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L'idea di Corpo
Incontri tra antropologia filosofica e Transumanesimo

di Silvia Cegalin

6 novembre 2018


1. La Seconda Natura natura dell'uomo.
«La vita non deve essere organica» [1] scrive in Metal and Flesh Ollivier Dyens, dunque la realtà biologica, così definita dal premio Nobel per la medicina François Jacob, oggi non trova più fondamento perché la cultura ha letteralmente detronizzato il biologico, facendolo divenire sinonimo di: «filtrato, tradotto e trasformato dalla cultura» [2]. I nuovi media, le tecnologie, i progressi scientifici hanno contagiato il vivente che all'interno di questo quadro socio-culturale non è più considerato come un semplice elemento neutro o naturale, ma piuttosto come il luogo, la sede, in cui i fattori esterni artificiali si proiettano e si intrecciano in esso, modificandolo e facendolo divenire altro da sé.
L'uomo quindi appare trasformato, riassestato all'interno di una cornice in cui a prendere senso e ad essere valorizzate non sono le componenti originali, quanto la sua mutazione. Tale passaggio è la risposta più adeguata alla chiamata insistente della natura che vuole e pretende l'adattamento ambientale di tutti gli esseri viventi, pena l'estinzione; ma la conservazione dell'uomo tramite la technè è lo svelamento di un'inferiorità tacita del''umano, che per sopravvivere, a differenza degli animali, necessita di ripari artificiali. Il corpo organico umano, di conseguenza, viene incessantemente subissato e stimolato da agenti esterni che lo plasmano, rendendolo oggetto culturale.

Gli esseri viventi, infatti precisa Dyens, non sono semplicemente il risultato della trasmissione genetica, ma anche della rappresentazione culturale, che riconferma l'idea che il corpo dell'uomo è sempre e comunque manipolato; rimarcando il concetto che le tecnologie non agiscono sul corpo come mere estensioni, ma che grazie ad esse nell'organismo sono instaurate dinamiche e processi che fanno evolvere in parallelo sia le componenti naturali che quelle artificiali, creando entità ibride.

In concordanza con le teorie di Dyens è anche il docente universitario e studioso Pier Luigi Capucci, che nel saggio Il trionfo del corpo [3] valuta l'intrusione dei sistemi tecnici nel corpo come l'avvento di una seconda natura, riconfermando a sua volta la potenza della dimensione culturale rispetto a quella biologica. Capucci dichiara che la physis, da un'iniziale posizione di predominio è divenuta controllabile, rendendo l'intervento della cultura un mezzo per permettere al corpo di instaurare una relazione attiva e maggiormente consapevole con l'habitat che lo circonda. Capucci, inoltre, aggiunge che la fisiologia umana non è l'unica che ha subito mutazioni derivati dall'introduzione di innesti tecnologici, ma che anche l'ambiente esterno si è tecnologizzato per agevolare l'esistenza dell'uomo, permettendogli così una maggiore capacità operativa.

Si deduce che l'uomo grazie alla tecnologia ha aumentato le proprie conoscenze sensoriali e facilitato il suo stare al mondo e, tale considerazione, non può non riportare alla memoria gli studi sull'evoluzione effettuati dall'antropologia filosofica tedesca. Quasi in contemporanea Paul Alsberg, Max Scheler ed Helmuth Plessner pubblicheranno le loro teorie antropologiche più importanti, teorie in cui l'uomo viene definito come un essere indeterminato o un animale malato. Dalle loro riflessioni, seppur con qualche differenza, sorge dunque l'immagine di un uomo che basa la propria esistenza nel difetto, in una condizione che può trovare equilibrio soltanto grazie alla volontà di superare i propri limiti, costruendo sistemi che gli permettano una sopravvivenza duratura e dignitosa. All'interno del libro L'enigma uomo del 1922, Alsberg è tra i primi a rilevare che ad una evoluzione culturale corrisponde un'involuzione biologica, e definendo il principio del disimpegno organico (in origine Körperausschaltung, ossia che ad un'evoluzione dell'uomo corrisponde un'inevitabile regressione corporea); spiega come l'uomo, al contrario dell'animale, non sia predisposto all'adattamento ambientale, e che per questo sia portato ad usufruire di utensili extra-organici, utili non tanto per completare il corpo, ma per sostituirlo, per prenderne il posto. È grazie all'utensile, a questi innesti extracorporei, quindi, che l'uomo può vivere la realtà diminuendo le proprie incapacità, circoscrivendo le varie restrizioni fisiche per raggiungere un'esperienza del mondo più profonda.

