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Se la scrittura è un cenotafio
Ceronetti prossimo nostro

di Giuseppe Crivella

2 aprile 2019


«Ogni lingua ha il suo silenzio...»
(E. Canetti, La provincia dell’uomo)


I. Una specie di echeggiamento informe...

Attratto dalla preziosa e screziata iridescenza di un palpebrante cupio dissolvi nel quale egli desidera rimanere coinvolto come lo scabro e tagliente frantume di un universo imploso sotto il peso della propria impalpabile levità, Ceronetti è stato innanzitutto la sua stessa scrittura, lavica e ansimante, arcaica e scavata nella verbosa voragine di una lingua strangolata dal proprio nodoso straziarsi in un’insignificanza sempre più proterva e molesta.
La scrittura di Ceronetti nasce così dall’oleoso spessore di una parola ridotta a stremato balbettamento ove assistere impotenti allo strenuo screpolarsi del dicibile. Ceronetti sapeva infatti che il linguaggio non nomina e non designa le cose, ma le attraversa muto, ferendone la instabile superficie, come una staffilata invisibile e profonda, facendone così fondali mossi da fosforescenze felicemente dilacerate, aprendo strappi e spiragli nella loro moribonda tenebra. Scrive a tal proposito in un formidabile passo de La pazienza dell’arrostito:
un velo triste ha coperto le cose e non è un’illusione dell’animo malinconico transitiva: c’è qualcosa che somiglia a un calo d’irrorazione d’amore. Di tutto si parla in un altro modo e se non s’impara questo linguaggio la presa sul mondo diminuisce. Di che cosa (una finestra, un arco, una figura dipinta, una donna, un’idea...) si parla ancora mossi da attaccamento commosso, da passione di profondità, come si volesse accarezzarla pronunciandone il nome, perseguendone nel linguaggio il segreto della manifestazione? Mi sposto da un luogo a un luogo e mi si confonde e svapora la Geografia Emotiva: tra il luogo e il suo nome altro, che non conosco, che è oscurità, si frappone. Le cose non vogliono più essere amate e si coprono con la toga come Cesare, soltanto per ricevere ventitré miliardi di pugnalate convenute in quel punto per assassinarle. Credo non ne possano più, le cose, di essere studiate per qualche fine di utilità, scrutate e analizzate incessantemente da intelligentissimi cretini [1].
Attraverso quegli strappi lo scrittore torinese lascia scorrere lo sguardo filtrato dall’occhiale malinconico di una contemplazione che sia in grado di sospendere il discorso e il pensiero in uno stato di attonita e fatale macerazione estatica, dal seno della quale il reale diventa il tremante invertebrarsi di una labirintica camera gotica [2] all’interno della quale ogni parola possiede la rugosa e vischiosa pesantezza di un corpo millenario prossimo a sgretolarsi sotto il gravame della propria spettrale decrepitudine [3].
E proprio della decrepitudine Ceronetti ha tentato di stilare una sorta di rarefatta e sorprendente metafisica [4]. Il trapassato, il preterito, l’ancestrale sono nel suo pensiero tre voci inquiete e striscianti. Esse s’insinuano ovunque, come le spire oscure di un tempo divenuto la traccia geroglifica di un’inavvicinabile presenza nel cui soffuso attorcersi intorno al proprio punto cieco il linguaggio fluttua come un’immensa interferenza smarrita, vitrea necropoli di segni semi-cancellati appartenuti a una sorta di sepolcrale scrittura sacra il cui segreto sia stato trasmesso ad una casta di sacerdoti amnesici.
Per Ceronetti tale decrepitudine ancestrale si situa nell’istante immediatamente anteriore al momento pieno di ogni disfacimento. Essa si trova così ad essere adibita ad escoriato spazio ove egli non smette di moltiplicarsi, ora diventando la delirata verbigerazione di un dio ottenebrato, ora la proliferante cova di un’anofele nel cui nero sciamare Ceronetti sembra riconoscere come il riflesso negato di una Natura prossima a schiudersi sulla propria solitaria e schiumosa nudità.
Tra questi due estremi la parola di Ceronetti si tende fino a diventare scrittura scorsoia, costantemente in transito da un polo all’altro, tramite e contatto tra la decerebrata parola scagliata contro l’orbita vuota di una trascendenza cadaverica e il decomposto anelito di una Terra divenuta ormai oggetto senza nome, incomprensibile effetto dell’ovulazione di una mosca necrofaga nel cui straziante e gracile vibrar d’ali Ceronetti avverte e decodifica le risonanze ultime di un incessante soliloquio divino. In merito a ciò, auscultando la caliginosa melopea del mare egli afferma:
il Mare è veramente il Mostro dei Mostri (come possiamo amarlo?) se è lì che il Principio Oscuro ha plasmato il maledetto impiastro che siamo. Noi, rottami della voragine umida, maldoror vomitati da enormi squali estinti, secrezioni di qualche immane piovra moribonda su un fondale avviluppato di fosforescenze in movimento, noi suoi miliardi di ceri funebri. Quei bambini arrampicati attorno a una giostra sul lungomare sono usciti dalle uova di quello spaventevole Polipo che li covava dentro un muro di tenebra liquida, la più tremenda di tutte, pochi metri più in là, oltre quelle palme, dove incomincia a sprofondare tutto, anche quel che galleggia [5].
La decrepitudine non è però identificabile con un stadio preciso delle cose. Essa appare dinanzi a Ceronetti come una presenza occulta che le sfiora e le attraversa, le solca e le impregna di sé, grazie alla quale quindi corpi e oggetti, linguaggi e paesaggi, memorie e tempi sono colti d’improvviso da una felice ansia di dissoluzione.
La scrittura di Ceronetti si mostra al tempo stesso implacabile e delicata nella sua claudicante movenza deambulatoria: essa allora incontra la luce e prende a palpeggiarla cercandone le immateriali viscere, spremendone un astratto umore di carne infetta, facendone uno spento relitto celeste abbandonato come l’esito immondo di una bestiale desquamazione nell’intercapedine di un sottoscala.

