scintillante, invisible, le sort nécessaire, la loi inévitable, la vigueur calme, infinie, mesurée de cette pensée même. [5]
Blanchot è per Foucault l’incarnazione stessa di una parola senza più io: è la “presenza dell’assenza” del soggetto dalla letteratura. La questione è stabilire se il soggetto scompare a causa della sua parola, o se — nonostante o proprio grazie alla propria sparizione — sopravvive a tale evento mortifero, sdoppiandosi nella parola del racconto per potervi assistere e per poterlo testimoniare. Insomma, ciò che interessa Foucault è la questione della morte dell’autore. Se si pensa che tre anni dopo riprenderà alla lettera alcune formulazioni (tra cui quella di dehors) nella celebre conferenza Qu’est-ce qu’un auteur?, in cui la posta in gioco è palesemente dichiarata, il dubbio è fondato che la sua venerazione nei confronti di Blanchot faccia di questi la prima vittima di una caccia all’uomo-autore lanciata in grande stile.
Le thème dont je voudrais partir, j’en emprunte la formulation à Beckett: «Qu’importe qui parle, quelqu’un a dit qu’importe qui parle.» Dans cette indifférence, je crois qu’il faut reconnaître un des principes éthiques fondamentaux de l’écriture contemporaine. [...]
On peut dire d’abord que l’écriture d’aujourd’hui s’est affranchie du thème de l’expression: elle n’est référée qu’à elle-même, et pourtant, elle n’est pas prise dans la forme de l’intériorité ; elle s’identifie à sa propre extériorité déployée. [...] l’écriture se déploie comme un jeu qui va infailliblement au-delà des règles, et passe ainsi au-dehors. [...]
Le second thème est encore plus familier ; c’est la parenté de l’écriture à la mort. [...] l’écriture est maintenant liée au sacrifice, au sacrifice même de la vie ; effacement volontaire qui n’a pas à être représenté dans les livres, puisqu’il est accompli dans l’existence même de l’écrivain. L’œuvre qui avait le devoir d’apporter l’immortalité a reçu maintenant le droit de tuer, d’être meurtrière de son auteur. Voyez Flaubert, Proust, Kafka. Mais il y a autre chose : ce rapport de l’écriture à la mort se manifeste aussi dans l’effacement des caractères individuels du sujet écrivant ; par toutes les chicanes qu’il établit entre lui et ce qu’il écrit, le sujet écrivant déroute toutes les signes de son individualité particulière ; la marque de l’écrivain n’est plus que la singularité de son absence ; il lui faut tenir le rôle du mort dans le jeu de l’écriture. Tout cela est connu ; et il y a beau temps que la critique et la philosophie ont pris acte de cette disparition ou de cette mort de l’auteur. [6]
Chi parla? Nessuno. Novello Polifemo, Foucault si lascia ingannare dal diabolico Ulisse, il cui capolavoro è riuscire a convincerlo della propria inesistenza. Ispirandosi a Beckett, ma anche a Blanchot — la parenté de l’écriture à la mort, le droit de tuer... —, Foucault sembra infatti soffermarsi soltanto sulla prima parte della formula da lui proposta: Qu’importe qui parle. Ma così facendo ignora la sottile ironia con cui Beckett raddoppia la prima parte della formula nella seconda ѿ quelqu’un a dit qu’importe qui parle — facendola così ruzzolare giù nell’universo della letteratura e nel paradosso del suo Je parle, di cui Foucault stesso ha riconosciuto l’inesauribilità. Chi parla? Che importa chi parla. Ma chi ha detto: “che importa chi parla”?...

È l’essenza stessa del Je parle a far sì che la questione originaria si raddoppi in un’altra domanda: chi parla, quando nessuno parla? In altri termini, chi è il soggetto assente della letteratura? Ed è ancora l’opera di Blanchot a ispirare questa domanda: anche negli anni che lo condurranno a elaborare la nozione di neutre, la scrittura coinciderà per lui sempre con un’esperienza soggettiva, seppur impersonale, anonima. Sarà forse per il suo sodalizio con Bataille, ma ciò che Blanchot non smetterà mai di ribadire è che non ha senso e non ha luogo la scomparsa del soggetto se non è il soggetto stesso a viverla. La scrittura è esperienza, è l’esperienza soggettivamente vissuta, subita e “sopravvissuta” dell’incontro impossibile di linguaggio e mondo: esperienza di solitudine essenziale, per lo scrittore, di creazione anonima per il lettore, di fascinazione e straniamento per entrambi.