In accordo con il pensiero di Alsberg sarà anche Scheler che, ribadendo l'impossibilità di collocare l'essere umano al vertice della scala biologica, nel suo saggio del 1928 La posizione dell'uomo nel cosmo indica l'inadeguatezza dell'uomo a rispondere agli stimoli esterni facendosi carico semplicemente degli strumenti concessogli dalla natura; l'uomo è costretto dunque a passare da una dimensione biologica ad una culturale. Tale trasferimento da un livello naturale ad uno artificiale viene descritto da Scheler in termini di: sottrazione dalle dipendenze della vita, che vuole fare dell'uomo (diversamente dall'animale) un essere che si è liberato dall'ambiente, e che grazie alla produzione di intuizioni e idee gode di un'esperienza metafisica e spirituale con il mondo. Perché mentre gli animali rimangono immersi nel loro ambiente, l'uomo è in grado di trascenderlo, facendosi motivare in maniera oggettiva da esso.

La caratteristica principale di un essere spirituale, consiste nella sua emancipazione esistenziale di ciò che è organico, nella sua libertà, nella capacità che esso, o meglio il centro della sua esistenza, ha di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con quanto è organico, dal legame con la vita. [4]

Nello stesso anno Plessner pubblica I gradi dell'organico e l'uomo: un'introduzione all'antropologia filosofica, in cui pur concordando con l'idea che l'uomo sia un animale carente, fonda le proprie riflessioni su un livello leggermente diverso rispetto a quello dei suoi colleghi. Plessner è convinto che non esista una separazione netta tra fenomeno naturale e culturale, chiarendo che l'uomo, pur usufruendo di meccanismi artificiali, non perde e non dimentica il proprio lato biologico e istintuale, ma che a differenza dell'animale, reagisce al proprio ambiente in maniera consapevole e non limitatamente impulsiva. Tali studi sono stati fondamentali per la nascita del pensiero gehleneano, necessario per un'alternativa comprensione dell'uomo e delle sue possibilità.

Nel testo L'uomo, la natura e il suo posto nel mondo del 1940, Gehlen introduce la nozione di seconda natura. Esattamente come i suoi predecessori anche lui considera l'essere umano come un essere imperfetto, perché sprovvisto di organi di attacco, di difesa e di fuga; se ne deduce, quindi, che da queste mancanze egli non possiede armi proprie e naturali per affrontare l'ambiente naturale.

L'uomo, posto come un animale di fronte alla natura grezza, sarebbe in tutte le situazioni incapace di vivere con la sua physis innata e la sua carenza di istinti. Queste carenze vengono però compensate attraverso la capacità, che sa rispondere alla più urgente necessità: modificare questa natura grezza, e in realtà qualsivoglia natura, in qualunque modo ciò possa essere fatto, in modo tale che essa possa divenire per lui utilizzabile per la vita [5].

L'uomo non è adatto a vivere (o sarebbe meglio dire sopravvivere?) in nessun ambiente particolare, specifico, ma nonostante tutto riesce ad esistere, a conservarsi e a riprodursi, perché oltre al suo livello naturale e fisiologico, l'essere umano vive una “seconda natura” [6] costituita da elementi tecnici e culturali che gli consentono di relazionarsi al mondo. È dunque grazie alla tecnica e ai suoi prolungamenti che l'uomo compensa la propria carenza organica, agendo così sulla e nella realtà. L'uomo per difendersi e farsi carico delle proprie mancanze vive una continua costrizione ed esigenza di superare e manipolare l'ambiente naturale in cui è inserito, tale intervento è considerato da Gehlen come l'atto di trasformazione del deficit della propria esistenza in un'opportunità per preservarsi in vita.