È forse per questo motivo che alla decrepitudine si salda un’altra figura ricorrente nell’informe cosmo di Ceronetti, ovvero la peristalsi, movimento composito di contrazione istantanea e molle rilassamento di tessuti e muscoli a concludere una fase convulsa di deglutizione. Probabilmente per questa ragione Ceronetti vede la Natura sotto le sembianze di una sfolgorante magnificenza cloacale in cui va in scena senza sosta un formidabile dramma peristaltico sul cavernoso teatro del quale la presenza umana è una carcassa germogliante rovine, la dolorante trafittura che trapassa e strazia la contratta epidermide della terra.
La trazione peristaltica assorbe in sé tutti i sussulti inaspettati che Ceronetti cerca di descrivere accerchiandoli come dall’interno, attraverso una scrittura detriticamente espressionista: come già visto poco sopra, di fronte al mare la peristalsi è quella di un enorme brandello di carne divenuto smisurata piovra a sua volta mutatasi nel nodoso e viscido contrarsi di un solitario tentacolo che si ripiega infinitamente su se stesso, nel tentativo di strangolarsi da solo, come a voler in tal modo abbreviare la sua vana sete d’agonia.
Peristaltica è la scrittura stessa di Ceronetti, trasformata in un trasversale spazio di raccolta e macerazione di tutto ciò che appare indigesto al pensiero e spesso allo sguardo. Scrittura spastica che lascia crescere dentro di sé un mistico fiore intestinale destinato ad ornare con orribili papulae rossastre i laceri bordi di una filamentosa mandibola d’angelo, scrittura-veronica nella quale rimane impresso il volto deforme e irriconoscibile di ciò che non può essere tradotto in parole, come l’affilato e contuso nereggiare di un grido, oppure la dura squama di sonno che sigilla le palpebre dei centurioni nella Resurrezione di Grünewald [6] o ancora la geometrica afonia in cui matura, come una lesionato diamante di abrasa indicibilità, la parola profetica [7].
La peristalsi psichica deversata nel linguaggio dilata il tempo della decrepitudine, lo rallenta e lo moltiplica, facendo della storia una sfrangiata coreografia di ulcerati disorientamenti abbandonati nel loro tortuoso incrociarsi e collidere, posandosi sulla fratturata continuità di un divenire sempre prossimo ad arenarsi sul riarso confine di un presente concepito come scoria galleggiante, resto immondo di una multiforme esplosione putrefattiva da cui si salvano solo delle particole impazzite che, da essa generate, arrivano a noi cantando il silenzio del corpo, mimando le movenze dell’ultimo pensiero lucido di Kant prima della demenza piena, nonché il gemere insensato del Minotauro, al cui ascolto Ceronetti dedica non poca attenzione, come ben dimostra questo estratto dalle battute iniziali de La pazienza dell’arrostito:
Uccisione del Minotauro di Cima da Conegliano [...]. Il Minotauro appare triste, disperato d’incomprensione, pieno di gentilezza umana, un vero bel martire barbuto. Teseo è un signorino in vena di omicidi andato furtivamente a caccia di minotauri...Sembra, mentre vibra il colpo, non rendersi conto della gravità di uccidere il Minotauro, tuttavia una sua mano è delicatamente posata sulla mammella del Mostro, i cui occhi cercano la pietà dei riguardanti [8].
Come Laforgue, Ceronetti fa della propria scrittura la piagata visitazione di laghi oftalmici, di crateri spenti ove siano cresciuti serici deserti di porcellane sconosciute, alfabeti involontari secreti da peduncolate infiorescenze fossili, nel cui fatiscente protrarsi udire l’estremo rantolo di creature ctonie trasformate nella indurita penombra del Verbum teologale, o murate dentro le pareti ossee del cranio di divinità anguiformi. Presso Ceronetti, tra decrepitudine e peristalsi, il passaggio dalla deiformitas [9] alla deformitas è sempre breve, repentino, bruciante.
Pertanto non vi è scrittura per Ceronetti che non sia ferita, che non sia lacerazione onnivora, che non sia raggelata suppurazione di un linguaggio sonnambolico, nel cui murmure pulverulento esso si avvita su se stesso, fino a rapprendersi nel nodoso dedalo speculativo ove egli indaga «la dominazione progressiva di forze incoscienti, di pipistrelli che sbattono in un sotterraneo, là dove appare più indubitabile il paziente mosaicarsi di liberi apporti coscienti» [10].