In questo senso, recensendo nel 1953 Le degré zéro de l’écriture, Blanchot prende le distanze da Barthes per riferirsi proprio alla letteratura di Beckett come al luogo in cui l’avvento di una parola neutra può dare origine all’expérience même de la «neutralité»:
En nous orientant, par une réflexion importante, vers ce qu’il a appelé le zéro de l’écriture, Roland Barthes a peut-être désigné aussi le moment où la littérature pourrait se saisir. Mais c’est qu’en ce point elle ne serait pas seulement une écriture blanche, absente, neutre, elle serait l’expérience même de la « neutralité », que jamais l’on n’entend, car quand la neutralité parle, seul celui qui impose silence prépare les conditions de l’entente, et cependant ce qu’il y a à entendre, c’est cette parole neutre, ce qui a toujours été dit, ne peut cesser de se dire et ne peut être entendu, tourment dont les pages de Samuel Beckett rapprochent de nous le pressentiment. [7]
Ed è ancora a proposito di Beckett che, poco oltre, Blanchot afferma che la letteratura è «expérience vécue sous la menace de l’impersonnel», che l’autore coincide con «l’exigence qui l’a entraîné hors de soi», lasciando al posto un vuoto che mal nasconde un «Je poreux et agonisant», che il soggetto della letteratura è una «survivance parlante, le reste qui ne veut pas ceder». [8] Insomma, per Blanchot il vero scandalo a cui la letteratura ci espone non è tanto la morte del soggetto, quanto la sua paziente sopravvivenza alla propria condanna. Come nel racconto di Borges Il miracolo segreto, continuare a scrivere è l’unica possibilità per lo scrittore di salvarsi da una sentenza di morte che egli stesso ha decretato, nel momento in cui si è consacrato al suo mestiere.

Qualche anno dopo, in Michel Foucault tel que je l’imagine, Blanchot scriverà che in Che cos’è un autore? non era mai stata in questione l’eventualità di un’abolizione totale del soggetto scrivente. La lettura di Blanchot non è irrispettosa del testo, essa riscopre anzi il senso più profondo della proposta foucaultiana andando al di là del dibattito sulla morte dell’autore che aveva monopolizzato quegli anni (anche a causa della radicalità delle formule utilizzate da Foucault). Ciò che Foucault in quegli anni proponeva, secondo Blanchot, non era ammazzare il soggetto quanto, piuttosto, togliergli il privilegio di fondamento originario del linguaggio — non prima di aver analizzato in che modo, storicamente, esso fosse riuscito a ritagliarsi tale ruolo — e di analizzarlo soltanto come “funzione” del discorso, dipendente da esso e perciò subordinato alle sue variabili. [9] Il che, se non annulla ogni differenza tra le rispettive concezioni (che restano anzi su questo punto molto distanti tra di loro), ammette la possibilità di un confronto tra Foucault e Blanchot.


2. Io scrivo che Omero racconta che Ulisse...

. In che modo si coniuga allora la riflessione blanchotiana sulla “scomparsa” del soggetto scrivente? Per Blanchot il soggetto sparisce non dalla, ma nella scrittura, e la sua scomparsa è l’evento che dà luogo alla letteratura. In verità, più che sparire del tutto, lo scrittore sembra appiattirsi sino a incarnare la soglia che separa reale e immaginario. Essere bidimensionale, come il foglio che ha davanti, la sua vita è invivibile, la sua immagine è invisibile: il suo destino è l’impossibilità di appartenere a un mondo come all’altro, l’impossibilità di proiettare su entrambi la propria ombra. Chiedendo in prestito il vocabolario di altri pensatori dell’epoca, potremmo dire che è la piega flessibile di un chiasma tra reale e immaginario. Ma se lo scrittore è una linea di confine, allora l’evento della sua scomparsa lascia in luogo della sua assenza un’infinita indecidibilità delle frontiere. Egli è una creatura reale che scompare nell’immaginario, ma che sparendo lascia il segno indelebile della sua voce: Je parle.