L'essere umano, dunque, si fa carico di se stesso e della propria situazione di precarietà, riuscendo, attraverso l'alterazione dell'ambiente originario a lui ostile, a far emergere un nuovo contesto esistenziale che gli permette condizioni di vita e di sviluppo non presenti in natura; ed è proprio in questa dimensione culturale che l'uomo ri-trova se stesso. Come si può facilmente intuire la filosofia di Gehlen radica le proprie basi nel pensiero di Jakob von Uexküll. Se, come abbiamo appena visto, Gehlen parla di 'ambienti esistenziali' è perché alle spalle ha gli studi del biologo estone, considerato anche il precursore del termine Umwelt. Uexküll non a caso è stato il primo a mettere in discussione l'idea che gli esseri viventi interagissero con un unico mondo condiviso, proponendo invece l'esistenza di infiniti mondi soggettivi. E l'Umwelt è proprio questo: una specifica condizione ambientale, non generica e differenziata da specie a specie, famoso in merito è l'esempio del mondo della zecca [7]. L'Umwelt, di conseguenza, può essere considerata come la dimensione evoluta del Welt, ossia del mondo in sé, e tale concetto non può non richiamare l'ecologia, termine coniato nella seconda metà del diciannovesimo secolo dal biologo inglese Ernst Haeckel, e che aveva propriamente la funzione di indicare la relazione tra gli organismi e l'ambiente. Sempre seguendo questa scia concettuale, è interessante citare anche il contributo di Heidegger. Facendo riferimento alle teorie di Uexküll, il filosofo tedesco fa un ulteriore passo in avanti, asserendo che l'animale pur avendo un proprio mondo soggettivo instaura con esso un rapporto di assoggettamento e chiusura, perché l'animale pur stando nel proprio regno ne è assorbito, e questo suo non uscire dai confini lo costringe in uno stato di stordimento.

L'uomo, al contrario, ha una relazione con il mondo che è aperta, in quanto il suo mondo in natura non esiste, e la proiezione di se stesso verso l'esterno è l'unico modo per progettarlo. In Concetti fondamentali della metafisica, Heidegger analizzando tale propensione dell'essere umano a superare i limiti imposti dalla natura, vede l'uomo come una creatura che non troverà mai un completamento, perché il suo destino sarà di modellarsi continuamente agli stimoli scaturiti dall'ambiente, dovendo creare, di volta in volta, diverse possibilità di esistenza [8]. L'uomo, quindi, trascende il Welt, entrando in quella dimensione, instabile, che gli è propria.
Interessante a tal proposito è citare il pensiero del filosofo italiano Paolo Virno, che in merito all'invenzione di mondi altri da parte dell'uomo, introduce il concetto di pseudoambienti [9], ossia contesti separati dal mondo generale in sé. Partendo dall'idea della carenza istintuale dell'animale umano di Herder [10] (come abbiamo visto ripresa nel Novecento anche da Arnold Gehlen), Virno sostiene che l'uomo mancando di istinti specializzati, necessita di protesi culturali quali ad esempio: la comunicazione, il lavoro e l'organizzazione sociale; e sarà proprio quest'ultima a determinare le nicchie ecologiche [11] (pseudoambienti) dentro la quale l'uomo potrà manifestarsi.

Il filosofo però fa un successivo passo in avanti, asserendo che l'essere umano proprio grazie a questa sua indeterminatezza instaura con il mondo una relazione che è sì aperta, ma anche distanziata/disaderente, permettendogli un distacco dagli stati delle cose. L'Essere-posto-a-distanza può essere visto come lo stato antropologico dell'uomo, che per supplire al disancoraggio ambientale forma e rileva micro-mondi di senso, ossia contesti e situazioni in cui il suo essere risulta aderente e coerente allo stato in cui si trova inserito.

Come si può notare in questo mio testo, il pensiero di Virno segna una frattura tra le concezioni dell'antropologia filosofica e il postumanesimo [12]. Se infatti Gehlen, Plessner, Scheler basavano le loro riflessioni sulla comparazione tra regno animale e quello umano, con il passaggio nel postumanesimo tale paragone perde significato. A sottolinearlo è Roberto Esposito [13], che sostenendo l'assenza di una gerarchia assiologica e ontologica tra questi due mondi, e l'appartenenza di entrambi a diversi livelli di individuazione, dichiara chiusa l'eterna lotta ideologica tra uomo e animale. Nonostante il rifiuto a considerare l'uomo ad un livello inferiore rispetto gli animali, e quindi di riflesso anche ad uscire dal paradigma della compensazione o logica della carenza biologica; Esposito concorda, tuttavia, con l'idea che l'uomo, in natura, si trova a vivere in una condizione di svantaggio; ma è proprio partendo da queste sue fragilità che egli può convertire in positivo il negativo originale, sviluppando così impulsi ed energie che a priori erano assopite.
La filosofia di Esposito dunque pone l'uomo ai margini di una soglia in cui contemporaneamente l'istinto alla vita e alla conservazione giocano la loro sfida su due piani paralleli. L'essere umano combatte costantemente tra il desiderio di esternare la propria potenza di vita e la necessità di salvaguardarsi, ossia di immunizzare quei tratti imperfetti che lo definiscono in quanto uomo. Tramite il controllo del sostrato biologico, l'uomo, domina la propria parte animalesca, sede delle pulsioni irrazionali, e facendo così si immunizza, si conserva, fino a giungere ad una nuova riprogettazione di sé.