II. Teogoniche zoofanie

Insieme a Malaparte, seppur calcando versanti di scrittura difformi, Ceronetti è stato forse l’ultimo grande espressionista della lingua italiana [11]. Lontano da Gadda ed estremamente estraneo a Manganelli e a Landolfi, egli ha fatto della lingua un cesellatissimo corpo estraneo scagliato, come un potentissimo talismano, contro la certosina carneficina della parola operata da matrici di espressione derivanti dai contesti più diversi.
Sempre ne La pazienza dell’arrostito, ed esempio, tale felice frizione tra registri inconciliabili diventa assolutamente esplicita: il testo si attorciglia intorno al lutulento squadernarsi di monconi linguistici inventariati senza alcuna griglia di organizzazione precostituita. Ceronetti lascia scorrere sulle sue pagine i nastri impazziti di discorsi reciprocamente refrattari, i quali si affastellano e si saldano in ultimo in una sulfurea ecolalia di slogati plessi frastici affiancati come segmenti di una tenia interminabile che non smette di dibattersi e di ripiegarsi sui propri grumosi punti di impossibile sutura.
Tutti questi plessi eterogenei sono cauterizzati e messi in recalcitrante contatto attraverso il ricorso ad una parola ulteriore - una sorta di sub-linguaggio che è proprio quello di Ceronetti - fatto di lemmi tecnici e specillature etimologiche, recuperi coltissimi e affondi lirici, deformazioni lessicali e eleganti staffilate scatologiche i quali fanno impennare l’elocuzione verso i vertici espressivi - ed espressionistici - propri di una preziosissima farragine linguistica nel cui sfavillante capogiro terminologico il linguaggio si dispiega snocciolando una vasta latitudine di smarrimento semiotico e di espropriazione semantica, di insistito e vorticoso azzeramento espressivo, ottenuto grazie ad un processo che mira ad attivare e a far giocare simultaneamente e perversamente le une contro le altre le innumerevoli possibilità linguistiche offerte da un italiano messo in continuo stato di agitazione.