La voce dello scrittore è il canto delle Sirene, una voce ammaliante e senza più padrone, una voce che nessuno, nemmeno Ulisse — nemmeno Nessuno — riuscirà a dominare, sottraendosi al suo pericolo. Secondo Blanchot a sopravvivere non è l’Ulisse scampato al canto delle Sirene, ma il personaggio immaginario restato incatenato al racconto omerico. E quel suo ritrarsi per salvarsi dall’incontro con l’immaginario, riuscendo così a raccontarlo, genera lo spazio abissale di un evento che si ripete per dare inizio a ogni opera, facendo così della letteratura un’impresa ciclica, il racconto interminabile di se stessa.

Anche Italo Calvino ne è convinto, e non a caso sceglie l’episodio omerico come esempio paradigmatico della letterarietà, della possibilità stessa cioè di separare un evento, reale o immaginario, dal racconto di esso, e di inaugurare così l’epoca dello sdoppiamento infinito di mondo e linguaggio, di cose e parole: «Io scrivo che Omero racconta che Ulisse dice: io ho ascoltato il canto delle Sirene...»; [10] la letteratura è la processione in un cosmo stratiforme, che invita e costringe lo scrittore e il lettore ad affondare gradualmente nella follia della sua razionalità labirintica, a perdersi nei suoi corridoi, a scendere e a risalire le sue scale, a cercare l’uscita di questo maledetto universo bidimensionale che sembra disegnato da Escher.

*
Tutto comincia da Ulisse. Il pessimismo critico di Horkheimer e Adorno vi aveva riconosciuto l’atto di nascita del logos occidentale, nella scelta dell’uomo omerico di rinnegare l’universo mitico che lo ha generato, di separarsi dalla propria stessa natura allo scopo di dominarla, ma con l’unico risultato di perderla definitivamente. E lo stesso Blanchot, qualche anno dopo, si accanirà contro l’eroe omerico, riconoscendo in Ulisse i prodromi di un’epoca meschinamente “borghese”, l’attitudine sadomasochistica di un padrone che si fa legare dai suoi schiavi per violentare la Natura attraverso la tecnica, senza peraltro arrivare a possederla. Se Ulisse si fa incatenare, sono però le Sirene a essere internate, loro, creature reali, nella splendida dorata prigione dell’immaginario. Se Ulisse si fa incatenare, lo fa allo scopo di istituirsi signore, elevare il proprio corpo a luogo stesso della Legge, e in tal modo fare del mare il suo arem, denudando, dissacrando la femminilità, trasformandola in uno spettacolo osceno di cui è l’unico a fruire, ma solo come spettatore, essendone separato dalle barriere stesse che servono a proteggerlo. [11]

Che avesse letto o meno la Dialettica dell’illuminismo, [12] il discorso di Blanchot ricalca fedelmente quello di Horkheimer e Adorno soltanto per condurlo altrove; al contrario di costoro, che riconoscono nella letteratura — almeno in quella post-illuministica — il prodotto di un’industria culturale schiava di una schiatta di padroni diretti discendenti di Ulisse, Blanchot vi scopre invece un residuale e sempiterno universo “pre-illuministico” in cui l’uomo e la sua tecnica nulla possono contro l’incantesimo dell’immaginario; potere che l’uomo omerico stesso ha scatenato, quando ha costretto il canto delle Sirene a trasformarsi in racconto, dando vita così a una copia del reale in apparenza inoffensiva, ma portatrice, in potenza, di una duplicità ontologica inesauribile.
Les Sirènes vaincues par le pouvoir de la technique qui toujours prétendra jouer sans péril avec les puissances irréelles (inspirées), Ulysse n’en fut cependant pas quitte. Elles l’attirèrent là où il ne voulait pas tomber, et cachées au sein de L’Odyssée devenue leur tombeau, elles l’engagèrent, lui et bien d’autres, dans cette navigation heureuse, malheureuse, qui est celle du récit, le chant non plus immédiat, mais raconté, par là en apparence rendu inoffensif, ode devenue épisode. [13]
Costretta fuori dalla Storia sin dal giorno della sua nascita, la letteratura si avvera come il luogo in cui praticare, contro la Storia stessa, una politica rivoluzionaria. [14] L’episodio omerico assume dunque un ulteriore significato; Blanchot vi riconosce la comparsa di una perversa dialettica anti-illuministica: l’atto attraverso cui la ragione assoggetta il pensiero mitico genera una frattura insanabile tra reale e immaginario, una frattura a causa della quale il primo, per affermare le ragioni della propria esistenza, avrà bisogno per sempre di celebrare l’assenza dell’altro. L’atto violento con cui il reale sottomette l’immaginario finisce per istituire un contropotere sotterraneo, un universo della résistance dal conflitto col quale è la realtà stessa a dipendere in maniera ontologica. Riconosciamo qui lo stesso schema che, partendo da una diversa coppia oppositiva — Raison/Déraison —, darà origine al sistema di Storia della follia, per il quale Foucault in effetti dichiarava di aver tratto ispirazione proprio dall’opera di Blanchot. [15]

