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Des animaux à matrices multiples...[*][1]
Processi di animalizzazione endometamorfica [2]
in Mauro Poggi, Nicasius Roussel, Valentin Sezenius, Esaias van Hulsen.

di Giuseppe Crivella

14 marzo 2020


1. Introduzione.

Simile ad un macroscopico punto cieco sito nel cuore pulsante della labirintica trattazione dedicata al Barocco [3], l’animale non trova alcun posto nello scritto benjaminiano del 1928 sul Trauerspiel. Eppure va detto che lo scrupolo analitico con cui il pensatore berlinese vaglia le fonti al fine di recensire in maniera più che minuziosa i motivi dominanti e centrali del Barocco è senza dubbio fra i più vigili e penetranti.
L’animale tuttavia sfugge: se passiamo in rassegna i paragrafi e le varie sottosezioni delle due parti che compongono il saggio, vedremo che esso non compare mai. Eccezion fatta per il cane [4] — ridotto ad un rarefatto glifo araldico —l’animale è una sorta di presenza soggetta a persistente forclusione, una figura invisibile e silenziosa che non riesce mai a trovare alcuna collocazione precisa o legittima nella riflessione di Benjamin sul Barocco.
Le ragioni di tale omissione sono molteplici. Naturalmente non possiamo illustrarle qui tutte in maniera dettagliata, quindi ci limiteremo ad elencarne solo tre, discutendole molto brevemente:
I. L’attenzione, la predilezione e l’attrazione da parte di Benjamin per tutto ciò che appartiene alla dimensione inorganica e, in particolare, alla sfera di riferimenti e metafore afferenti al regno dei minerali [5].
II. La pregnanza a lungo raggio che riveste il vasto e sfaccettato plesso concettuale connesso alle potenzialità allegoriche della rovina, vista da Benjamin come una sorta di metafora assoluta del Barocco, tramite cui vagliare numerose manifestazioni storiche proprie del Seicento [6].
III. Senza dubbio il peso e la centralità che possiedono le immagini ricorrenti nell’opera di Andreas Gryphius e di altri autori — visceralmente impregnati di umori legati ad una certa visione del mondo cupamente luterana — nella messa a punto delle linee portanti che Benjamin utilizza per dare uno sviluppo coerente e convincente alla sua ricostruzione [7].

In base a quanto appena esposto possiamo sostenere quindi che la dimensione organica, legata all’introduzione di aspetti propri dell’animalità [8], era senza dubbio estranea all’universo di pensiero di Benjamin. Le cause dell’esclusione del tema dell’animale possono essere molte altre rispetto a quelle che ci siamo limitati ad enunciare qui, ma non ci interessa vagliarle tutte. Ci preme invece registrare un’assenza che, modificando versante di riflessione, diventa quasi del tutto incomprensibile.
Spostando la mossa e frammentata traiettoria di analisi che raccorda in maniera più o meno diretta il saggio di Benjamin del ‘28 all’opera di una sua erede alquanto eterodossa, vediamo la situazione mutare improvvisamente e radicalmente. Pubblicato nel 1986, dedicato alla memoria di Michel de Certeau, ispirato fin dal titolo alle fasi terminali della fenomenologia di Merleau-Ponty, La folie du voir di Christine Buci-Glucksmann rappresenta a tutti gli effetti una sorta di robusto esperimento critico che, anticipando di appena due anni Le pli di Deleuze, tenta di fare del Barocco una categoria trans-temporale tramite cui rileggere anche alcuni aspetti della realtà contemporanea all’autrice [9].
Questo testo risulta ai nostri occhi rilevante perché se da una parte esso prosegue e integra alcune tesi centrali in Benjamin, dall’altra innesta su di esse una serie di considerazioni assolutamente originali e dirompenti provenienti in larga misura da quella particolarissima fenomenologia delle immagini che Merleau-Ponty stava mettendo a punto ne L’œil et l’esprit e ripresa circa vent’anni più tardi nelle battute iniziali de La fable mystique di De Certeau [10].
È nella nodosa linea di raccordo tra quest’ultimo testo e quello di Buci-Glucksmann — i quali moltissimo devono al saggio del filosofo berlinese sul Barocco [11] — che possiamo trovare una tematizzazione più precisa dell’animalità barocca, tematizzazione che presso lo scritto dell’autrice francese trova un solido punto di appoggio nelle pagine di un grande pensatore italiano, autore nel 1654 di uno dei testi più importanti per capire la filosofia del Seicento [12], Il cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro [13].
Se si leggono alcuni passi tutt’altro che marginali di questo testo, si vedrà che il ruolo e il rilievo assunto dall’animale nella concezione barocca non può in alcun modo essere trascurato o tralasciato. È chiaro, Benjamin non cita mai il saggio del Tesauro e quindi le coordinate che egli segue per mettere a punto la sua ricostruzione sono diverse da quelle qui prese in esame [14]; tuttavia, come nota la stessa Buci-Glucksmann, Il cannocchiale aristotelico rappresenta un testo chiave che permette di far luce su quello che fu il Barocco in quanto fenomeno europeo, geograficamente trasversale [15].

La movimentata ricostruzione del Seicento messa in campo in questo studio atipico e originale suscita qui il nostro più vivo interesse perché essa incrocia in maniera esplicita e convincente la riflessione del Tesauro sulla nozione di animalità — intesa in primis come ambito proprio di una forma di ragionamento prettamente allegorico [16] — con un plesso di considerazioni tipico del ‘600 europeo, cioè quello della metafora e della metamorfosi [17].
Partiti da una lacuna piuttosto felpata presente nel testo di Benjamin, siamo arrivati così ad un orizzonte speculativo profondamente difforme da quello messo in campo dal pensatore berlinese, sebbene in celata continuità con quest’ultimo. È la stessa Buci-Glucksmann infatti a rimarcare come l’intersezione tematica tra l’animale e la metamorfosi di fatto rappresenti uno dei cardini speculativi su cui far girare tutta la sua mossa riflessione.
Non solo, ma ciò che l’autrice sottolinea spesso con forza è l’idea che buona parte della produzione artistica figurativa del Seicento europeo si incentri proprio su delle logiche di rappresentazione che possono essere definite in termini di palinsesto [18], inteso da Buci-Glucksmann come una sorta di ripidissima e vorticosa sustruzione anamorfica di immagini disparate e cospiranti tutte in maniera più o meno esplicita e diretta verso un punto di controverso coagulo figurale [19]. In seno ad esso la rappresentazione invece di compattarsi in una fisionomia definita e conchiusa, brilla in una convulsa deflagrazione circolare di figure incongrue e dissonanti che non smettono di entrare l’una nel distorto campo di gravitazione dell’altra, secondo un raffinato gioco di collisioni e collusioni iconiche a cui non è possibile porre un argine.
Il palinsesto, come vedremo tra poco, attraversa i regni della natura in maniera obliqua e perversa, declinandoli secondo una delirata logica di raccordi inauditi e conflittuali, repulsivi e destabilizzanti. Proprio per questo motivo Buci-Glucksmann salda a tale nozione quella di anamorfosi, servendosi di quest’ultima come di un dispositivo diottrico in grado di ruotare intorno alle infinite dimensioni di strutturazione alogica che innervano il palinsesto. A tal proposito l’autrice osserva quindi:
dans la production des anamorphoses […] dans ces «projections de formes hors d’elle-mêmes» (Jurgis Baltrušaitis), entre déformation et altération, anéantissement et apparition, une véritable Thaumaturgie optique […] prend naissance: ana-morphé, le retour, la remontée de la forme à la forme, son anamnèse, sa transformation et sa régénération. L’anamorphose confuse et difforme, ambiguë, devient soudainement claire dans sa propre disparition formelle [20].
La nozione di palinsesto equivale ad un raffinatissimo strumento speculativo tramite cui tentare di analizzare una serie di incisioni e disegni di artisti dell’epoca barocca che a nostro giudizio di un’animalità retorse e sotterranea, deforme e sinistra, sono stati gli invisibili ed oscuri scopritori, per non dire ingegneri.