Ceronetti penetra nei meandri informi della lingua come nel corpo sofferente di un organismo che non smette di morire e di rigenerarsi per sporulazione degenere e aberrante. Tale organismo cresce e vegeta tra sarcofagi di significati deceduti, tra calcificate tumefazioni di senso ove la parola si trascina come un biascicante buio, un suono fucilato nella gola angusta di un linguaggio divenuto arabesco di microsolchi afoni, ammutolito schiumare di automatismi espressivi nel cui rugginoso cicatrizzarsi la scrittura di Ceronetti s’incista e fibrilla, prendendo le movenze di un celeste esorcismo.
La lingua allora s’infiamma fino a tramutarsi in un salmodiare zampettante verso una trascendenza che celebra senza sosta la propria inumazione in un cielo di cenere e sabbia, cielo desertico, adibito a sterminato naos ove l’angelo di Cernobyl [12] ha il compito secolare di tumulare per sempre ciò che resta della parola teofora. In un lungo saggio dedicato alla natura del salmo Ceronetti osserva in merito a ciò:
pregare è un po’ come credere che la fine del mondo sia già avvenuta. La figura del mondo annullata, niente ostacola più il dilagare dell’hallel al di là di tutti i confini. Un salmo è in profondo la lode che Dio canta a se stesso nell’infinito, il proprio nominarsi, contemplando di sé quel che ci è inimmaginabile: è una musica che ritorna, emessa dalla Faccia che sussiste nella perdizione di tutte le vie. La vagina geografica del salmo fu una piega del mondo antico crudele, dov’era stentato e continuamente minacciato di distruzione l’esistere umano (è così anche oggi laggiù), ma il salmo senza staccarsi dalla terra madre, dalla tenda viaggiante, da quelle piaghe e bolle e maleficii, da quei deserti pieni di sete e di ossa di sgozzati riuscì a dirigersi infallibilmente, come una freccia che vola di notte, verso il suo Principio, e a ritornare con le tracce della Gloria sullo strumento a corde affaticato.
Quando rievocano episodi dei libri mosaici o storici, i salmi non ripetono storie note: riaffacciano su modulazioni sacrali arcaicissime la storia di un mondo finito molto tempo prima, mondo di un precedente anno di Brahman, avulso dal tempo definito. Tuttavia, il Tempio è il segnatempo biblico: ancora in piedi, già disfatto, costituiva con quell’anteriorità indeterminata il legame visibile nel tempo determinato, ingoiatore di carovane di oranti che avevano per unico bagaglio l’energia di qualche parola teofora, per consolazione un pugno di consonanti. Ma già nei conventi del Mar Morto tra i Figli della Luce, grandi salmivori, non si viveva affatto secondo il tempo storico, misurabile da Romani o Tolomei. Per loro la fine del mondo continuava ad avvenire, era l’evento nel suo venire. L’unico Evento di un tempo più morto del mare sul quale erano i loro favi sospesi [13].
Ceronetti sembra spingere la lingua verso quello che una volta Jaspers denominò, con formula felicissima, l’alinguistico [14]. Come il filosofo tedesco, giunto nell’ultima fase della sua esistenza, inizia a pensare ad una espressività composta di immagini e figure, quasi una sorta di metaforologia espansa derivata direttamente da alcuni assunti reperibili presso la prima produzione di Nietzsche, così Ceronetti ragiona ormai in termini di miti e divinità, paesaggi e simboli anchilosati, in forza dei quali ogni parola smette di essere un grumo informe di rachitici significati per iniziare a diffondere intorno ad essa un’aura di illuminata demenza tutta verbale, nel cui cloroso spirare però Ceronetti stesso alligna come un’anomala pianta dai grigi pampini della quale fioriscono scorporati bulbi oculari senza palpebre, disperatamente puntati sul criptico pietrificarsi del visibile.
Perso nel delicato affiorare di palpitanti branchie vetrose sulla scabra superficie di una pietra, quasi a suggerire l’idea di una gutturale respirazione minerale che dal suolo erompe come l’ansito fangoso di un enorme polmone sotterraneo prossimo al definitivo collasso, Ceronetti secerne una parola sagomata sul molle aleggiare di voci lemuriche, cristallizzate in una attonita densità di evocazioni e citazioni che fluttuano come una stanca risacca di memorie mutile nel protoplasma psichico della propria trasparente persona loquens, tremule elitre che compongono il tormentato paesaggio ove l’ego è piuttosto l’eco contorta su cui grava torpidamente un lancinante silenzio primordiale.
Ogni possibile teofania qui diventa fragilissima geofonia [15]: la parola non parla più, ma si converte in un’anchilosata vociferazione tellurica, di fronte alla quale la stessa materia si rivela essere corpo pensante [16], come se quindi la lingua umana non foss’altro che una sensibilissima antenna piantata nel sonnolento spessore della terra per captarne il delicato sussurrio di frane invisibili e smottamenti millenari, linguaggio amorfo derivante da una scena tragica attraversata e solcata da un inesprimibile monologare geologico. Parlando della frana in Valtellina del 1987, Ceronetti scrive:
nel corpo ingente della frana hanno introdotto delle spie meccaniche dette geofoni, delatrici del pensiero tellurico, che portano alle orecchie umane le intenzioni dell’inorganico. Forse, chi sa, la frana pensa realmente...Oh, Bruno! Oh Vannini! Voi che siete stati, per aver pensato la Materia come pensante, bruciati vivi! Potrebbero testimoniare per voi, oggi, i geofoni della Val Pola, insieme a infiniti altri segnali di mente che patisce, emessi da questo pianeta maltrattato e barbaramente pieno di sentimento [17].
Il linguaggio in questo senso si profila dinanzi a noi come il reliquario incrinato ove far apparire per un attimo il nudo splendore di un’animalità ormai remota ed ignota, animalità irreperibile e travagliata fin nelle fibre più riposte dalla sorda macchinazione dell’umano, resa fertile terra di micrologico sterminio tecnomorfo, ridotta a livido pentagramma di sparuti palpiti che attraversano e sommuovono una materia capillarmente sottoposta a chirurgica cancellazione di vita.
Ceronetti allora osserva l’animalità come accostandosi ad un trasparente viluppo di inaccessibili forme di familiarità che smettono di esistere non appena si cerchi di penetrarvi, inquinato quindi fino all’irreversibile estinzione dalla più piccola e insignificante traccia umana. L’animale è allora innanzitutto il nome che designa il limite inavvertibile di una alogica sacralità pre-umana, composta da stenti atomi di realtà in pena [18] i quali trafiggono il linguaggio con il loro respiro sempre più inudibile e rarefatto, soffiato dentro la carne viva del Verbum come un lacero alito di vite anonime le quali lasciano in essa una sterminata ustione bianca, ove Ceronetti cerca di immergersi sparendovi, diventandone il bordo frastagliato, essendone in ultimo il ristagnante odor di bruciamento [19] metafisico.