La letteratura nasce nel momento in cui Ulisse si ritrae da essa. La letteratura è anzi questo evento stesso, infinitamente ricelebrato; essa riproduce quell’originario e mai concluso movimento a ritroso, cercando di riconciliare l’evento reale col suo doppio immaginario, ma riuscendo così soltanto a realizzare il proprio destino, che è di moltiplicarsi nell’infinita (im)possibilità del racconto. Dal regno dell’unico a quello del molteplice, la letteratura è una marche d’écrevisse che non riesce a colmare la distanza dal giorno in cui il reale è fuggito da essa, non facendo che raddoppiare a ogni passo che a esso la avvicina il numero di passi ancora da fare. Calvino concluderà il suo saggio sui Livelli della realtà in letteratura riferendosi proprio a Blanchot e all’interpretazione che dell’episodio omerico egli dà in La rencontre de l’imaginaire, per spiegare come la letteratura sia una struttura potenzialmente inesauribile, infinita:
Ma quello che il testo dell’Odissea ci dice sul canto delle Sirene è che le Sirene dicono che stanno cantando e che vogliono essere ascoltate, è che il loro canto è quanto di meglio possa essere cantato. L’esperienza ultima di cui il racconto di Ulisse vuol rendere conto è un’esperienza lirica, musicale, ai confini dell’ineffabile. Una delle più belle pagine di Maurice Blanchot interpreta il canto delle Sirene come un al di là dell’espressione da cui Ulisse, dopo averne sperimentato l’ineffabilità, si ritrae, ripiegando dal canto al racconto del canto [...]. Una tale riformulazione forse ci permetterebbe d’inseguire il canto delle Sirene, l’estremo punto d’arrivo della scrittura, il nucleo ultimo della parola poetica, e forse sulle tracce di Mallarmé arriveremmo alla pagina bianca, al silenzio, all’assenza. Il tracciato che abbiamo seguito, i livelli di realtà che la scrittura suscita, la successione di veli e di schermi forse s’allontana all’infinito, forse s’affaccia sul nulla. Come abbiamo visto svanire l’io, il primo soggetto dello scrivere, così ce ne sfugge l’ultimo oggetto. Forse è nel campo di tensione che si stabilisce tra un vuoto e un vuoto che la letteratura moltiplica gli spessori d’una realtà inesauribile di forme e di significati. [16]
La letteratura è un universo dalla struttura infinita, perché è sospesa tra due vuoti, perché è come un bastone che può essere spezzato a piacere e produrre così, ogni volta, infinite volte, non ai suoi confini ma nel proprio centro, quella frattura abissale che è il senso ineffabile dell’opera, la ricerca del quale condanna il lettore allo smarrimento e lo scrittore alla disperazione, come scrive Borges: «Arrivo, ora, all’ineffabile centro del mio racconto; comincia, qui, la mia disperazione di scrittore». [17] Per Blanchot questo centro immaginario coincide con l’evento originario della letteratura; ma se esso è il luogo in cui tutto si raddoppia infinitamente («si, entre la figure et ce qui en est ou s’en croit le centre, l’on a raison de ne pas distinguer, chaque fois que la figure complète n’exprime elle-même que la recherche d’un centre imaginaire» [18]), allora questo luogo è, allo stesso tempo, il momento in cui si annulla la possibilità di un’origine della letteratura («là où il y a un double parfait, l’original est effacé, et même l’origine» [19]), così come quella di una sua fine, se questo è il fine dello scrittore, dal momento in cui comincia a scrivere («commencer d’écrire pour arriver aussitôt au terme» [20]).