Il palinsesto funge qui da catalizzatore di una serie di possibilità formali che nel momento stesso della loro realizzazione spingono il concetto stesso di forma verso il diffuso punto di catastrofe in cui essa diviene lo spazio-zero di ogni configurazione ben congegnata. Proprio per questa ragione, ad esempio, Tesauro viene evocato da Buci-Glucksmann come l’autore barocco che in maniera magistrale ha tentato la messa a punto della nozione piuttosto controversa di forma informans [21], rovesciando così alcuni assunti propri del pensiero di Aristotele. E ancora, la dioptrique fatale a cui fa riferimento l’autrice nelle battute di apertura [22] funziona esattamente come un cannocchiale aristotelico utilizzato in maniera virtuosamente deforme per rovesciare categorie di pensiero e proprietà specifiche degli oggetti presi in considerazione.
Sebbene Buci-Glucksmann non lo citi mai [23], ci sembra giusto rilevare che a nostro giudizio è stato Genette colui che per primo ha inquadrato in modo eccellente tale stato di cose. Nel saggio d’apertura di Figures I, L’univers réversible [24], il grande critico francese analizza nel dettaglio i trapassi ontologici tra regni e dimensioni naturali diverse o contrapposte, illustrando in tal modo la mentalità metaforizzante e metamorfosante propria del Barocco. La nozione di palinsesto [25], reperibile presso Buci-Glucksmann, permette allora di vedere in azione questi processi di capillare dissesto incrociato che attraversano, solcano e sommuovono le ontologie regionali proprie della Modernità.
Partendo quindi dalle tesi qui appena esposte, nel prosieguo di questo scritto prenderemo in esame un insieme di opere grafiche — collocabili a grandi linee tra il 1560 e il 1710 [26] — aventi come soggetto esplicito una certa idea di animale inteso quale insolito palinsesto anatomico nelle contorte stratificazioni del quale cercare di intercettare un mobile complesso di principi teorici con cui tentare di mettere a punto in sede di conclusioni una riflessione a lungo raggio sulle vicissitudini che hanno interessato la nozione di animalità nel corso del Seicento.


2. Palinsesti anatomici

Prendiamo allora a titolo d’esempio una tavola tratta dall’opera di Mauro Poggi l’Alfabeto illustrato [27]. Siamo prossimi al limite finale dell’arco cronologico da noi scelto. L’opera di Poggi esce a Venezia nella prima metà del 1700. Il Barocco sta ormai lasciando il campo ad altre manifestazioni artistiche che prenderanno in seguito nomi diversi, ma che dell’arte del Seicento conserveranno non pochi tratti.



Scegliamo di partire da quest’opera ascrivibile ad una sorta di Barocco crepuscolare dal momento che è proprio in questo frangente di trapasso che emergono con chiarezza alcuni aspetti dell’animalità che si tratterà poi di andare a disseppellire con maggior sforzo analitico spostandoci con moto retrogrado fin verso la fine del 1500.
Il vettore unitario che scandisce l’articolazione del piano di rappresentazione si svolge secondo un’organizzazione altamente composita, ma in fin dei conti piuttosto omogenea. Abbiamo infatti sostanzialmente due traiettorie dominanti: la prima traccia un percorso a spirale, in relazione alla quale l’immagine si concentra intorno ad un controverso proliferare di petali e foglie, corolle e stami, disegnando così tutto un ricco fascio di linee curve, ove prende corpo l’equivalenza piena, esplicita e sorprendente tra le forme vegetali e quelle animali.
L’altra traiettoria, meno evidente ma più rilevante, si configura attraverso lo sbocciare inatteso del corpo di una donna senza braccia e senza gambe. Essa sembra sorgere — come per effetto di una mostruosa deviazione genetica — dall’ispessimento ligneo dell’intreccio erbaceo al termine del quale si apre un ricco mazzo di fiori. Il corpo è qui un’escrescenza aberrante, la presenza inammissibile di una degenerazione somatica che invade lo spazio di manifestazione di un strano organismo biforcato: metà pianta, metà uccello.

La figura della donna, immobilizzata e ridotta ad un torso — simile quindi ad una sorta di immonda sirena vegetale — costituisce il punto di innesto in cui si saldano le forze metamorfiche in contrasto: troviamo così la ricca efflorescenza di una vasta panoplia di fibre e rami che riproducono e potenziano il movimento a spirale della prima traiettoria. La propagazione delle infiorescenze obbedisce ad un principio in forza del quale la linea di generazione del motivo propriamente vegetale si sviluppa secondo un tracciato di germinazioni progressive, le quali tendono a produrre una specie di propulsione sorvegliata che permette di riconoscere il profilo della lettere illustrata.
Sull’articolazione di questo asse, Poggi lascia fiorire una serie di figure animali corollarie. Queste integrano la rappresentazione secondo un criterio piuttosto cerebrale di risonanze figurali [28]: ad esempio, il corpo della donna presenta al posto del braccio destro una piccola ala anchilosata, la quale rende il sua radicamento nel controverso complesso somatico ancora più traumatico. Tale ala sembra nascere dalla leggera peluria bovina cresciuta sul fianco del torso femminile, come una sorta di avviluppante deviazione genetica ove la dimensione animale e il dominio del vegetale si fondono fino a generare un bizzarro corpo interstiziale [29].
Si tratta di un corpo che schiva ogni forma e ogni struttura definita, situato quindi al punto di catastrofe tra molteplici linee di contaminazione commiste secondo i principi di una logica retorse la quale trova nel cuore della fisionomia aberrante della donna il momento culminante di una condensazione panmorfica a partire dalla quale tutto un reticolo estremamente complesso di pseudo-equivalenze iconografiche si scatena simultaneamente. Intrusioni e interruzioni anatomiche si alternano capricciosamente, fino a perturbare in profondità la nozione acquisita di corpo umano.
Divenuto il terreno incerto e paludoso ove mettere a punto lo smembramento calcolato della sua configurazione tradizionale, il corpo è qui uno spazio frammentario, spazio informe e dell’informe, matrice obliqua di un’impotenza formatrice in relazione alla quale gli occhi, la bocca, i seni, i capelli e l’ombelico della donna si offrono a noi come i disjecta membra di una omogeneità organica ormai esplosa, ormai del tutto impraticabile, la quale non smette di compattarsi o sparpagliarsi attraverso una declinazione eteroclita dei suoi fattori specifici.