L’animalità diventa così un ambulacro di stigi [20] numi ormai irriconoscibili, il vasto sudario di una catastrofe tanto più estesa e planetaria quanto più profonda e inavvertita: essa precipita senza possibilità di salvazione nella rovente tenebra di quella Dimenticanza che occupa senza dubbio un posto cardinale nel nero Pantheon eretto con cura ossessiva dall’apocalittografo [21] Ceronetti. Si tratta di un vero e proprio teriodramma [22] sacro quello messo in scena dallo scrittore torinese. L’animale concentra e condensa in sé tutti i principali nuclei di riflessione che egli ha affrontato nel corso della sua polimorfa produzione dalla fine degli anni 㥎 fino alla morte, avvenuta nel settembre del 2018. L’animalità è allora innanzitutto il luogo di viscerale incubazione di quella alinguisticità che caria dall’interno ogni forma di espressione umana, ogni parola e ogni atto di scrittura.
In tale teriodramma il Verbum di Dio si contrae nell’insondabile mutismo custodito dagli occhi di un gatto che muore [23], profondissima notte di significati appena socchiusa sul disintegrato bagliore di un dialogo tanto più impossibile quanto più necessario e urgente. Di fronte agli animali quello di Dio è un nome definitivamente consumato, il suo Verbum è l’inudibile vibrazione che si agita e si spegne in un rantolo di agonia.
Fiorito da un’egizia tenebra sprofondata nei primevi di un tempo smisuratamente anteriore all’uomo, il volto dell’animale ci pone dinanzi a ciò che Bloch avrebbe denominato «forma del problema incostruibile» [24]. Di fronte a uomini ridotti ad ulcerate marionette ideofore, nomadi nella vulva del finito, l’animale brancola con una grazia spettrale e dolorante, nel vuoto di categorie ormai inservibili, che finiscono con l’incancrenire ciò che dovrebbero spiegare e classificare.
Dotato di un viscerale corpo astrale l’animale scivola sul mondo come un fragilissimo e umbratile ricamo di solitudini inavvicinabili, incontaminata scheggia di una luce tutta terrena, la quale ancora debolmente filtra e lampeggia nella riarsa siccità di vita che l’uomo diffonde intorno a sé senza quasi rendersene conto.
L’animale risulta dunque essere latore di una flebile ma tenace aureola orfica ove divinità preistoriche si consumano nel travaglio di germinazioni siderate tra il rigoglioso silenzio emesso da un esile tumulto di vite ancora non contraffatte dall’umano e l’urticante sudario di gemiti che si intenebrano nei farneticanti roghi accesi per fare dell’animale una smembrata latebra da sbrano [25].


III. Un être labyrinthé

Sfuggente e inafferrabile, Ceronetti è forse l’ultimo grande poligrafo di lingua italiana. Compulsatore onnivoro della letteratura universale, i suoi testi nascono come fluidi mosaici ove confluiscono senza sosta correnti di scrittura altamente variegate e difformi, sublimate però in piccole raccolte di micro-narrazioni discontinue e frammentate, le quali tradiscono in ultima istanza le provenienze più inaspettate e sorprendenti. In esse l’arroventata parola di Jünger coesiste con estratti desunti dalle fredde nosografie metafisiche del Qohelet, la sferzante licenziosità del Marziale si accosta senza preavviso ad estratti dei trattati di medicina del tardo seicento europeo, nel riportare alcune scritte lette sulle pareti di un cesso pubblico fiorentino Ceronetti interpola riflessioni suggerite dall’assidua frequentazione del Littré, stralci di resoconti giudiziari aventi per oggetto la vicenda di Jack the Ripper convivono senza traumi apparenti con il commento a corollari dell’Ethica spinoziana.
Molto simile, per questo aspetto, al mercuriale Canetti, Ceronetti nella sua scrittura camaleonticamente prensile e manipolatrice, si profila e si proietta sotto le sembianze instabili di un proteiforme testimone auricolare la cui postura obliqua tra versanti di discorsi assolutamente inconciliabili connette e fa collidere la fistolata eco del Verbum divino col fermentante silenzio di un’animalità che agli occhi dello scrittore torinese appare come la trasparente linfa fagocitante ogni idea di tumefatta trascendenza, convertita quindi in ultimo nella circense trasfigurazione di un dio altrimenti condannato senza appello e senza possibilità di salvezza ad una radiosa necrosi.