Usando la terminologia appartenente ad Esposito, si potrebbe anche dire che: essendo negato all'essere umano la possibilità di ibridarsi con il sottofondo ambientale, egli è portato a relazionarsi con esso tramite un rapporto che lo condurrà o verso il suo superamento o verso una protezione (un'immunità) necessaria per la propria esistenza. Esposito però fa un ulteriore passo in avanti, dichiarando che tale presa di posizione avviene attraverso un'apertura in direzione dell'altro; e proprio in questa alterità sarà individuabile la soluzione per stabilizzare quelle caratteristiche che fanno dell'uomo una creatura nuda [14].


2. Ibridazioni corporee e Transumanesimo.
Ad ogni istante l'uomo fa esperienza del proprio corpo, percependolo a sé e in sé, costantemente. Da quel corpo l'uomo non si può staccare, costringendolo a farsene carico fino all'ultimo dei suoi giorni. Precedentemente abbiamo visto come l'essere umano ha, da sempre, cercato di contrastare la propria natura, considerata inadeguata, avvalendosi di espedienti tecnologici. Ora, se all'inizi del Novecento in corrispondenza con la nascita dell'antropologia filosofica, tale lettura assumeva un significato circoscritto perlopiù alle proprie esigenze fisiche di base, con l'avanzamento delle tecnologie il corpo dell'uomo è stato condotto versi altri lidi, i cui obiettivi non erano e non sono stati meramente circoscritti ad un'azione di resistenza contro madre natura, ma rintracciabili soprattutto nella volontà di superare se stessi, abbracciando significati nuovi e talvolta in contraddizione con il corpo stesso.

Sinonimo di questi nascenti corpi rinnovati è il concetto di alterità, alterità in quanto il corpo tende ad aprirsi a qualcosa che si presenta come altro da sé (un estraneo potremmo dire) che trascende se stesso fino a diventare altro. Se ne deduce che gli espedienti artificiali, in opposizione con ciò che affermava la filosofia dell'esonero [15], non sono più impiegati per rimediare a possibili mancanze del corpo umano, ma al contrario, essi divengono il medium per potenziare e destrutturare l'organismo, rendendolo un essere vivente innovativo. L'uomo, di conseguenza, viene riconosciuto capace di indirizzare l'uso di strumenti meccanici non più per colmare eventuali vuoti biologici, ma per giungere a differenti gradi di sé.

Chi ha fatto un'analisi interessante della storia dell'umanità segnata dalla tecnica è stato il sociologo Heinrich Popitz, che all'interno di Verso una società artificiale, ha esaminato con uno sguardo di fine Novecento le teorie dei padri fondatori dell'antropologica filosofica. Prendendo in considerazione soprattutto le affermazioni di Gehlen sulla manchevolezza dell'uomo, Popitz controbatte che l'uso della tecnica non è riferibile ad una assenza, ma ad una qualità e flessibilità corporea che deriva dalla consapevolezza dell'essere umano di farsi carico dei propri limiti, rendendo gli impianti artificiali elementi per arricchire quella stessa fisiologia che in origine appariva in difetto. E, richiamando il Protagora platonico, Popitz asserisce l'idea che le tecniche non servono semplicemente per compensare eventuali debolezze, ma per plasmare a proprio piacimento i fattori organici che la natura ci ha donato.
In quest'ottica, in cui l'artificialità pare divenire elemento naturale, Popitz sottolinea l'impossibilità di slegare l'essere umano dalla tecnica, postulato affermato in un certo senso anche da Heidegger che, in La questione della tecnica, vedeva nella technè un atto di disvelamento, cogliendo nell'artificiale un'attività appartenente unicamente all'uomo, l'unico in grado di manipolare a proprio gusto se stesso. E in tale irruzione della società artificiale, Popitz individua un cambiamento radicale della posizione dell'uomo nel mondo.

