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Sul lusso
di Marco Baldino

5 gennaio 2023


Purtroppo il lusso, nel nostro tempo, è vinto dal moralismo. Vedremo se è un bene, un male o una cosa indifferente. Lusso e moralismo stanno agli antipodi. I ricchi di oggi dissimulano la propria ricchezza e reprimono il loro desiderio di sperpero. Tutti gli esseri umani, quando possono disporre di un reddito che superi di un po’ i bisogni essenziali, tra i quali vi è anche il bisogno di risparmio, vedono sorgere in loro il desiderio, anzi più che il desiderio, la necessità dello sperpero. I doni natalizi, per lo più inutili e tanto più utili alla definizione di lusso di qualsiasi cosa autenticamente utile, ne sono un esempio. Una vacanza in luoghi esotici — oggi non ne esistono più, ma la capacità di autoillusione dell’uomo è senza limiti —, una crociera, sono tutti esempi di sperpero. Ma lo sperpero non è solo un fatto di denaro, ma anche di tempo, vita, salute. Per esempio darsi alla cura di feriti e moribondi in teatri di guerra è un altro esempio di sperpero.

Nella versione di Bataille dell’hegeliana dialettica o lotta Servo/Signore, il Signore è tale per cui lo sperpero diventa simbolo della signoria: Signore è colui che consuma ciò che non produce e, allo stesso tempo, colui che non produce nulla (Marx docet). Il Signore è senza impiego, non lavora, consuma solamente. Mentre Servo è colui che produce mediante il lavoro, ma non può consumare ciò che produce, se non in minima parte, egli è il massimamente impiegato. Al Servo è fatto divieto di consumare ciò che produce. In che modo? Beh, con la forza per lo più, poi con le leggi e il giudiziario applicato in modo esteso. Ciò è effettivamente strano se pensiamo alle nostre società dove ciò che conta è senz’altro la produzione e il consumo al suo massimo livello.

Ma è proprio questo produrre senza poter consumare, questa trasformazione della natura per mezzo del lavoro che spinge il Servo a ribellarsi e a prendere coscienza che è lui il vero motore della storia, a innescare quel movimento che conduce l’Io a prendere coscienza di sé. Il Signore, in effetti, non fa nulla. Vero è che ha vinto la lotta a morte per il puro prestigio, per l’onore, mettendo a repentaglio la propria vita. Nessuno vuole però sfidare il Signore a singolar tenzone. Il Servo ha a disposizione un altro strumento che, di fatto, gli permetterà di liberarsi del Signore e di instaurare la società dei liberi e degli uguali: “schiavi liberi” dalla pretesa signorile e “nuovi signori” liberi (fare attenzione qui all’uso di virgolette, maiuscole e minuscole è essenziale), entro certi limiti dalla tirannia del lavoro: la rivoluzione. Dico: “entro certi limiti” perché il “nuovo signore” non è libero dal lavoro, ma allo stesso tempo, da Ford in poi, è gratificato dalla possibilità del lusso e dello sperpero. Con Ford l’operaio americano diventa il più pagato al mondo; non conosce abitazioni misere, la sua vita domestica è comoda, veste come un gentleman e il suo tenore di vita viene assicurato nel tempo [1]. Inoltre, ciò che l’operaio americano riceve in sovrappiù quanto a salario, più frequentemente lo spendere per oggetti di lusso, così Werner Sombart nel 1906. [2]

In una società dove vige la dialettica Servo/Signore, la Rivoluzione è uno strumento per portare sopra ciò che stava sotto. Questo, lo vedremo ora: non è una semplice cambio di posizione. La rivoluzione, per eliminare il Signore, deve necessariamente creare un altro tipo di società. L’esempio più eclatante è qui la Rivoluzione francese: il Servo, da sotto che era, si innalza e prende il posto del signore - questo, almeno, in prima approssimazione. Per questo il «nuovo signore», che non può più vivere completamente del lavoro del «nuovo servo» che, intendiamoci, è sempre lui stesso, deve dissimulare la ricchezza, addirittura se ne vergogna, perché il «nuovo signore» porta dentro di sé la traccia del Servo che è stato e dell’aver optato per la vita in una lotta a morte con il Signore, per il quale si trattava di onore o morte. Mentre le morti comminate dal Servo al Signore, durante la rivoluzione, sono dissimulate nella necessità di costruire una diversa società.

In questa nuova società lo sperpero deve perciò essere dissimulato. Il moralismo della società post-aristocratica (la si potrebbe chiamare anche “borghese”) costringe il lusso al nascondimento (Gianni Agnelli che veste in jeans e maglietta e guida una Panda; D’Alema che indossa silenziosamente un paio di scarpe da mille Euro smascherato dai paparazzi, ecc.), eppure si tratta di un’esigenza fondamentale dell’essere umano, perché lo sperpero lo libera da una vita in cui egli era schiavo del lavoro; perché il ricco, in una società di servi o «nuovi signori», non può mostrarsi quale Signore, non ha sostenuto fino in fondo la lotta per il puro prestigio, per lui il valore più grande è e resta la vita: «Tu vuoi morire? — dice House a Wilson — Eccomi ti aiuto. Visto? [In realtà] Tu vuoi vivere! Fai resistenza perché il nostro dovere di essere umani è restare vivi!» (House), oppure, più colto: dire sì alla vita (Nietzsche).

Solo che il Servo che ha eliminato il Signore non può semplicemente sostituirsi al Signore, non c’è più un Servo che produca al suo posto, sicché «il nuovo signore» deve lui stesso prendere posto nel processo di produzione, deve impiegare tempo della propria vita nella produzione. Il mero consumo (che fu del Signore) viene a trasformarsi in ricchezza accumulata o attraverso il lavoro (invenzione, organizzazione, impresa) o per fortuna (eredità). E siccome oggi viviamo in una società di uguali, la ricchezza, ossia ciò che sopravanza gli altri, va dissimulata. A dissimularla non è la morale, ma il moralismo, che gioca quindi un ruolo non così negativo come si potrebbe immaginare. Nessuno dice che acquistare un regalo prezioso per la propria moglie sia un male (si veda ciò che è capitato al nostro Bersani), bensì una trasgressione del principio di uguaglianza universale: io svelo il tuo sperpero e la società degli uguali si indigna all’unisono, ovvero vibra all’unisono. L’indignazione, dice Allan Bloom, è la difesa dell’anima ferita dal dubbio su ciò che si considera proprio. È una sorta di scarica positiva, una sorta di abreazione che riporta il corpo sociale al suo ordine e cerca di confermare la giustezza della propria causa [3], il cui limite è lo stato universale e omogeneo.


Note
[1] Cfr. W. Sombart, Perché negli Stati Uniti non c’è il Socialismo?, trad. di G. Ceri, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 132.
[2] Ivi, p. 119.
[3] A. Bloom, La chiusura della mente americana, trad. di P. Pieraccini, Lindau, Torino 2009, p. 78.




Franz Borghese, La gita al mare. Credits: Galleria Artesanterasmo
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