Dinanzi a tale stato di cose ogni impulso ermeneutico si converte in un labirintico avvitamento maieutico del pensiero su se stesso, trasformando ogni tentativo di esegesi del più semplice dato reale in una raggiante paresi di segni esalanti il sordo gracidio di un reiterato sgretolarsi di logogrifi. Per questo motivo forse in un passo de La pazienza dell’arrostito Ceronetti rigetta per sé epiteti come scrittore, saggista et similia, optando per un’unica qualifica: filologo [26], specialista cioè di una filologia rara e preziosa, dove il λóγoϛ non è più però il semplice vettore privilegiato di una razionalità ormai in rovina, né va inteso come il rumore bianco di una parola divina sempre più lacera e inudibile; esso piuttosto si delinea come il notturno e insituabile spiraculum da cui scrutare il limaccioso sottosuolo delle cose, prima che queste scivolino definitivamente in una sorta di cerea narcosi nelle cui spire l’uomo e il suo linguaggio vengono attratti senza alcuna speranza di riscatto o salvezza. In questo λóγoϛ assistiamo a ierofanie deragliate dentro traslucidi grappoli di sfilacciate e fibrillanti formazioni sub-encefaliche da cui germinano coriacee rampicanti ventriloque, cinerei cifrari di schiume divinatorie tradotte in un ricco ricamo di licheni ormai arenatisi sotto forma di pietrificate vestigia in una biascicante embolia di tempi franti.
Nella pratica accanita di questa filologia espansa Ceronetti manifesta non pochi punti di contatto con Pascal Quignard, e non solo perché molti dei volumi dello scrittore torinese potrebbero portare il medesimo titolo di un celebre dittico dell’autore francese - ovvero Petits Traités - ma anche perché entrambi mettono a punto una sorta di raffinatissima e personale rhétorique spéculative che Quignard presenta così:
j’appelle rhétorique spéculative la tradition lettrée antiphilosophique qui court sur toute l’histoire occidentale dès l’invention de la philosophie. J’en date l’avènement théorique, à Rome, en 139. Le théoricien en fut Fronton.
Fronton écrit à Marcus: «il se trouve que le philosophe peut être imposteur et que l’amateur des lettres ne peut l’être. Le littéraire est chaque mot. D’autre part, son investigation propre est plus profonde à cause de l’image». L’art des images — que l’empereur Marc Aurèle nomme en grec icônes et que son maître, Fronton, les nomme le plus souvent, en latin, images ou, à quelques reprises, en grec philosophiques, métaphores — à la fois parvient à désassocier la convention dans chaque langue et permet de réassocier le langage au fond de la nature. Fronton affirme que l’art des images est dans la langue comparable au sommeil par le rôle qu’il joue dans l’activité diurne [27].
La scrittura di Ceronetti palpita di immagini sepolte e celate nel doppio fondo di un linguaggio che spesso concresce su se stesso, caricandosi ogni volta da capo di viluppi allucinogeni i quali non cessano di espandersi e di moltiplicarsi come per sporulazione, facendo così di ogni parola il luogo ove assistere al progressivo e contrattile spaziarsi di voraci sequenze visionarie grondanti resine di immagini. La sua scrittura, resa un impervio terreno tramato di visionarie accensioni liriche, procede attraverso una convulsa sintassi che accumula frastagli intensamente figurali, inopinati lampeggiamenti di una imaginativa che finisce per fissurare e corrodere ogni ratiocinativa, fino ad accogliere dentro di essa le centrifughe geodesiche di immagini erranti sotto la demente crosta del linguaggio.
Nei fluidi recessi di quest’ultimo l’immagine è un’infestante germinazione d’intraducibile, emorragico tramarsi di metafore inferme che nel loro aporetico apparire riescono a significare solo in absentia la propria pitagorica inesprimibilità, perfettamente incassate nelle scheletriche e asfittiche schematizzazioni concettuali ove essa si insinua e formicola attraverso un concentrico crittogramma di sincopi semantiche proiettate sullo schermo del discorso, nel cui sussultorio sgranarsi la lingua diviene una rarefatta risacca di aereoliti figurali raggrumati intorno al muto mausoleo della parola.
L’immaginario che Ceronetti instilla nell’ordito del linguaggio è impregnato di una maestosa sapienza mortuaria. Ogni immagine si depone a fianco delle altre quasi a formare un corte di silenti prefiche che nel loro attonito disporsi attorno alla parola intessono una tremante ragnatela di forme crepuscolari, tutte prossime al loro definitivo sfacelo, quasi recitando una funebre pantomima nel corso della quale mettere in scena l’ineffabile movimento di una lacrima che solca il volto muto di una statua, l’estremo spasimo che tende e attraversa i muscoli di un lupo ferito a morte, l’ultima ora di luce che bagna la superficie di un pianeta solitario prima d’essere investito dall’inudibile esplosione di un sole ignoto.