L'evolversi delle tecnologie, iniziato indicativamente agli esordi degli anni Ottanta, ha condotto il corpo umano ad abbracciare nuove frontiere di modellazione. Il corpo, trascendendo se stesso, ed essendo protagonista di una metamorfosi che ha avuto come fulcro il continuo ri-formarsi in una forma che non sarà eterna, attinge al fenomeno culturale, acquista valore estensivo, in quanto dove la biologia lo frena, la tecnica lo fa approdare a mete prima d'ora impensabili. Tomás Maldonado nel saggio Corpo tecnologico e scienza, sottolinea proprio il carattere evolutivo che le tecnologie attuano nei confronti del corpo, potenziandolo:

Tuttavia il corpo protesico, il corpo che funge da soggetto tecnico (o meglio tecnificato), non ha solo una rilevanza operativa, non si pone solo al servizio della necessità di renderci più efficaci. Il corpo protesico è diventato, al giorno d'oggi, anche un formidabile strumento conoscitivo della realtà in tutte le sue articolazioni, senza escludere, sia chiaro, la sua medesima realtà. [16]

Il corpo protesico ideato da Maldonado è un corpo che, superando le barriere fisiologiche iniziali, si plasma, vestendosi di connotati necessari non tanto per soddisfare un desiderio estetico, ma per raggiungere una forza e abilità extra organiche. All'interno di questa lettura, oltre lo scardinamento dell'idea che vede il corpo come un essere carente, a cambiare è anche la relazione con l'ambiente naturale che, ora, viene definita in termini positivi e costruttivi, e non più quindi di semplice sudditanza. Il corpo descritto da Maldonado è dunque una struttura plasmabile che reinventa continuamente se stessa, cercando in questo perenne moto l'esaltazione e lo sviluppo di quelle qualità che, prima dell'avvento della tecnologia, erano addormentate. Tale nuova progettazione corporea, soprattutto a fronte dei numerosi progressi scientifici, tenta di creare un corpo più forte, non soltanto all'interno di un'ottica di rimodellamento, di ricostruzione, ma anche di riassestamento, ossia provare, attraverso l'intervento della tecnologia, a curare, a immunizzare (direbbe Esposito) quel corpo che per sua natura è fragile e legato ai vincoli dell'organico. Il corpo, dunque, per rafforzarsi assume su di sé elementi estranei, prettamente inorganici, facendoli propri.

La dimensione dell'artificiale come fattore curativo è ben descritta da Jean-Luc Nancy che nei suo scritti L'Intruso e in Indizi sul corpo, definisce gli innesti bio-medicali, “esseri stranieri” [17], che pur essendo estranei alla nostra struttura, risiedono in noi. Nancy, facendo riferimento al suo trapianto di cuore, parla di quest'organo come se non gli appartenesse (dato che era nato con un altro), ma che, nonostante tutto, ora, abita il suo corpo e, pulsando, sfiora quella carne che prima non gli era concesso toccare. I trapianti, gli innesti, le operazioni chirurgiche decostruiscono il corpo, rendendolo bionico, ed è nel momento dell'apertura, del taglio della pelle, che avviene il dialogo tra l'inorganico e l'organico, contagiando la natura dell'uomo che perde così la propria originarietà. Questo nuovo uomo, afferma Nancy, è un semi-vivo, che vaga tra il confine della vita e quello della morte.

Divento come un androide della fantascienza o piuttosto come un morto-vivente, come ha detto un giorno il mio ultimo figlio. Noi, io e tutti i miei simili sempre più numerosi, siamo in effetti l'inizio di una mutazione: l'uomo comincia a superare infinitamente l'uomo (questo è ciò che ha sempre voluto dire «la morte di dio», in tutti i suoi sensi possibili). Egli diviene ciò che è: il tecnico più terribile e inquietante, come Sofocle aveva previsto venticinque secoli fa, colui che snatura e rifà la natura, colui che ricrea la creazione, che la fa uscire dal niente e che, forse, la riconduce a niente. Colui che è capace dell'origine e della fine. [18]