Immobile e instabile, al tempo stesso traccia equivoca di una metamorfosi abortita e precipitato fossile di una di una genesi deviante, la figura della donna è l’ombra portata di forme animali in transizione tra regioni biologiche diversificate e remote, le quali tuttavia iniziano a tessere una trama sotterranea di rinvii incrociati a partire da una reversibilità incongrua che fa del corpo il supporto neutro di riverberazioni endometamorfiche [30] illimitate.
Il corpo è qui il sembiante astratto di uno spazio di immagini ove convergono molteplicità caotiche di ipotesi morfologiche, le quali disegnano il piano di esposizione di un’animalità deviante e amorfa, secondo le coordinate di una intensificazione teratologica sempre più marcata.
Guardiamo per un attimo la lettera /T/ qui sotto [FIG. II]: il corpo si propaga al di là di ogni idea di gerarchia tra i regni vegetale, animale e umano. Tutti cospirano perversamente verso delle formazioni di compromesso in seno alle quali le carni che avvolgono il corpo della donna generano un pennacchio di steli nervosi al termine dei quali si profila la superficie squamosa di un’orribile creatura marina la cui coda termina in una sorta di delicato sbuffo di campanule.



L’Alfabeto illustrato di Poggi evoca la presenza di un corpo divenuto figura elettiva di una Natura ormai illeggibile. La lettera rappresentata una successione si segni ciechi — segni despecificati, direbbe Schefer [31] — di un linguaggio che non ha più alcun rapporto con la Natura, segni quindi che mimano e parodiano questo rapporto mimando e parodiando le forme e le trasformazioni di una Natura divenuta referente introvabile.
L’Alfabeto illustrato enuncia l’ossessione tautologica di un linguaggio che si limita a esprimere unicamente l’articolazione della sua struttura attraverso la messa in gioco di un inventario aperto di soluzioni metamorfiche tramite cui la lettera finisce col presentarsi a noi come la voce muta di una prosa del mondo che mormora ai margini di una lingua in grado di esprimere soltanto il proprio attonito silenzio vegetale.
La semplice giustapposizione alfabetica delle lettere dispiega la grammatica selvaggia di una animalità incontornabile e inconoscibile, non classificabile e proliferante. Nell’architettura di una lingua ridotta alle sue componenti elementari, noi assistiamo alla risalita verso una vita che infrange e contesta ogni ordine classificatorio, simile alla suppurazione disordinata di una Natura che forse solo Foucault ha saputo descrivere in maniera precisa e esaustiva in questo lungo estratto di Les mots et les choses:
entre-temps, la nature classique avait privilégié les valeurs végétales — la plante portant sur son blason visible les marques sans réticence de chaque ordre éventuel ; avec toutes ses figures déployées de la tige à la graine, de la racine au fruit, le végétal formait, pour une pensée en tableau, un pur objet transparent aux secrets généreusement retournés. A partir du moment où caractères et structures s’étagent en profondeur vers la vie — ce point de fuite souverain, indéfiniment éloigné mais constituant — alors, c’est l’animal qui devient figure privilégiée, avec ses charpentes occultes, ses organes enveloppés, tant de fonctions invisibles, et cette force lointaine, au fond de tout, qui le maintient en vie. Si le vivant est une classe d’êtres, l’herbe mieux que tout énonce sa limpide essence ; mais si le vivant est une manifestation de la vie, l’animal laisse mieux apercevoir ce qui est son énigme. Plus quel l’image calme des caractères, il montre le passage incessant de l’inorganique à l’organique par la respiration ou la nourriture et la transformation inverse, sous l’effet de la mort, des grandes architectures fonctionnelles en poussière sans vie [...]. La plante régnait aux confins du mouvement et de l’immobilité, du sensible et de l’insensible ; l’animal, lui, se maintient aux confins de la vie et de la mort, celle-ci, de toutes parts, l’assiège ; bien plus, elle le menace aussi de l’intérieur, car seul l’organisme peut mourir, et c’est du fond de leur vie que la mort survient aux vivants. De là, sans doute, des valeurs ambiguës prises vers la fin du XVIII siècle par l’animalité : la bête apparaît comme porteuse de cette mort à laquelle, en même temps, elle est soumise ; il y a. en elle, une dévoration perpétuelle de la vie par elle-même. Elle n’appartient à la nature qu’enfermant en soi un noyau de contre-nature. Ramenant sa plus secrète essence du végétal à l’animal, la vie quitte l’espace de l’ordre, et redevient sauvage [32].
La fisionomia instabile della lettera, il corpo stesso del carattere si presentano a noi come l’effetto di una permutazione intensiva di sostituzioni e di attrazioni morfologiche che fanno della Natura rappresentata il campo d’esibizione di una fenomenologia degli esseri concepito quali organismi sottomessi ad una legge implacabile di dissoluzioni e commistioni reiterate.
L’Alfabeto illustrato è quindi una sorta di scena onirica ove improbabili teste umane e corpi di tritoni, antenne-stami e piumaggi arcaici sconfinano gli uni sugli altri, coagulano o si distribuiscono fino a dare luogo agli arabeschi di una scrittura simile al vortice pietrificato di una nervatura in seno alla quale assistere all’effervescenza araldica di una animalità che si propaga per effetto delle permutazioni costanti delle creature chiamate a scomporne i tratti specifici.


3. Animal sive vacuum formarum...

Ma che ne è della distinzione tra animale e vegetale, tra animale e umano in tale situazione? Ciò che apparterrebbe in proprio al dato umano si trova ad essere come traslitterato in un contesto ove esso, pur conservando la sua indubbia riconoscibilità, di fatto viene ad identificarsi con un complesso di fattori organici che rendono la sua presenza del tutto inammissibile.
Prendiamo a tal proposito le opere di Nicasius Roussel [FIG III]. Immediatamente si noterà che qui il coefficiente di intricazione e di imbricazione tra corpi — animali e uman(oid)i — si fa gradualmente più elevato. Guardiamo attentamente le tre tavole qui sotto [33]:

  

Lo slancio arborescente sconvolge e travolge tutti i valori iconografici in gioco: l’affastellamento delle linee sinuose diviene la trama asfissiante al centro della quale dei brandelli di corpo affiorano sotto le sembianze equivoche di stranissimi frutti di carne ove si saldano volti umani e braccia fitomorfe.
Presso Nicasius Roussel la distinzione tra vegetale e animale rappresenta una sorta di perimetro poroso tra due regioni votate a entrare in collisione. Le corolle generano degli esseri che non hanno più nulla di umano: chiusi in un limbo morfologico che confonde tutti i valori plastici, i corpi sono qui la traccia fossile di uno stadio ancestrale della formazione dell’uomo, stadio nel corso del quale la testa, per esempio, era un grappolo informe di piume e capelli, di occhi e di barbe, d’ali e di bocche che si rivelano essere in realtà degli ovari vegetali.

