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di Jacopo Valli

15 febbraio 2017



L’analogico, anche del/nel digitale: il corpo e le cose, e poi, di lì e immediatamente, l’uso. Non il comodato d’uso: molte persone vivono la loro vita, la vita che sono, come in comodato d’uso. Un’estorsione, e magari un ricatto. Religione. La maggior parte delle attività umane di- e per molti, anche solo di pensiero, è — e non solo per mediazione simbolica linguistica — religiosa. Anche la religione del corpo, casomai, non basta.

Non uso: se non c’è uso, non c’è usarsi [pure nel caso di un libertinismo spirituale come celebrazione di un dono, o anche prassi escatologica della possibile chiamata e resurrezione desiderata e concessa da un’ipotetico Altro che agisce come un ladro di notte], non v’è complessità: o meglio, essa non viene meno di certo — al contrario: tutto in essa concorre, compresa ogni rigidità, rimessa e rimozione —, ma non c’è esperienza della complessità in quanto [come, da parte della-]; complessità. Infine, intendo: nemmeno più esperienza di-, ma più-che-autocosciente esperire.

La faccenda mi sembra del tutto pratica, pure quotidiana — dove il quotidiano non è solo occasionale schema procedurale e struttura abitudinaria e gestuale, nondimeno interessante. Un esempio cretino: il consumo di libri e dischi: anche la sola idea e pratica di rimetterli ad un cloud, ad un deposito virtuale: scade un abbonamento, salta un server o anche solo la corrente per un temporale e la disponibilità è interrotta e rimandata, almeno temporaneamente, o anche vanificata controvoglia. Rimane il beneplacito auto-indotto, negato o sospeso, o meno.

Ed inoltre, assieme, le modalità di frequentazione imposte o permesse dal dispositivo — qualsiasi: anche il libro cartaceo stesso, beninteso — sono differenti: un conto è che per esempio il libro sia il libro stesso; un altro è che esso sia il libro calato “nell’interiorità del tablet”. E non è una questione di profumi e reminiscenze e altre romanticherie talora volgari e nondimeno importanti [in ogni caso, profumano anche le plastiche e i vetri, e gradevoli possono essere anche i colori degli schermi a contrasti regolabili; e la vista di quei caratteri tipografici in forma digitale, che, dati, non sono infine meno materiali di altro, d’un foglio di radica d’Afzelia, di una fica, di una gelatina di bromuro d’argento, di un comma sintonico, di un sospiro di una iena].

Divertitamente, contro ogni lineare e ideologico anti-tecnicismo e assieme contro ogni apocalittica restaurativa, penso ad una nemmeno paradossale e neppure del tutto nuova forma di revanscismo platonico per via tecnologica. E non vedo alcuna dissoluzione del simbolico: al limite, vedo il suo contrario, e non di rado il suo portamento modaiolo, e la sua propaganda e programmazione. Ma dietro ai dispositivi ci sono i corpi: persistono la sempre disponibile scissione tra teoria e pratica [una divisione del lavoro su di sé, che s’è — vorrei dire], e il suo contrario.

Germinalmente, ritengo che il problema della complessità sia un problema d’uso, dell’usarsi dei corpi, eventualmente ridotti e riassunti ad immagini di corpi e a funzioni rispetto a tali immagini che sono icone del simulacro riducente — ideologico: religioso — al quale intendono [desiderano: a volte proprio coscientemente: perché penso sia un’ingenuità miserabile e presuntuosa pensare il contrario] auto-rimettersi, ed è auto-sussunzione.

Tornando ora e corporalmente all’esempio precedentemente introdotto: la voce con la quale si legge, di chi è? Certo, è di chi legge. Ma l’intonazione? La caratterizzazione? Se si legge una pièce teatrale è uguale a quando si legge un bugiardino farmaceutico, un testo dottrinale, una lista di componenti elettriche per un finale di potenza, un romanzo, la Fenomenologia dello spirito? Io direi che quella voce, che è un dato "ovviamente" fisico-chimico, materiale, è quella che fa ognuno, che pertanto è ognuno: non "la mia voce", ma “la voce che sono” — anche.

Vocalità, e oralità, che nuovamente è a mio avviso questione centrale, sia rispetto alle modalità dell’oralità stessa, che rispetto allo scritto, al testo — anche inteso come oggetto — e alle sue forme; e nondimeno all’immagine, talvolta pure strutturalmente: l’oralità scritta della quale occasionalmente si parla, frequentemente con disprezzo, non è che non sia oralità: è un’oralità, ma di tipo molto ridotto, che non può essere scambiata per l’oralità stessa in sé, la quale può anche essere complessa, in ogni luogo [anche questo stesso mio breve scritto sta per confezionarsi di getto, esattamente secondo una certa oralità, eppure non ha i caratteri dell’abbreviazione funzionale, ed è inteso come testo per una pubblicazione online su questo sito che il lettore eventuale sta visitando] e che serve allo scritto [che di essa si serve] per non essere a sua volta ridotto.