Da queste parole si intuisce che l'artificiale destabilizza l'organico, rendendolo altro, ma è proprio nell'assunzione di questa nuova formula che esso sopravvive. Con l'introduzione della tecnologia nel corpo umano si assiste al concepimento di esseri viventi rigenerati, che dell'umano conservano poco, si parla addirittura dell'avvento di una nuova razza; chiaro è che la sfilata di queste forme umane alternative è appena iniziata. Ci troviamo catapultati in un'era in cui l'Umano si è trasformato in Post-Umano, un'era in cui il corpo ha perso i legami che lo vincolavano alla carne, e a quel valore religioso che lo riteneva intoccabile.
E proprio in Post-Human, Roberto Marchesini, esaminando il radicarsi di una differente geografia umana, riafferma l'idea di corpo come teatro in cui vanno in scena elementi estranei e contaminazioni utili per rimarcare il processo di metamorfosi, sintomo di un'alchimia identitaria sviluppatasi dal costante rinnovo evolutivo che gli appartiene. Il post-humano, di conseguenza, diviene raffigurazione di un'alterità attraversata da perforazioni tese a sottolineare la liquidità della dimensione umana, inaugurando un nuovo modo di esserci.

In Marchesini il corpo si allontana dal sinonimo di carente, per abbracciare l'idea più fluida di esuberanza; anche lui quindi rinnega l'assioma corpo/gabbia per stabilire l'immagine di un corpo espansivo, che lancia le proprie coordinate oltre i varchi del reale, immergendosi in territori inesplorati. Ancora una volta, dunque, è l'ibridazione ad essere protagonista di questo attuale sviluppo corporeo.

Ne Il corpo postorganico, la studiosa d'arte Teresa Macrì descrive la nascita di questa corporeità ibrida adottando i termini di corporeizzazione tecnologica o corporeità tecnologizzata, interpretando la presenza dell'inorganico nel corpo umano, come:

La ricostruzione della fenomenologia di questa compenetrazione tra corpo e tecnologia serve a chiarire il senso che questa nuova dimensione della corporeità ha acquisito all'interno della cultura contemporanea [.]. Il corpo contemporaneo è ormai la mappa su cui convergono diverse sinestesie e sensibilità pulsionali, è la topografia su cui ibridazioni inorganiche possono innestarsi. Il corpo è il luogo dove avvengono i trapianti e gli incroci, è il luogo di concatenamenti meccanici dove l'estensione dell'inconscio si congiunge alla contaminazione tecnologica. [19]

Le riflessioni inerenti al corpo postorganico della Macrì sono interessanti perché inseriscono all'interno di questa nostra disquisizione un concetto che finora è stato liminale: sto parlando del concetto di identità. Richiamando nozioni come quella di corpo androgino, l'autrice rileva che l'alterazione del senso di corporeità, e la sua spinta verso la dimensione artificiale, causa un progressivo sfasamento biologico a cui ne consegue un inevitabile smembramento dell'identità. «Ed è da questa diversa ontologia corporea che si espande una nuova economia del piacere, una sessualità estrema, poiché la trasformazione del soggetto prevede una modificazione della libido» [20].
I corpi che si innestano con i dispositivi meccanici sono di natura asessuata, tesi verso un piacere immateriale; il corpo sessuato, perciò, è destinato a tramutarsi in corpo androgino/ermafrodita, oltrepassando la tradizionale separazione tra ruoli e generi, che qui viene annullata; ed è lo stesso Stelarc — famoso performer australiano che ha fatto del proprio corpo materia plasmabile e trasformabile avvalendosi di componenti robotiche ed elettroniche e che ha cercato, con qualsiasi mezzo, di combattere e superare la natura obsoleta del corpo — a sostenere che il rapporto basato sulla dualità maschio/femmina va sostituito con l'interfaccia uomo/macchina.

Si può quindi dichiarare aperta la nascita di un sex-appeal dell'inorganico [21], in cui il rapporto tra l'uomo e le cose ha sovrastato quello tra gli uomini e, in particolare, quello tra uomo e donna. La fusione carnale con l'altro è stata soppiantata dal rapporto sessuale/virtuale con la macchina che fa accedere l'individuo in altri universi percettivi, facendogli provare forme di eccitazione differente, forme che Mario Perniola definisce “postumane"” Inseguendo quest'ottica appare evidente la disomogeneità tra relazioni organiche ed inorganiche, perché se gli scambi tra i corpi viventi provocano un cambiamento a livello epidermico e chimico, ad esempio attraverso l'espulsione dei fluidi corporei, l'incontro tra l'uomo e gli apparati tecnologici coinvolge le forme, proprio perché, in molti casi, l'uomo viene ridisegnato, ristrutturato, reinventato.