L’antropomorfo ha qui lasciato il posto al teratomorfo: insetti giganti planano sull’incrocio di corpi ormai deflagrati nel serratissimo nodo di organi rudimentali che si spostano mediante movimenti a spirale di licheni proteiformi, lungo i quali una complessa coreografia di membra alla deriva declina una specie di vasta zoologia da fatras [34]. Gli organismi rappresentati sono qui gli scarti viventi di una evoluzione mancata, la proliferazione mostruosamente felice di un altrove della Natura che esplode a partire dalle sue pieghe più riposte, per divenire lo spazio di sdoppiamento delirante delle sue creature a brandelli.
Per evocare Simondon, potremmo dire che presso Nicasius Roussel i corpi in questione si trovano in uno stato intensivo di metastabilità [35]: le piante manifestano uno stadio genetico al termine del quale ciò che era destinato a divenire corteccia si rivela essere l’epitelio di un invertebrato; quest’ultimo a sua volta non cessa di moltiplicarsi secondo una sequenza di germinazioni botaniche tutte culminanti in una sorta di flocculazione sparsa d’organismi nati là dove la fisionomia determinata di ogni corpo diventa il perimetro fluido tra tendenze morfologiche opposte e contraddittorie.
Prendiamo l’immagine centrale e guardiamo da più vicino il soffocante accumularsi di figure che si concatenano a partire da una propulsione incontrollabile di forme soggette ad un gradiente crescente di ibridazione. Innanzitutto si dovrà osservare con attenzione il profilo inquietante di una libellula sovradimensionata, dal dorso della quale si allungano tre steli di grandezze differenti innestati al punto di giunzione delle ali in tensione, simili a due scuri petali deformi.
Le zampe dell’anisottera trovano il loro suolo sull’ampia curvatura del corpo di un essere che prende tutto il suo slancio a partire da un calice vegetale sviluppatosi secondo una configurazione perfettamente simmetrica a quella appena analizzata. Due assemblaggi vagamente animali scandiscono la struttura dell’immagine:
I. In alto noi riconosciamo la figura di un improbabile uccello rapace il cui corpo deriva dalla contrazione o, forse, dalla giustapposizione brutale, tra una specie di lungo fusto vegetale — segmentato in sei anelli successivi simili agli anelli dei lombrichi — e un flessibile collo umano nato dal petto di una donna del tutto scomparsa o, in ogni caso, ormai introvabile.
II. In basso l’altra creatura appare come lo schizzo immondo di un animale terrestre che al posto del capo possiede un ricettacolo floreale prossimo a schiudersi.

Presso Nicasius Roussel è impossibile distinguere ove inizi la dimensione propriamente animale e dove finisca la componente vegetale. Inoltre bisogna sottolineare che la figura umana è qui condannata ad un’estinzione definitiva, riassorbita in un fondo di forze arcaiche che scuotono ogni suddivisione tassonomica. A tal proposito è bene evocare ancora una volta un passaggio di Les mots et les choses ove Foucault osserva che
l’expérience de la vie se donne donc comme la loi la plus générale des êtres, la mise à jour de cette force primitive à partir de laquelle ils sont ; elle fonctionne comme une ontologie sauvage, qui chercherait à dire l’être et le non-être indissociable de tous les êtres. Mais cette ontologie dévoile moins ce qui fonde les êtres que ce qui les porte un instant à une forme précaire et secrètement déjà les mine de l’intérieur pour les détruire. Par rapport à la vie les êtres ne sont que des figures transitoires et l’être qu’ils maintiennent, pendant l’épisode de leur existence, n’est rien de plus que leur présomption, leur volonté de subsister. Si bien que, pour la connaissance, l’être des choses est illusion, voile qu’il faut déchirer pour retrouver la violence muette et invisible qui les dévore dans la nuit. L’ontologie de l’anéantissement des êtres vaut donc comme critique de la connaissance ; mais il ne s’agit pas tant de fonder le phénomène, d’en dire à la fois la limite et la loi, de la rapporter à la finitude qui le rend possible, que de le dissiper et de le détruire comme la vie elle-même détruit les êtres : car tout son être n’est qu’apparence [36].
Antere mostruose ed elitre in vibrazione, peduncoli uncinati e conchiglie di carne costituiscono qui le coordinate allucinatorie di una biologia smarrita nelle direzioni paradossali di un trasformismo iperbolico. Ogni organismo è in realtà una sorta di macroscopico feto dotato di una capacità metamorfica incalcolabile. Ogni essere è il portato imponderabile, provvisorio e inatteso di uno scivolamento infinito di energie trasformazionali che lavorano in profondità le formazioni interminabilmente embrionali sulle quali tali energie si esercitano senza tregua.
Suddetti scivolamenti si interrompono però in base alle linee di decostituzione [37] di un tracciato di svolgimento il quale possiede qualcosa di profondamente sinistro. È per questa ragione, ad esempio, che noi vediamo la figura della regione superiore dell’immagine svolazzare nello spazio depolarizzato della rappresentazione senza avere delle ali, ovvero in ragione di una pura e illimitata forza di gravitazione che si ripercuote di conseguenza sulle altre figure dell’immagine.
In basso notiamo invece la camminata difficoltosa e claudicante dell’altro animale. Questo procede come un acrobata decapitato sul ramo ondulato che serve da improbabile piedistallo al vertiginoso inscatolamento di verticilli, in cima ai quali emerge senza preavviso la piccola figura alata che impugna la coda della bestia acefala, simile ad una frusta animata. Questa presenza marginale è la sola a conservare alcuni tratti umani, un torace maschile sormontato da un volto coperto da una sorta di orribile e grottesca maschera tribale, coronata a sua volta da un’architettura vegetale molto complessa, caricaturale tiara espressione di una sovranità tutta bestiale.

I corpi possiedono un volume inquieto. Essi sono masse di forme in squilibrio costante, sorgenti ctonie di una irradiazione cieca al centro delle quali assistiamo all’irruzione di qualcosa di innominabile, che ora si muove con la molle dolcezza di un’alga dotata di artigli e di denti, ora si diffrange nervosamente come in seguito allo sfaldarsi di carni umane.
Il corpo appare allora come il flusso inorganizzato di organi e membra erratici, un formicolio brutale di somiglianze mancate, «corps désemparés et sans repères» [38] identificabili, ridotti a strascichi para-vegetali nel viluppo dei quali la traccia umana s’incrosta come un rifiuto attorno al quale fiorisce un’accumulazione interminabile di deviazioni antropomorfe.
Ogni figura equivale alla catastrofe di un nucleo somatico originariamente coerente, alla sua dissezione sempre più minuziosa, destinata a entrare in circolazione in un gioco lugubre di scambi e di interferenze designanti il limite di estenuazione di una anatomia sottoposta al sotterraneo lavorio di degenerazione generalizzata di una nozione di corpo concepito in termini di «fouilles de symptômes, floraison d’irrégularités physiologiques, masse hétéroclite de plantes voraces qui rongent leurs propres racines» [39].
Possiamo quindi concludere che presso Nicasius Roussel l’elementare regna nell’assenza di limiti prestabiliti tra le figure convocate sulla scena dell’immagine. Il mostro dalle fattezze umanoidi che appare sul bordo della rappresentazione non è che il simulacro dell’uomo e della sua umanità. Tale essere marginale mette in evidenza l’area di manifestazione delle potenzialità metamorfiche culminanti al centro della scena con l’esaltazione del sacrilegio della natura razionalizzata e antropomorfizzata, natura divenuta ora il luogo geometrico di una celebrazione profanatrice al termine della quale ogni creatura è abbandonata a se stessa nella dispersione delle solitudini.
Proprio a partire da questo ibrido marginale si distende lo spazio di quella ontologie sauvage in seno alla quale compariva il mondo di cui egli è il regista occulto, immobile e muto officiante di una cerimonia che trova in una biologia dell’abominevole la sua specifica ragion d’essere, assiso al sommo di un palazzo vegetale che egli integra e completa come un’emanazione in grado di perfezionare la veemenza della propulsione proteiforme strutturante tutta la configurazione.