L’ipotiposi qui non funziona più come figura retorica [28], ma brucia d’un fuoco tutto cerebrale per diventare icastica congerie d’epifanie liberate dal degenerare progressivo di un linguaggio ormai giunto alla propria sfolgorante decomposizione, arido rudere di franose ideografie nel cui rado idioma d’anodine cattedrali deduttive nidifica una densa congerie d’immagini posate sulle parole come petali di papaveri somministrati al lettore lotofago. Come afferma ancora Pascal Quignard nelle battute iniziali del primo volume dei Petits Traités:
il n’y a pas de lien entre le texte et l’image, sinon l’image du texte même. L’écriture — comme tout monde d’expression — cherche l’intransposable et les signes sont là, par fonction, pour suppléer l’objet qu’ils ont cessé de montrer et qui a disparu. Le propre des signes écrits est de ne pas montrer ce qu’ils désignent: ils signifient: ils règnent dans l’immontrable [29].
Proprio nel febbrile gorgo di questo immontrable la parola di Ceronetti s’inventa e s’inventra, così che se è vero che l’indicibile aleggia e vortica ai margini del linguaggio, è proprio ai margini dell’indicibile stesso che che si incripta la regione del non mostrabile, sebbene reso plasticamente corposamente avvertibile trasparendo dalle acide rugiade di una scrittura estrema [30] intessuta di visioni attinte dall’alveo informe di ciò che non può essere rivelato per imagines, ma solo convocato sulla scena immaginaria di un testo che funziona unicamente come icona aniconica, come saturato spazio ove veder ribollire un geometrico deserto di immagini iconoclaste.
Nella natura morta di questa scrittura estrema, ove si sovrappongono e si coniugano insieme — senza identificarsi e senza confondersi — l’alinguistico e l’immontrable, l’aniconico e il visionario, Ceronetti si colloca sotto le sembianze sericamente raccapriccianti di una enorme musca depicta nel cui terso sfarfallio degli ommatidi lo spettacolo della decrepitudine viene riprodotto e scomposto miriadi di volte, in una felice apocatastasis scopica di schegge che trafiggono il reale da innumerevoli angolature diverse, attraverso bruschi e improvvisi salti di scala, i quali portano il pensiero ad oscillare dalle descrizioni delle essiccate paludi lunari offerte dalle fotografie della NASA alla micrologica osservazione di un certosino decomporsi di civiltà, ricorrendo sovente ad un continuo e insistito slivellamento di piani temporali al fine di allineare in maniera forzosa fasci di eventi remotissimi gli uni dagli altri.
Ceronetti inocula la propria scrittura nella sontuosa decrepitudine che aggredisce corpi e luoghi, paesaggi e linguaggi, secernendo in essi interminabili filamenti di tempi morti lungo i quali egli si muove e scivola formando incongrue zone di transizione tra il modellato delle sculture di Martini e alcuni assunti delle filosofie orientali, sparigliando così ogni traiettoria di continuità cronologica sostituite da devastati diagrammi d’acronie di cui la sua scrittura scazonte diventa il primo e più penetrante referto.

Ceronetti fa tutto ciò al cospetto di tre figure [31] che presiedono a tale ferale parodia del perituro: la prima è lo ψυχoβoρóϛ, ovvero il divoratore di anima, colui che penetra in tutto ciò che è vivente facendone, dopo il suo felpato passaggio, insonne maceria schiumante memorie che Ceronetti abita come un ragno nel cuore della propria tela; la seconda figura è l’ειδωλoχαρηϛ, il sodale dei fantasmi, il collezionista delle tracce semi-estinte di tutto ciò che un tempo dava forma e senso a quelle macerie divenute ora gracili simulacri di vite ritrattesi nell’alveo dell’immemoriale; in ultimo troviamo il κευθμωνoχαρηϛ, il compagno degli abissi, colui che nella scrittura di Ceronetti occupa il centro occulto e pulsante, verso cui tutto ciò che egli sfiora viene improvvisamente e perversamente calamitato.
Ceronetti è filologo e fisiologo al tempo stesso, notomista implacabile di una Natura ischeletritasi in un polveroso dizionario di forme anchilosate e calcinate, compilatore scrupoloso di un proteiforme glossario adibito in ultimo a mostruoso ossario di una glossa divenuta oggetto di una dettagliatissima autopsia. Ne Il silenzio del corpo, a tal proposito, c’è un lungo passaggio che ben illustra questo bifrontismo carnalmente ascetico della scrittura di Ceronetti:
nello spazio che separa il Budda da Émile Littré c’è forse un punto dove potrei collocarmi. Il problema della salvezza (della vera sapienza) è svuotarsi, e io non faccio che seguire le mie curiosità libertine, mi riempio, divoro passato, inseguo spettri nei corridoi del Tempo. Ma la sapienza che vuole come supposta la kénosis mentale è la sola vera. Il resto è Desiderio, ricerca di distrazioni. Dio non può venire che nel cuore vuoto, concentrato in lui, non in cuore occupato da Dizionari. I Dizionari sono peccato sulla porta, pronto a slanciarsi. Facendo libri colti, a mia volta riempirò altri che mi cercheranno per distrarsi, credendo di cercarmi per sapere. Ma l’incomprensibile storia umana, i suoi enigmi e baratri ci fanno segno, ci indicano qualcosa al di là dello steccato, le vittime insanguinate delle battaglie spirituali e campali ci supplicano di vendicarle per mezzo del gesto che riflette, di fargli giustizia col pensiero, di trovare un senso, la cui privazione fa ululare le ombre, a quel libro inutile bruciarsi nell’esistenza. Così cerco di giustificare un imponente piacere, pietà di me. Budda dissolve l’indecifrabile come adiaforo. Littré sublime prostatico, inchiodato sulla sua poltrona, riunisce parole in un enorme elenco di significati: io sono un’alga buttata ora qua ora là [32].
La scrittura di Ceronetti è un immobile naufragio nelle desolate plaghe di una lingua che ormai riesce solo a mormorare le cose, senza più significarle, smarrita quindi nel torbido dominio di un segno acefalo in cui l’oggetto è soltanto la rancida penombra che ha inghiottito ciò che la parola si sforzava di designare, finendo così per additare la placida lacuna in cui Ceronetti lascia lentamente apparire ciò che, recalcitrante rispetto ad ogni forma di manifestazione diretta, si mostra unicamente nell’epilettico squamarsi della sclera dell’invisibile...