Il riferimento all’originarietà di un contatto — di un conflitto — tra letteratura e mondo è perciò gelosamente custodito nella scrittura blanchotiana, ma inserito all’interno di una struttura che rende impossibile, allo scrittore come al lettore, l’impresa di risalire verso il punto in cui quell’evento primordiale ha avuto luogo. Impossibilità che si avvera come un paradosso temporale: il centro immaginario dell’opera è lo spazio in cui ogni volta ha luogo un evento appartenente a un tempo effroyablement ancien e toujours à venir, di cui il récit è l’impossibile, eppure reale, manifestazione presente. La letteratura è perciò un universo dotato di coordinate spaziotemporali ben definite, ma che costringe il lettore a non raggiungere mai l’uscita, né l’agrimensore il suo Castello; come Achille, per quanto veloce corra, non potrà mai raggiungere la tartaruga.

L’infinito spazio e l’eterno tempo non possono essere esperiti dall’uomo, ma «l’erreur, le fait d’être en chemin sans pouvoir s’arrêter jamais, change le fini en infini», scrive Blanchot a proposito del “cattivo infinito” letterario di Borges. [21] E così la letteratura è l’unica realtà infinita di cui l’uomo possa fare esperienza, proprio perché essa non è realmente infinita, ma lo è solo per un paradosso, un sofisma, a cui si finisce per acconsentire, se conquistati dalla sua grazia o costretti dalla sua violenza. È la sua essenza immaginaria stessa a imporle di esistere come un’illusione ottica, di ingannare l’occhio umano scomponendosi in livelli che s’intersecano e si sovrappongono, che si moltiplicano a partire dal loro centro per sbigottire il lettore che si è spinto sin lì alla ricerca del mistero della loro origine e in questo puntum cæcum ritrovare la strada per risalire dall’immaginario al reale. Ed è proprio l’eventualità che ciò si avveri a rendere la letteratura l’illusione più seria che si possa immaginare:
La littérature n’est pas une simple tromperie, elle est le dangereux pouvoir d’aller vers ce qui est, par l’infinie multiplicité de l’imaginaire. La différence entre le réel et l’irréel, l’inestimable privilège du réel, c’est qu’il y a moins de réalité dans la réalité, n’étant que l’irréalité niée, écartée par l’énergique travail de la négation et par cette négation qu’est aussi le travail. C’est ce moins, sorte d’amaigrissement, d’amincissement de l’espace, qui nous permet d’aller d’un point à un autre, selon l’heureuse façon de la ligne droite. Mais c’est le plus indéfini, essence de l’imaginaire, qui empêche K. d’atteindre jamais le Château, comme il empêche pour l’éternité Achille de rejoindre la tortue, et peut-être l’homme vivant de se rejoindre lui-même en un point qui rendrait sa mort parfaitement humaine et, par conséquent, invisible. [22]
Vediamo qui quanto Blanchot si spinga oltre: non accontentandosi di restituire alla letteratura una serietà che essa stessa sembra negarsi, con l’assurdità dei suoi progetti, arriva a far dipendere da essa l’esistenza stessa dell’uomo e del suo mondo, facendo della sua vita l’incapacità infinita di ricongiungersi con l’istante della propria morte, e della realtà il semplice risultato di una sottrazione matematica. Perché l’Essere e non il Nulla? Perché l’Essere è il resto del Nulla; tutto ciò che è reale lo è solo perché e fino a quando resiste come lo scarto di ciò che è immaginato. [23] Ispirato dalla cattiva compagnia di Borges, Blanchot arriva a considerare il reale come un sottoinsieme particolarmente fortunato dell’immaginario (ma già Valéry aveva detto che Après tout, le réel n’est pas qu’un cas particulier [24]). Il reale esiste perché è possibile nell’universo dell’immaginario; il che significa che se l’evento raccontato nel libro ha avuto luogo nella realtà è soltanto perché esso già esisteva nell’universo del récit.