Parodia di un cherubino ipogeo, metà uomo e metà pianta, egli rende evidente che in questa dimensione la trasmutazione è un omologo degradato della transsustanziazione. Ecco allora che ci troviamo esposti a ciò che Maldiney chiamava l’horrible normalisé, in relazione al quale il fenomenologo francese scriveva:
c’est cette normalisation du monstrueux qui est troublante. Le trouble provient de ce que ces êtres émergent à eux-mêmes de l’entre-deux, dans l’aventure équivoque duquel il nous engagent : leur disparate se résout dans l’obliquité : c’est-à-dire que leur liaison interne, qui fait leur unité formelle, n’est pas de celles qui sont observables en face et objectivables. Leur identité s’exprime de biais par des phénomènes d’expression, avant tout par la gestuelle et le regard. Or la gestuelle et le regard sont de façons d’être au monde, donc pour ces êtres mixtes, d’exister leur là. Dans les enfers de [Nicasius Roussel] le regard, qui émane de toute la face, bestialise l’homme et humanise la bête sous l’unique figure du monstre. Il est difficile de dire où l’un commence, où finit l’autre. Mais les monstres les plus inquiétants ne sont pas ceux qui retiennent l’homme prisonnier dans la bête, mais ceux qui, au contraire, dans la bête montrent l’homme ou quelque chose comme une intentionnalité humaine [40].
Solo lo sguardo sembra dare espressione umana a queste creature fluttuanti sulla scena, che invitano ironicamente e fatalmente l’uomo ad accedere nel luogo della sua dissoluzione infinitamente ritardata e rimandata. Vi è qui come una sorta di inversione del motto di Eraclito: «entrate, anche qui gli uomini sono presenti», sebbene quasi interamente cancellati, insabbiati in una sedimentazione di strati epigenetici ove il corpo dell’uomo brilla come il geroglifico atrofizzato e abbandonato al fondo di una gorgogliante geologia anatomica immersa nella densa profondità di un liquido amniotico, in seno al quale l’antropomorfo non è che l’escrescenza superficiale di una omeostasi germinativa avente nella mostruosità animale la sua misura ideale.


4. Il Barocco: un’altra Lascaux?

Più o meno contemporaneo di Nicasius Roussel, Valentin Sezenius declina tale mostruosità animale a partire da una reticolazione serrata di rimandi iconografici i cui tratti costitutivi sono suscettibili di essere integrati in un ventaglio di costellazioni figurative altamente differenziate.
A tale titolo noi esamineremo una tavola, a nostro avviso piuttosto emblematica, tratta dalla sua raccolta di incisioni [FIG IV] [41]:



La rappresentazione obbedisce ad un principio di intra-agencement [42] dei personaggi piuttosto rigoroso: innanzitutto abbiamo una simmetria che si concentra intorno alla figura centrale, senza dubbio fattore dominante della configurazione globale. Vagamente androgina, dotata di due grandi ali, forse troppo gracili per sostenere il peso effettivo del corpo, tale figura spalanca le sue braccia in un gesto di offerta dal quale si dispiega lo strano paesaggio d’animali e di motivi floreali tutti interconnessi in maniera più o meno diretta, attraverso un circuito molto complesso d’appendici filamentose che scandiscono, reggono e organizzano la costruzione integrale della scena.
Una ragnatela s’articola così secondo il dinamismo geometrico di un formidabile arabesco zoomorfo: esso mette in relazione tutte le figure captate nel campo gravitazionale del personaggio centrale. Valentin Sezenius costruisce questa immagine come un vasto vortice di trasmissione e migrazione di traiettorie generatrici distribuite in forza di una possente ventilazione animatrice, propagatasi tramite corrispondenze simmetriche di propulsioni centrifughe, le quali trovano nella vibrazione delle ali e nel moto delle braccia — estremamente lunghe in rapporto al corpo, quindi quasi del tutto sproporzionate — della figura centrale la loro sorgente inesauribile.
Tutti i corpi rappresentati si agitano nello spazio di una oscillazione infinita: essi sono sospesi tra una preminenza degli elementi puramente geometrici — soggetti quindi a un processo più o meno radicale di linearizzazione, come per esempio le due farfalle che sembrano amplificare l’apertura dei palmi della mano della creatura androgina, o ancora i due uccelli ridotti ad un nodo palpitante di tratti neri — e un’opzione iconografica orientata verso l’analogico: è il caso dei due scarabei e del pipistrello che, con le sue ali dispiegate, appare come una sorta di doppio degradato del personaggio centrale.

Intermediario tra i due domini grafici, il motivo vegetale si impone alla nostra attenzione schizzando una sotterranea ma persistente trama di contatti e di comunicazioni incrociate sia tra le figure sottomesse al registro della stilizzazione geometrica, sia a quelle ascrivibili ad un dominio afferente all’analogico. Il sistema di linee che si sviluppa a partire dal personaggio centrale in effetti rappresenta i vettori di strutturazione delle sue energie di formazione concepite come le direttrici in tensione dei campi differenti in corso di definizione crescente.
Se ora osserviamo i due uccelli nella parte alta dell’immagine, le figure umane in basso, la coppia di farfalle, le zampe degli scarabei e dei cani, le due composizioni di frutta, comprendiamo che Valentin Sezenius ha scelto di organizzare tale scena attraverso la ramificazione minuziosa di equivalenze nascoste tra lo zoomorfo e il fitomorfo, i quali così non smettono di circolare l’uno nelle lacune dell’altro, come dei vasi comunicanti raccordati dal tracciato di un invertebrato labirinto che trova il suo diagramma esplicativo nelle volute seccamente geometriche poste a decorazione del corpo della figura androgina.
Si tratta di una vera e propria mise en abîme di un linguaggio trans-iconico in relazione al quale il vegetale e l’animale si tramutano nei caratteri fluidi di una scrittura figurale capace di raccontarci le origini degli esseri naturali mimando le fasi e gli stadi della loro gestazione trans-morfica. In tal modo l’autore pare voler suggerire l’esistenza di una sorta di scrittura cifrata al centro della quale prenderebbe forma una scena originaria, la quale ci espone ad una specie di trasparente decomposizione prismatica del corpo centrale nei corpi periferici che si frantumano e di disperdono, si ricompattano e si diffrangono, fino a dare luogo alla suddivisione immobile di serie fluttuanti, in fondo alle quali ogni creatura equivale ad un arto remoto, ad un organo smarrito della figura androgina.
Se presso Mauro Poggi la scrittura diveniva corpo arborescente, presso Valentin Sezenius è invece il corpo che si trasforma in una formidabile e inedita scrittura arborescente, ovvero nucleo anamorfico ove si condensano l’animale e il vegetale, ma anche il geometrico e l’organico, alla ricerca di un bilanciamento forse impossibile tra le dimensioni plastiche e biologiche.