NOTE
[1]. G. Ceronetti, La pazienza dell’arrostito. Giornale e ricordi (1983-1987), Adelphi, Milano 1990, p. 133-134. Corsivi nostri. Da ora sempre abbreviato in PA, seguito dal numero di pagina.
[2]. E. Bloch, Spirito dell’utopia, ed. it. a cura di V. Bertolino e F. Coppellotti, la Nuova Italia, Firenze 1980, p. 184.
[3]. PA, p. 134.
[4]. Ivi, p. 274.
[5]. Ivi, p. 127.
[6]. G. Ceronetti, L’occhiale malinconico, Adelphi, Milano 1988, pp. 11-24. Va notato che L’occhiale malinconico e La pazienza dell’arrostito nascono più o meno nello stesso periodo. Da ora sempre abbreviato in OM, seguito dal numero di pagina.
[7]. Ivi, pp. 129-158.
[8]. PA, p. 18.
[9]. Termine latino dal De divinis nominibus (IV, 18) dello pseudo Dionigi, cfr. Dante, La Divina Commedia, Paradiso, a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia, Firenze 1957, p. 174.
[10]. OM, p. 147.
[11]. Rimandiamo qui alle stupende analisi di Gianfranco Contini in merito alle possibilità di stilare con buona approssimazione il profilo di un espressionismo letterario di respiro internazionale, cfr. G. Contini, Ultimi esercizi ed elzeviri, Einaudi,Torino 1987, pp. 41-105.
[12]. PA, p. 262.
[13]. OM, pp. 137-138.
[14]. Cfr. K. Jaspers, Il linguaggio. In appendice Sul tragico, ed. it. a cura di D. di Cesare, Guida Editori, Napoli 1993, pp. 115-116: «un pensiero alinguistico sembra esistere come germe e come paesaggio. Forse il momento decisivo del conoscere, il salto nel nuovo, l’abbrivio, l’atto previo del capire originario ha luogo nel pensiero alinguistico. Ma quel che viene afferrato qui in germe, non si comprende senza il linguaggio, né si sviluppa senza di esso. Non è in fondo una anteriorità, né del pensare al parlare, né del parlare al pensare; piuttosto il germe è il luogo della creazione linguistica. È come un intendere e un afferrare anteriore al linguaggio che nondimeno si realizza immantinente e solo nel linguaggio. Pensare e parlare sono tutt’uno, il loro sviluppo è sviluppo dell’uno con l’altro. Solo il limite è quel luogo della creazione linguistica, quel germe che sembra risiedere al di là del linguaggio e che tuttavia si palesa solo come linguaggio. Perciò tutto quel che è afferrare, capire, vedere, anela in noi all’espressione linguistica perché solo in essa diviene chiaro e certo. Quando il linguaggio viene ancora cercato, ci sentiamo inerti nell’indeterminato».
[15]. Per il termine tutto ceronettiano /geofonia/cfr. OM, pp. 203-204.
[16]. Ivi, p. 202.
[17]. Ibid.
[18]. PA, p. 288.
[19]. Ivi, p. 159.
[20]. Ivi, p. 24, ove l’autore scrive «Fatiscere il più bel verbo della Latinità».
[21]. Ivi, p. 316.
[22]. Per questo termine, cfr. G. Bachelard, La terre et les rêveries du repos, José Corti, Paris 1947, pp. 284-285.In queste pagine Bachelard si sofferma sull’opera di Lautréamont.
[23]. Rimandiamo alla struggente vicenda relativa alla morte del gattino Petalo riportata dallo stesso Ceronetti in PA, pp. 286-289.
[24]. E. Bloch, Spirito dell’utopia..., pp. 216-267.
[25]. PA, p. 137.
[26]. Ivi, p. 70.
[27]. P. Quignard, Rhétorique spéculative, Folio Classique, Gallimard, Paris 1995, pp. 13-14.
[28]. Ceronetti qui si rivela molto prossimo al Nietzsche del noto scritto giovanile Su verità e menzogna in senso extramorale, cfr. W. F. Nietzsche, Tutti gli scritti (1870-1881), vol. I, Newton Compton Editori, pp. 93-101.
[29]. P. Quignard, Petits Traités I, Folio Classique, Gallimard, Paris 1990, pp. 131-132. Corsivi nostri.
[30]. Riprendiamo qui la bella espressione di Franco Rella, cfr. F. Rella, Scritture estreme. Proust e Kafka, Feltrinelli Milano 2005. Naturalmente modifichiamo notevolmente il campo d’applicazione dell’espressione relliana.
[31]. Rimandiamo ancora a P. Quignard, Petits Traités II..., p. 463. Le tre figure sono un’invenzione di Sinesio di Cirene.
[32]. G. Ceronetti, Il silenzio del corpo. Materiali per studio di medicina, Adelphi, Milano 1986, pp. 107-108. Corsivi dell’autore.




Bartolomé Bermejo, La discesa di Cristo agli inferi (part.), MNAC, Barcellona
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