C’est là un rapport très délicat, sans doute une sorte d’extravagance, mais elle est la loi secrète du récit. Le récit est mouvement vers un point, non seulement inconnu, ignoré, étranger, mais tel qu’il ne semble avoir, par avance et en dehors de ce mouvement, aucune sorte de réalité, si impérieux cependant que c’est de lui seul que le récit tire son attrait, de telle manière qu’il ne peut même « commencer » avant de l’avoir atteint, mais cependant c’est seulement le récit et le mouvement imprévisible du récit qui fournissent l’espace où le point devient réel, puissant et attirant. [25]
Il punto originario in cui l’evento incontra se stesso nel récit è dunque la condizione di possibilità dell’esistenza non solo della letteratura, ma anche del reale stesso. Blanchot mette un’ipoteca sul mondo per abitare quel fantastico palazzo costruito nel mezzo del deserto, di cui l’universo reale diventa una semplice dépendance. Punto di vista bizzarro, ma perfettamente conseguente. Se in La littérature et le droit à la mort l’opera letteraria era concepita come il risultato di un travail de négation del reale, qui la prospettiva si ribalta del tutto: il diritto alla morte della letteratura è quello di dare vita al mondo. Se la letteratura è perturbante — unheimlich, disturbante nella sua familiarità — è perché essa ci ricorda da dove veniamo: «Accettiamo facilmente la realtà, forse perché intuiamo che nulla è reale», [26] scrive ancora Borges. L’Essere è soltanto una parziale riproduzione del Nulla, il reale non esiste, o non esiste ancora; al massimo, è una profezia dell’immaginario, irrealizzata, in quanto è solo l’incontro col récit a poterla avverare.
Il est vrai, Ulysse naviguait réellement et, un jour, à une certaine date, il a rencontré le chant énigmatique. Il peut donc dire : maintenant, cela arrive maintenant. Mais qu’est-il arrivé maintenant ? La présence d’un chant seulement encore à venir. Et qu’a-t-il touché dans le présent ? Non pas l’événement de la rencontre devenue présente, mais l’ouverture de ce mouvement infini qu’est la rencontre elle-même, laquelle est toujours à l’écart du lieu et du moment où elle s’affirme, car elle est cet écart même, cette distance imaginaire où l’absence se réalise et au terme de laquelle l’événement commence seulement à avoir lieu, point où s’accomplit la vérité propre de la rencontre, d’où, en tout cas, voudrait prendre naissance la parole qui la prononce. [27]
Anche l’evento reale che genera l’esistenza dell’immaginario, dunque, anche il tempo e il luogo in cui lo scrittore scrive e il lettore legge, esistono perché è l’evento immaginario che questi hanno dinanzi ad averli generati:
  • «Perché un libro esista, basta che sia possibile. Solo l’impossibile è escluso»; [28]
  • ma: «Omero compose l’Odissea; dato un tempo infinito, con infinite circostanze e mutamenti, l’impossibile è non comporre, almeno una volta, l’Odissea»; [29]
  • ergo, l’Odissea esiste; e così tutti i libri. E, tra questi, anche la realtà, il più ingombrante, seppur non necessariamente il più bello dei mondi — pardon, dei libri possibili. Le plus grand, le plus terrible et le plus beau des mondes possibles, hélas un livre, rien qu’un livre... [30]