Queste ultime si mostrano ora a noi sotto le forme di un balbettamento figurale fatto di pieghe e correnti, vortici e sinuosità, i quali tracciano i profili inquieti delle figure come gli echi interminabili e ormai quasi del tutto inudibili di una parola aurorale e notturna che il personaggio centrale scandisce dall’origine del tempo senza mai pronunciarla.

Presso Esaias van Hulsen (1570-1626), al contrario, non troviamo alcun centro prestabilito, né alcuna figura fulcrale [FIG. V]. Non vi sono poli privilegiati da cui si sprigionino forze centrifughe o verso i quali facciano ritorno dei movimento centripeti. Presso di lui la catena degli esseri si manifesta col sembiante di una emorragia di forme che popolano e saturano lo spazio dell’immagine in forza della loro dispersione soffocante.
Senza alcuna simmetria calcolata, priva di una geometria sorvegliata, senza equilibri a lungo raggio, sprovvista di ogni forma di strutturazione attentamente scaglionata secondo un preciso asse di distribuzione e di organizzazione, l’immagine è un ingorgarsi di figure vagamente animali in formazione e deformazione continua, un serpeggiare tortuoso di corpi striscianti generanti un contagio circolare di somiglianze incrociate destinate a scomparire in una sorta di livellamento isotropico delle forze metamorfiche in gioco.



La scena è una disseminazione infinita di epicentri morfologici in tensione reciproca, una fibrillazione puntiforme di scivolamenti e spostamenti che innervano il ricco catalogo delle creature rappresentate; in tal modo il movimento leggero della lucertola si riverbera nella lieve flessione del collo di un uccello, risonando a distanza sulle ali dispiegate dell’uomo-coleottero.
Ogni corpo animale equivale qui ad una causa di contaminazione interna a tutto il circuito delle figure concepite come degli aggregati provvisori che si propagano attraverso le nervature inavvertibili di una incontornabile pianta rampicante. Nei meandri di quest’ultima prende corpo «tout un monde subaquatique, sous-marin, presque fangeux où végétations de corail, sinuations d’algues et nuées de protozoaires dessinent cette espèce d’aquarium mental» [43] attraversato dalle movenze lenticolari di effimere divinità teriomorfe.

Davanti ai nostri occhi si schiude la regione di una flussione perpetua e trasversale di corpi nati da l’intreccio di fasci anatomici che si svolgono capricciosamente fino a dare luogo ad una sorta di rapsodia concentrica di sismi morfologici. In seno ad essi gli esseri nodulari che noi identifichiamo a difficoltà non smettono di disgregarsi e di ricomporsi tramite spasmi che fanno di ogni corpo momentaneamente riconoscibile un punto di concentrazione delle forze reciprocamente repulsive prossime ad implodere.
Presso Esaias va Hulsen le forme entrano in contatto come fossero il precipitato di una essudazione di linfe veicolanti la perpetua incubazione di corpi sorpresi sempre nel momento stesso della loro evaporazione, sotto le apparenze di un vortice erratico di grappoli di figure filiformi dissolte in uno sfarfallio di spirali vegetali. Tale teatro arborescente espone il nostro sguardo alle vertigini di un brancolamento tentacolare, il quale genera una specie di ricamo di corpi lavorati attraverso rotture e lacerazioni, frastagliate sfaccettature, tensioni e distorsioni ove vengono a mescolarsi le formazioni abusive di una imponderabile embriologia congetturale.
Prossime a scomparire nel sottosuolo di una Natura ormai indecifrabile, tali esseri sono la cristallizzazione instabile di una risacca biologica ove sonnecchia ancora tutto uno spessore di creature ipotetiche, formazioni periferiche di una Natura al cuore della quale si rivela la linea di continuità tra la rarefazione traslucida del corpo astrale di un angelo e l’esoscheletro di un calabrone, entrambi cospiranti verso un’anatomia indefinitamente larvale.
Nella babele morfologica di Esaias van Hulsen sussistono fianco a fianco monconi di corpi dalle proporzioni ineguali, parti di corpi che appaiono ora gigantesche ora microscopiche a causa dell’assenza di una scala comune a tutti gli esseri rappresentati. Si tratta allora di dettagli ripetuti in una sorta di possente tremito epigenetico, frammenti sfilacciati d’organismi simili a dei piccoli meccanismi votati ad una insituabile e verticale implosione reticolare, la quale trasforma tutta la superficie dell’immagine in una specie di immenso utero policentrico e polimorfo.
Nelle opere di Esaias van Hulsen è possibile riconoscere quindi le linee di forza di un’anti-Natura in seno alla quale ogni figura equivale al precipitato di un processo di emulsione operata a partire da un magma di corpi intermittenti, di corpi-palinsesto ove si intessono le fibre occulte e straziate di una genesi regressiva, involutiva, nelle spire della quale ogni figura animale sembra tramutarsi in una nebulosa instabile e palpebrante di pseudopodi, i quali sembrano creare lo spazio in cui si prolungano coll’irriflesso tremolio delle loro terminazioni nervose e nel disegno delle quali il bestiale si rivela essere in ultima analisi l’altro nome del numinoso.

Se sulla volta della grotta di Lascaux Bataille aveva decifrato i segni di «une symphonie animale à l’inifini noyant l’humanité furtive» [44], Valentin Sezenius e Esaias van Hulsen ci dispiegano dinanzi la partitura di una ferale polifonia di esseri che galleggiano nello spazio-zero di una metamorfosi interminabile.
Se a Lascaux Bataille aveva sperimentato l’esistenza di una santità [45] che l’animale custodiva segretamente in sé e che solo le operazioni magiche dello stregone riuscivano a far emergere evocandola attraverso una ritualità di natura mimica, questi autori del Barocco ci mettono a contatto con una sinistra e viscerale sacralità di ciò che sembra essere addirittura anteriore alla nascita dell’animale, una sorta di divina informitas [46] che trova nei corpi interstiziali delle creature qui passate in rassegna una formidabile e compiuta espressione.


5. Conclusioni.

Partiti da Benjamin, a questo punto il nostro periplo nella terra incognita del Barocco si chiude con una mappatura ancora troppo ristretta dei territori in questione. I quattro autori qui esaminati forse troppo rapidamente ci hanno rivelato però l’esistenza di un continente nascosto che aspetta di essere esplorato con maggior penetrazione critica.
Se, come visto in apertura, presso gli autori chiamati in causa ne Il dramma barocco tedesco l’animalità non trovava spazio, presso Mauro Poggi, Nicasius Roussel, Valentin Sezenius e Esaias van Hulsen [47] essa possiede senza dubbio un posto preponderante. Ora trasformata in un alfabeto capace di mimare il silenzio di una Natura refrattaria ad ogni sforzo di razionalizzazione, ora invece trasfigurata in una sconvolgente farandola di configurazioni teriomorfe, ciò che abbiamo denominato animalità si presenta a noi con tutta la sua incontenibile ricchezza, sfidando e mettendo in crisi la tenuta e l’efficacia dei nostri quadri speculativi. Se è vero che oggi il tema dell’animalità — dei cosiddetti Animal Studies — occupa un posto rilevante del dibattito filosofico, è anche vero che tale dibattito necessita di una riconsiderazione profonda della figura, del concetto, dell’idea di animale nel corso della storia della filosofia. Il Barocco pertanto ci presenta un’animalità che probabilmente non ha mai trovato lo spazio adeguato per essere vagliata in maniera corretta.
Consapevoli di ciò e consapevoli anche del fatto che il nostro studio si muove come sul margine forse meno frequentato degli Animal Studies, abbiamo tentato di proporre una rilettura del Barocco che tenesse conto di qualcosa che ancora oggi sembra appartenere non solo al vasto e rarefatto dominio dell’inconcettualizzabile, ma anche a quello che Marc Le Bot ha decretato appartenere a ciò che egli denomina infigurable [48].