Se pensiamo alla registrazione dei messaggi vocali, poi, tutto questo appare ancor più evidente: non è il messaggio scritto digitale a sparire, ma subentra collateralmente una mutazione, che, a tratti e non necessariamente, si potrebbe immaginare affine a quella che da Lascaux arriva a Baziotes — solo, inversa.

Riducente e funzionale, come dell’icona, se/che apre alla positività dell’immagine perfetta, o della sua idea e delle immagini a loro volta ad essa immaginalmente correlate, chiusura amministrante [per parlare: forse questo il prevedibile — per inimicale affinità e nelle modalità poi prodottesi: non di certo deterministicamente disposte, né esiziali — castigo di Hugo Ball?]. Tanto più se tale rappresentazione iconica è anatomicamente congiunta ad una forma indicizzante di oralità, poi scritta, e dipinta o impressa o graficamente giustapposta, come è nel caso dei cosiddetti meme [icone discorsive?]; o, per negativo — in senso fotografico — degli hashtags come comandi e funzioni dell’indicizzazione categoriale e tipizzante [i quali nondimeno, détournati, potrebbero servire alla connessione non lineare di elementi generalmente intesi come non connettibili: ma con i rischi del caso, relativi alla riformulazione di altre organizzazioni determinate e determinanti].

E pure nel guardarle, le immagini, le cose: certo ognuno guarda con i propri occhi, ma non è da escludere che vi sia chi guarda alcune cose come se fossero occhi esterni a farlo — e non mi riferisco al dispiegamento di un distacco critico, ma ad una separazione più o meno netta, o persino a rimozione e rigetto. Un problema che è anche del paesaggio: non solo del sociale: il paesaggio è anche chi è nel paesaggio: non v’è spettatore puro, come — mi viene in mente — non è pervenuta la verità Altra e ferma dei suoni, come Feldman puntualmente eccepiva a Cage. Nondimeno, molti considerano che il paesaggio sia Altro dall’individuo e dalla eventuale descrizione — anche per immagini —, e occasionalmente — ulteriore esempio — vivono e producono fotografia non impressionisticamente ma con neoclassica scultoreità.

E allora è ancora e sempre una questione di complessità, e di separazione, nutrita specialmente linguisticamente — nuovamente: pure per immagini —, che è religione: spettacolo; riduzione e auto-sussunzione. Ciò che talvolta accade [perché non capita a tutti, o almeno non continuativamente] ai corpi e alla percezione comunicata, e alla comunicazione che diviene il modello, la stringa di comando della– e per la percezione stessa, dei corpi, avviene per le altre cose.

Un ulteriore inane esempio: che differenza c’è, nei modi dell’uso e della percezione della cosa, tra una Vanitas [anche di recente datazione] e la supposta cristallizzazione di una foto di una colazione continentale in hotel pubblicata su di un sito di cosiddetto photo-sharing? Quanta distanza tra La bottega del macellaio di Annibale Carracci ed uno scatto fotografico che intende immortalare (sic!) i momenti delle arti e dei mestieri durante una rievocazione in stile [magari pure organizzata come strumento di propaganda per un anti-modernismo — umoristicamente del tutto moderno —, peraltro attualmente piuttosto in voga, e variamente affine ad un piano anti-tecnicismo bio-conservativo e talora eloquentemente pauperista, ovvero a sua maniera utilitarista, che ironicamente rappresenta anche una buona merce per un buon mercato, nemmeno scarso, che del simbolico, contro ogni predicazione, non può di certo ed in alcun caso fare a meno]?

Rimane lo scarto — anch’esso complesso: della complessità stessa — tra forme e pratiche della cesura simbolizzante, e [ma non per isterica canalizzazione: sia pure di desideri rimessi altrove a riserva indebitante] dell’immanentizzazione [disponibile e predisposta: senza pre-disposizione e non ad essa]. E spesso giudico, e d’un giudizio per me infine lieto e né scoraggiante, né recriminatorio: la consunzione [sovrana], che è già anche complessificazione come è d’una pennellata d’olio che scivola in un’altra disgregandosi ed escretando analogiche sfumature e distorsioni, è sopra tutto difficile.



Edouard Vuillard , The Actress Jane Redouart, 1927



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