[1] M. Foucault, “La pensée du dehors”, in Critique, juin 1966, XXII (229), pp. 523-546.
[2] M. Blanchot, Thomas l’obscur (nouvelle version), Gallimard, Paris 1950, p. 304.
[3] Cfr. M. Blanchot, “La littérature et le droit à la mort”: «Il est donc précisément exact de dire, quand je parle : la mort parle en moi. Ma parole est l’avertissement que la mort est, en ce moment même, lâchée dans le monde, qu’entre moi qui parle et l’être que j’interpelle elle a brusquement surgi» (in La Part du feu, Paris, Gallimard, 1949, p. 313).
[4] M. Foucault, “La pensée du dehors”, cit., p. 525.
[5] Ibid., p. 527.
[6] M. Foucault, “Qu’est-ce qu’un auteur?”, in Dits et écrits, 1, 1954-1975, Gallimard, Paris 2001, pp. 792-793.
[7] M. Blanchot, “La recherche du point zéro”, in Le livre à venir, Gallimard, Paris 1959, p. 285. Cfr. anche, subito dopo, ”«Où maintenant ? Qui maintenant ?»”, pp. 286-287.
[8] Ibid., p. 290.
[9] Cfr. M. Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur ?, cit., pp. 798 et ss. e M. Blanchot, Michel Foucault tel que je l’imagine, Fata Morgana, Montpellier 1986, p. 29.
[10] I. Calvino, “I livelli della realtà in letteratura” (1978), in Una pietra sopra, Milano, Mondadori, 1995, p. 380.
[11] Cfr. M. Blanchot, “La rencontre de l’imaginaire”, in Le livre à venir, cit., p. 11.
[12] Sulla questione cfr. Vivian Liska, “L’Enchantement à deux voix. Le détournement des sirènes chez Blanchot et Adorno”, in AA. VV., Maurice Blanchot, la singularité d’une écriture, a cura di A. Cools et al., Les Lettres Romanes, Louvain 2005, pp. 75-84.
[13] M. Blanchot, “La rencontre de l’imaginaire”, cit., pp. 11-12.
[14] «Deboutée de l’histoire, la littérature joue sur un autre tableau. Si elle n’est pas réellement dans le monde, travaillant à faire le monde, c’est que, par son manque d’être (de réalité intelligible), elle se rapporte à l’existence encore inhumaine. Oui, elle le reconnaît, il y a dans sa nature un glissement étrange entre être et ne pas être, présence, absence, réalité et irréalité...» (M. Blanchot, “La littérature et le droit à la mort”, cit., p. 327).
[15] Cfr. M. Foucault, “La folie n’existe que dans une société”, in Dits et écrits 1, 1954-197), cit., p. 168.
[16] I. Calvino, “I livelli della realtà in letteratura”, cit., pp. 389-390.
[17] J.L. Borges, “L’Aleph”, in L’Aleph,, Feltrinelli, Milano 2006, p. 164.
[18] M. Blanchot, Thomas l’obscur, cit., p. 8. Cfr. anche la nota introduttiva a L’espace littéraire (Gallimard, Paris, 1955), p. 5.
[19] M. Blanchot, “L’infini littéraire: L’Aleph”, in Le livre à venir, p. 133.
[20] M. Blanchot, Après coup, Paris, Minuit, 1983, p. 92.
[21] Cfr. M. Blanchot, “L’infini littéraire: L’Aleph”, cit., p. 130.
[22] Ibid., pp. 133-134.
[23] J.L. Borges, “Il miracolo segreto”, in Finzioni, cit., pp. 135-136: «Poi rifletté che la realtà non suole coincidere con le previsioni; con logica perversa ne dedusse che prevedere un dettaglio circostanziale è impedire che esso accada. Fedele a questa debole magia, inventava, perché non succedessero, particolari atroci; naturalmente, finì per temere che questi particolari fossero profetici».
[24] P. Valéry, Mauvaises pensées et autres, Paris, Gallimard, 1942 (citato dal traduttore F. Lucentini in J.L. Borges, Finzioni, cit., p. 14).
[25] M. Blanchot, “La rencontre de l’imaginaire”, cit., p. 14.
[26] J.L. Borges, “L’immortale”, in L’Aleph, cit., p. 17.
[27] M. Blanchot, “La rencontre de l’imaginaire”, cit., pp. 17-18.
[28] J.L. Borges, “La Biblioteca di Babele”, in Finzioni, cit., p. 76.
[29] J.L. Borges “L’immortale”, cit., p. 19.
[30] M. Blanchot, “La rencontre de l’imaginaire”, cit., pp. 15-16.



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