Come anticipato nelle battute finali del penultimo paragrafo, sulla base di quanto esposto finora noi crediamo che il Barocco possa assurgere degnamente al rango di nuova Lascaux. Se in quelle grotte Bataille aveva percepito con chiarezza le forme anomale di un rapporto con la Natura andato del tutto perduto, nelle opere qui analizzate è possibile udire ancora le sorde grida di un’animalità che sprofonda nella notte del pensiero, un’animalità prossima alle rarefatte ed impervie latebre dell’alogico e forse strettamente legata alle falde più riposte di quell’elementale evocato da Levinas nel suo capolavoro del 1960 [49].
Alla luce di ciò, ci pare utile riportare qui un passo contenuto nel saggio di Bataille del 1955. In esso l’autore, commentando la particolarità della rappresentazione dell’uomo nelle grotte di Lascaux, scrive:
ce que nous fige en un long étonnement est que l’effacement de l’homme devant l’animal — et de l’homme justement devenant humain — est le plus grand que nous puissions imaginer. Le fait que l’animal représenté était la proie et la nourriture ne change pas le sens de cette humilité. L’homme de l’Age du renne nous laissait de l’animal une image à la fois prestigieuse et fidèle, mais, dans la mesure où il s’est lui-même représenté, le plus souvent, il dissimulait ses traits sous le masque de l’animal. Il disposait jusqu’à la virtuosité des ressources du dessin, mais il dédaignait son propre visage: s’il avouait la forme humaine, il la cachait dans le même instant; il se donnait à ce moment la tête de l’animal. Comme s’il avait honte de son visage et que, voulant se désigner, il dût en même temps se donner le masque d’un autre.
Ce paradoxe, celui de «l’homme paré du prestige de la bête», n’est pas formulé d’ordinaire avec l’accentuation qu’il exige. Le passage de l’animal à l’homme fut d’abord le reniement que fait l’homme à l’animalité. Nous tenons aujourd’hui comme à l’essentiel à la différence que nous oppose à l’animal. Ce qui rappelle en nous l’animalité subsistante est objet d’horreur et suscite un mouvement analogue à celui de l’interdit. Mais en premier lieu, les choses se passèrent comme si les homme de l’Age du renne avaient d’eux-mêmes la honte que nous avons de l’animal. Ils se donnaient les traits d’un autre et se figuraient nus, exhibant ce que nous voilons avec soin. Dans le moment sacré de la figuration, ils semblaient s’être détournés de ce qui devait être cependant l’attitude humaine [50].
Ecco, il Barocco degli autori qui esaminati ci riporta con forza a ciò che Bataille chiama «le moment sacré de la figuration», ma di una figurazione condotta al limite estremo delle sue possibilità, figurazione sfociante nella regione quasi impercorribile dell’infigurable, ove però non troviamo più l’uomo ««paré du prestige de la bête», ma dove è piuttosto la bête che indossa i paramenti dell’uomo, attirando così quest’ultimo là dove l’animalità brilla ancora nella «lumière décomposée d’une aurore» [51] in cui l’homme e la bête non si sono ancora separati, uniti da una gemellarità viscerale e tenace, la quale trasforma senza sosta l’uno nella controfigura, ora degradata ora sublimata, dell’altro.
Strumenti concettuali come quelli di endometamorfismo, palinsesto, corpo interstiziale ci sono sembrati dunque imprescindibili per affrontare questo universo, in cui l’animale diventa quella presenza, incerta e instabile, «qui scintille à la limite des apparences» [52]; nel freddo e fermo scintillio di questa luce anfibia, esso s’incide ancora oggi come un impenetrabile enigma. Nostro intento qui non è stato quello di affrontarlo per risolverlo, ma di accostarci ad esso per mantenerlo intatto, mostrandone al contempo la proteiforme e mirabile profondità.


NOTE

[*]. Proponiamo qui per la prima volta in versione italiana la rielaborazione di un intervento tenuto presso l’Université Paris I-La Sorbonne in data 09 novembre 2017, in occasione del ciclo di conferenze Trames Arborescentes, cfr. https://trarborescentes.sciencesconf.org/resource/page/id/25 dal titolo Comme des paupières devenues pétales au bout de tiges transformées en vertèbres...