Ed è a questo punto che si può iniziare a parlare di un corpo-cyborg o di un corpo-chimera in opposizione al corpo fisiologico e psicologico, perché l'invasione nel corpo umano di artefatti e di meccanismi inorganici ha portato, non soltanto, ad una estensione della percezione, ma anche ad assumere pose e strutture ibride. L'essere umano non è più costretto ad una staticità della forma, egli può inventarsi sempre in maniera differente [22] e le deboli sostanze organiche possono essere sostituite o perfezionate grazie al supporto di materiali sintetici, la morfologia viene continuamente rimodellata e, in questo gioco, l'uomo diventa ciò che vuole.
Alterità, corpo come ibrido, un corpo fulcro del paesaggio della trasformazione intrinseca dal destino imprevedibile e, forse, inimmaginabile.


Note
[1]. O. Dyens, Metal and Flesh: The Evolution of Man: Technology Takes Over, MIT Press, 2001, p. 19, traduzione mia: «But life doesn't have to be organic».
[2]. Ibid. «caporali» «filtered, translated and transformed by culture».
[3]. Si veda P.L. Capucci (a cura di), Il corpo tecnologico. L'influenza delle tecnologie sul corpo e sulle sue facoltà, Baskerville, Bologna, 1994.
[4]. M. Scheler, La posizione dell'uomo nel cosmo, (a cura di) M. T. Pansera, Roma 1999, p. 144.
[5]. A. Gehlen, Per la storia dell'antropologia filosofica, il Mulino, Bologna, 1987, p. 28.
[6]. Arnold Gehlen con la terminologia seconda natura, intende riferirsi a tutto ciò che non è fornito all'uomo dal mondo naturale, ma che per essere creato necessita della sua azione. Interessante è rilevare come una sorta di evoluzione è riscontrabile anche all'interno della stessa seconda natura; nei secoli si è passati infatti dalla tecnica per la formazione del fuoco alla costruzione delle istituzioni e degli organi sociali.
[7]. La zecca, spiega Uexküll, essendo cieca e sorda percepisce il passaggio dei mammiferi unicamente tramite l'olfatto; il suo mondo perciò è circoscritto a questo senso, e la sua esperienza in confronto a quella dell'uomo appare limitata, chiusa all'interno di un ambiente in cui le informazioni uditive e visive non vengono contemplate.
[8]. In merito è anche interessante menzionare la teoria dell'eccentricità dell'uomo in Plessner. Egli, condividendo l'idea che l'uomo vive una condizione di apertura e di superamento dal proprio centro, sostiene che l'umano proprio a seguito di questa frattura con il mondo biologico, diversamente dall'animale, può rapportarsi alla dimensione corporea quanto a quella spirituale, al mondo esterno quanto a quello interno, essendo inserito all'interno di una struttura che non assumerà mai una forma definita. Cfr. V. Rasini, L'eccentrico. Filosofia della natura e antropologia filosofica in Helmuth Plessner. Milano; Mimesis, 2013.
[9]. Per il termine pseudoambienti si veda P. Virno, Scienze sociali e «natura umana», facoltà di linguaggio, invariante biologico, rapporti di produzione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003 e il Capitolo 6 di P. Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
[10]. Per un maggiore approfondimento rimando al già citato: P. Virno, Scienze sociali e natura umana, p.26.
[11]. Con nicchia ecologica si intende un determinato ambiente rintracciabile in ciascuna specie animale, compreso l'uomo. Per quest'ultimo la nicchia si manifesta tramite il linguaggio, essendo essa una sua specifica modalità conoscitiva. Usando le parole di Virno, le nicchie proprio come gli pseudoambienti, servono per ammortizzare il perso e l'urto del mondo tramite la costruzione di un habitat che è rivelato nella sua insostituibilità per ciascun essere.
[12]. Il Postumanesimo è una corrente di pensiero sorta nel 21° secolo sulla scia degli studi e delle teorie provenienti sia dal campo filosofico, letterario che artistico; e basata sulla riconcezione del rapporto uomo - tecnologia, coincidente con la predisposizione al superamento della carnalità corporea in favore di innesti e commistioni con gli elementi artificiali in modo da creare una corporalità rinnovata non più succube della fisiologia. Tra i maggiori postumanisti vale la pena ricordare: Hans Moravec, Sarah Kember, Katherine Hayles e, ovviamente, Donna Haraway.