[1]. H. Michaux, L’espace du dedans. Pages choisies (1929-1954), Gallimard, Paris 1966, p. 227.
[2]. Cfr. G. Simondon, L’individu et sa genèse physico-biologique, préface de J. Garelli, éd. J. Millon, Paris 1995, pp. 66-70 e pp. 78 e sgg.
[3]. È chiaro che noi privilegiamo qui una lettura estensiva del saggio di Benjamin, nel senso che per noi risulta più che acclarato il fatto che il suo studio del 1928 è un testo sul Barocco in senso ampio e non solo su una delle manifestazioni più rilevanti di tale periodo storico, ovvero il solo dramma luttuoso di matrice luterana.
[4]. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, ed. it. a cura di E. Filippini, Einaudi, Torino 1971, pp. 153-154.
[5]. Ibid. Non a caso Benjamin, proprio nel passaggio appena evocato del cane, contrappone a quest’ultimo il «sonno geomantico» della terra.
[6]. Ivi, pp. 184-191. A questa si salda anche tutta la riflessione sul cadavere a p. 232.
[7]. Ivi, pp. 64-67, ove Gryphius viene esplicitamente chiamato in causa.
[8]. Riprendiamo il termine da M. Merleau-Ponty, L’institution. La passivité. Notes de cours au collège de France (1954-1955), préface de C. Lefort, Belin, Paris 2003, pp. 67-69. Notiamo incidentalmente che, esattamente nello stesso anno in cui Merleau-Ponty metteva a punto tale concetto, Bataille utilizzava il medesimo termine in altro contesto, ovvero nel saggio Lascaux ou la naissance de l’art, in G. Bataille, Œuvres complètes, t. IX, Gallimard, Paris 1979, p. 12 e sgg.
[9]. È chiaro che anche in questo Benjamin aveva rappresentato un precursore, se è vero che le sue tesi sul Barocco di fatto diventano uno spaccato sull’espressionismo tedesco dei primi anni ‘20 del Novecento, come aveva ben colto anche Lukács, cfr. W. Benjamin, op. cit., pp. 35-36.
[10]. C. Buci-Glucksmann, La folie du voir. De l’esthétique baroque, éd. Galilée, Paris 1986. Su Merleau-Ponty cfr. pp. 70 e pp. 84-88. Su de Certeau cfr. soprattutto pp. 99-101 e 192-193.
[11]. Tralasciando qui de Certeau, vogliamo rimarcare il fatto che sono numerosissimi i rimandi presso Buci-Glucksmann al saggio del berlinese. Non riporteremo quindi tutti i riferimenti, limitandoci ad osservare che, ad esempio, l’autrice francese si sofferma ad un certo punto proprio sul lemma /Trauer/ che è quello che dà il titolo allo scritto del ‘28, cfr. C. Buci-Glucksmann, op. cit., pp. 117 e 166.
[12]. Da ora e per tutto il resto del presente scritto utilizzeremo come datazione standard per inquadrare il Barocco i termini cronologici messi a punto da Wölfflin nel suo scritto del 1888, cfr. H. Wölfflin, Rinascimento e Barocco, ed. it. a cura di A. Tizzo, Abscondita, Milano 2017, pp. 14-16. Tale scelta è dettata dal fatto che tali termini, oltre ad essere estremamente ampi, ci permettono di collocare in quell’arco temporale tutta una serie di fenomeni non reperibili presso autori diversi da Wölfflin i quali tuttavia confermano e legittimano le scelte di quest’ultimo.
[13]. C. Buci-Glucksmann, op. cit., pp. 47-50 e soprattutto 129-134.
[14]. Vale però la pena sottolineare che il nome di François Menestrier, teorico della primissima imaginum philosophia, si trova sia presso Benjamin che presso Buci-Glucksmann, ivi, p. 173.
[15]. Il nostro intento qui non è quello di segnalare una lacuna o una debolezza del testo benjaminiano – preso come importantissimo punto di riferimento in queste battute iniziali – ma piuttosto di mostrare quanto il tema dell’animalità fosse sfuggente e di ardua focalizzazione anche per un autore come Benjamin, che al Barocco ha dedicato una delle opere più significative non solo della sua produzione, ma di tutta la filosofia del Novecento.
[16]. Cfr. E. Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, o sia Idea dell’Arguta et Ingeniosa Elocutione che serve à tutta l’Arte Oratoria, Lapidaria, et Simbolica esaminata co’ Principij del divino Aristotile
[17]. Gli autori che si sono soffermati su questo aspetto sono innumerevoli e quindi non tenteremo in alcun modo di offrirne un elenco completo. Ci limiteremo qui ad evocare la bellissima raccolta di saggi di E. Raimondi Letteratura Barocca. Studi sul Seicento italiano, Collana Saggi di Lettere italiane, Olschki, Firenze 1991, gli studi M. Praz, Il giardino dei sensi: studi sul manierismo e il barocco, Milano, Mondadori 1975, lo scritto ormai storico di J. Rousset, La Littérature de l’âge baroque en France. Circé et le Paon, Paris, José Corti, 1953, nonché la raccolta di saggi di G. R. Hocke, Il manierismo nella letteratura, Garzanti editore, Milano 1965. Questi ultimi due lavori sono richiamati anche da Buci-Glucksmann.
[18]. C. Buci-Glucksmann, op. cit., pp. 196 e sgg. In particolare tutto il capitolo VI.
[19]. Termine di cui si serve la stessa autrice, ivi, p. 23, n. 1.
[20]. Ivi, p. 42. Corsivi nostri.
[21]. Formula esplicitamente usata da Buci-Glucksmann, cfr. ivi, p. 50.
[22]. Ivi, p. 41.
[23]. In compenso però l’autrice cita sovente i saggi di Jean Rousset sul Barocco, saggi che sono all’origine delle riflessioni di Genette qui da noi rapidamente richiamate.
[24]. G. Genette, Figures I, ed. du Seuil, Paris 1966, pp. 9-20.
[25]. Tale concetto si trova anche presso Genette. Il secondo saggio di questa raccolta del 1966 si intitola proprio Proust palimpseste, ma esso ha un significato diverso da quello che abbiamo dedotto noi da Buci-Glucksmann.
[26]. Rientriamo perfettamente nei margini temporali indicati dal Wölfflin.
[27]. M. Poggi, Alfabeto di lettere iniziali, Inventate e delineate da Mauro Poggi, Scrittor Fiorentino ed incise dall’abate Lorenzo Lorenzi, Venezia, 1730 e 1774.
[28]. Nell’accezione lyotardiana del termine, cfr. J-F Lyotard, Discours, Figure, éd. Klincksieck, Paris 1978, p. 13-15.
[29]. J-L Schefer, Figures peintes, POL, Paris 1998, p. 349.
[30]. G. Simondon, op. cit., pp. 67-69.
[31]. Espressione ancora di Schefer, Ivi, p. 238.
[32]. M. Foucault, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966, pp. 289-190.
[33]. N. Roussel, Ornament med Groteske, Bruges 1623.
[34]. A tal proposito, cfr. soprattutto H. Maldiney, L’art, l’éclaire de l’être, Comp’Acte, Paris 1993, p. 342.
[35]. G. Simondon, op. cit., p. 58-60.
[36]. M. Foucault, op. cit., p. 291.
[37]. Termine ancora di Schefer, cfr. J-L Schefer, Choses écrites. Essais de littérature et peu près, POL, Paris 1998, p. 271.
[38]. M. Le Bot, L’œil du peintre, Gallimard, Paris 1982, pp. 157 et sqq.
[39]. J-L Schefer, Choses écrites..., p. 309.
[40]. H. Maldiney, op. cit., pp. 230-231.
[41]. Cfr. soprattutto Campbell Dogson, Valentin Sezenius, The Print Collectors Quarterly, Vol X, 1923, pp. 81-93.
[42]. Nell’accezione deleuziana: cfr. G. Deleuze - F. Guattari, Mille Plateaux, éd de Minuit, Paris 1980, pp. 397.
[43]. J-L Schefer, Choses écrites..., p. 147.
[44]. G. Bataille, op. cit., p. 68.
[45]. Ivi, p. 78.
[46]. Termine di Sant’Agostino, cfr. Confessionum Libri Tredecim, Lib. XIII, Cap. III: «priusquam istam informam materiam formares atque distingueres, non erat aliquid, non color, non figura, non corpus, non spiritus? Non tamen omnino nihil: erat quaedam informitas ulla species».
[47]. Il novero degli autori potrebbe proseguire senza problemi. Per questioni espositive ci siamo limitati ad essi ma, ad esempio, avrebbero meritato una menzione anche Louis-Jean Desprez, Christof Jamnitzer, Androuet de Cerceau, Cornelis Floris e molti altri.
[48]. M. Le Bot, op. cit., pp. 135 e sgg.
[49]. E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, trad. it. di A. Dall’Asta, Jaca Book, Milano 1977, pp. 132. Si tratta del dominio tanto remoto quanto vicino a noi dell’inappropriabile senza forma. Tuttavia va detto che nel breve elenco che Levinas propone di esempi di elementale l’animale non trova posto.
[50]. G. Bataille, op. cit., p. 63. Corsivi nostri.
[51]. Ivi, p. 27.
[52]. Per usare l’espressione che Blanchot impiega in un celebre commento al Lascaux di Bataille, cfr. M. Blanchot, L’amitié, Gallimard, Paris 1971, p. 16.


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