[13]. Per approfondire la filosofia del vivente in Esposito, si rinvia alla lettura di: R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino, 2002; Terza persona. Politica della vita e filosofia dell'impersonale, Einaudi, Torino, 2007; Le persone e le cose, Einaudi, Torino 2014.
[14]. Sul concetto di nudità/nuda vita rimando a R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004; R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002.
[15]. La teoria dell'esonero rintracciabile nella filosofia di Arnold Gehlen, pone come fulcro centrale l'idea che l'uomo detenga le capacità necessarie per superare gli impedimenti derivanti dall'istinto, adottando forme di comportamento più avanzate e strutturate. «Possiamo pertanto fissare un primo punto nella formulazione del principio dell'esonero: con l'azione su se stesso l'uomo trasforma gli oneri elementari da cui è gravato in chances per conservare la propria vita, poiché le sue prestazioni motorie, sensorie e intellettuali (liberate dal linguaggio) s'intensificano di conserva finché è possibile una condotta ben ponderata dell'azione» cfr. A. Gehlen, L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1983, p.90.
[16]. T. Maldonado, Corpo tecnologico e scienza, in P.L. Capucci (a cura di), Il corpo tecnologico, cit., p. 79. Per un'analisi più dettagliata del pensiero di Tomás Maldonado si rimanda al testo: T. Maldonado, Critica della Ragione informatica, Feltrinelli, Milano, 1997.
[17]. «Si chiama “corpo estraneo” [étranger] qualsiasi specie di oggetto, di pezzo, di frammento o di sostanza introdotta in modo più o meno fortuito all'interno di un insieme o di un ambiente, se non propriamente organico, considerato per lo meno omogeneo e dotato di una regolazione propria alla quale il "corpo estraneo" non può essere sottomesso» cit: J.L. Nancy, Indizi sul corpo, Ananke, Torino, 2000, p. 109. «L'intruso si introduce a forza, con la sorpresa o con l'astuzia, in ogni caso senza permesso e senza esser stato invitato. Bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero che, altrimenti, perderebbe la sua estraneità. [...] Una volta giunto, se resta straniero e per tutto il tempo che lo resta, invece di “naturalizzarsi” semplicemente, la sua venuta non cessa. Continua a venire e la sua venuta resta in qualche modo un'intrusione. [.] Accogliere lo straniero dev'essere anche provare la sua intrusione» cfr. J.L. Nancy, L'intruso, Cronopio, Napoli, 2000, pp. 11-12.
[18]. Ivi, p. 44.
[19]. T. Macrì, Il corpo postorganico, Costa & Nolan, Milano, 1997, cit., p. 7.
[20]. Ivi, p. 8.
[21]. Il sex-appeal dell'inorganico è un termine coniato da Walter Benjamin e ritrovabile in Passagenwerk. Il sex-appeal dell'inorganico rappresenta, per Benjamin, la graduale perdita nell'epoca moderna dell'elemento organico che, di fatto, viene soppiantato dai beni di consumo, dalle merci, dalla moda. La società moderna, come ad esempio quella parigina, spiega Benjamin, si è trasformata in un luogo di passages e di flâneurs, in cui il cittadino è coinvolto in un rapporto solitario con gli oggetti e con le merci, in questo scenario abbagliante e stimolante anche le sue relazioni sessuali cambiano ed egli diventa solo un feticcio. (W. Benjamin, Parigi, capitale del xix secolo. I passages di Parigi, Torino, Einaudi). Il termine benjaminiano è stato inoltre usato da Mario Perniola per il titolo del suo libro: M. Perniola, Il sexappeal dell'inorganico Einaudi, Torino, 1994. Testo in cui Perniola vede l'esperienza artistica come un "sentire", si sofferma inoltre anche sul sentire sessuale, descrivendone le varie tipologie.
[22]. Chi reinventa continuamente il suo corpo è l'artista francese Orlan, che dopo le prime esperienze body artistiche segnate da una forte componente femminista, come ad esempio Le baiser de l'artiste, decide di sottoporsi a sedute di chirurgia plastica per rinnovare e modificare costantemente il suo volto. La Orlan attraverso questi cambiamenti vuole affermare la sua identità e la sua libertà, per l'artista infatti è necessario che oggi gli individui, soprattutto le donne, si liberino dagli stereotipi imposti e reinventino il corpo a loro piacimento. La Orlan vive il proprio corpo/volto come un gioco e nel frattempo a noi spettatori non resta che ammirare un'opera d'arte vivente. Cfr. http://www.orlan.net/



Stelarc, Spinning/Breathing, 2012.

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