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Storia de La main de feu, ovvero gli insegnamenti de Le voyage angoissant (o L’énigme de la Fatalité) di Giorgio de Chirico in Nadja di André Breton*
di Jean Arrouye

(Traduzione di Giuseppe Crivella)




Il problema che qui ci interessa — la funzione della riproduzione del quadro di de Chirico L’angoissant voyage ou L’énigme de la fatalité [1] in Nadja — comincia con l’apparizione di una mano di fuoco che ossessiona Nadja fino a quando quest’ultima non la ritrova proprio nel quadro. La sera del 6 ottobre 1926 lei è in compagnia di André Breton sulle rive della Senna e, notando «sur le fleuve à cette heure étincelant de lumières» una mano di fuoco, esclama: «cette main, cette main sur la Seine, pourquoi cette main qui flambe sur l’eau? [.] Mais que veut dire cette main? Comment l’interprètes-tu?» (697) [2].
Apparentemente Breton non tiene per nulla conto di ciò che Nadja vede, o piuttosto crede di vedere, come suppone l’uomo, così come delle questioni che lei pone di conseguenza. Tuttavia il 10 ottobre delle nuove mani attirano lo sguardo di Nadja. Presso rue de la Seine, a Breton che si sorprende della distrazione della donna, quest’ultima dichiara di «suivre sur le ciel un éclair qui trace lentement une main». Il testo riporta nello stesso modo il seguente commento: «toujours cette main», senza però poter sapere se tale valutazione — la quale lascia intendere che, seppur sotto apparenze diverse, sia sempre la stessa entità a manifestarsi — sia di Nadja o di Breton. Tuttavia tale lampo ossimorico, dal lento tracciato, può solo rinforzare lo scetticismo su questa mano percepita da Nadja da parte di chi si è augurato che il senso della sua vita fosse fissato attraverso «des éclairs qui feraient voir, mais alors voir, s’ils n’étaient encore plus rapides que les autres» (652).

Ma ecco che Nadja gli mostra «réellement [cette main] sur une affiche, un peu au-delà de la librairie Durbon [...]. Il y a bien là, très au-dessus de nous, une main rouge [donc de feu] à l’index pointé, vantant je ne sais quoi» (707). Il modo in cui Breton riferisce questa presenza suggerisce che, vedendo infine realmente la mano — vedendo cioè finalmente una mano reale — egli ammette questa volta la realtà delle apparizioni precedenti colte da Nadja. E di colpo queste entrano di fatto nella categoria delle reduplicazioni di eventi, «pétrifiantes coïncidences» (651), di cui Breton riporta numerosi esempi: il doppio incontro con Paul Éluard, inizialmente in incognito, in occasione della prima presentazione di Couleurs du temps di Apollinaire presso il Conservatorio Renée Maubel e poi, ormai palese, quando questo si reca presso la casa di Breton; l’interpretazione simbolica «presque sous la même forme» (698), dello sprizzare e del ricadere del getto d’acqua di una fontana additata da Nadja la notte del 6 ottobre nel giardino delle Tuileries e da Berkeley nel Dialogo tra Hylas e Philonous che Breton ha appena terminato; il fatto che il vagare di Breton e Nadja la notte del 6 ottobre li conduca da Place Dauphine al bar Le Dauphin; l’analogia infine, durante le passeggiate dal percorso non premeditato, tra la facoltà di Nadja di percepire la presenza di mani di fuoco e la strana vocazione per le prospezioni che permette a Breton di prevedere ove si trovino le boutiques di Bois-Charbons. Ciò lo porta ad ammettere che queste apparizioni di mani di fuoco fanno parte di quegli avvenimenti in merito a cui egli aveva detto che «fussent-ils de l’ordre de la constatation pure, [ils] présentent chaque fois toutes les apparences d’un signal, sans qu’on puisse dire au juste quel signal» (652)
Ma Nadja, dopo aver toccato il manifesto — «il faut absolument qu’elle touche cette main, qu’elle cherche à atteindre en sautant et contre laquelle elle parvient à plaquer la sienne» (707) — come facevano il pellegrini nel Medioevo con le reliquie, o perlomeno i loro contenitori, per assimilare le virtù profilattiche e salvatrici che si riteneva esse dispensassero, indirizzandosi a Breton pronostica — come già lo aveva fatto davanti a una finestra in Place Dauphine — ciò che deve essere, decidendo in tal modo di che cosa sia il segnale questa riapparizione della mano di fuoco: «la main de feu, c’est à ton sujet, tu sais, c’est toi [.]; André? André?. tu écriras un roman sur moi. Je t’assure. Ne dis pas non. Prends garde: tout s’affaiblit, tout disparaît. De nous il faut que quelque chose reste» (707-8). E chi ha letto Nadja sa quanto queste obiurgazioni non saranno prive di efficacia.

Ciò naturalmente si riverbera anche sullo statuto delle immagini fotografiche inserite da Breton nel suo libro. Fino a quel punto la loro funzione era di testimonianza o di attestazione; esse avevano un valore di natura soprattutto memoriale. Il manifesto appena evocato — non rappresentato fotograficamente perché di certo era scomparso allorché Breton si preoccupa di riunire le prove indiziali delle circostanze della sua avventura — possiede una dimensione emblematica ( «la main de feu [.], c’est toi») e augurale ( «l’index pointé», ne fa un segnale di investitura, che modifica in ingiunzione la predizione di Nadja: «tu écriras un roman sur moi»). Certo, molte immagini che stanno per apparire nel romanzo conservano una natura memoriale (l’hotel Sfinge, il castello Saint-Germain, il busto di Becque, tra gli altri), ma le immagini di immagini, fossero anche sotto forma di un’evocazione scritta come capita per il manifesto, le fotografie dei disegni di Nadja e delle opere d’arte della collezione di Breton rimandano tutti, almeno per la donna, ad una realtà diversa da quella che essi raffigurano: «La fleur des amants [è] un symbole graphique [...]; le dessin, daté du 18 novembre 1926, comporte un dessin symbolique» di Nadja e di Breton; «Le salut du Diable, ainsi que Le rêve du chat, rendent compte d’une apparition [...]. In un quadro di Braque, Le Joueur de guitare» essa riconosce degli elementi analoghi a quelli che appaiono nei suoi disegni, «un masque conique, en moelle de sureau rouge et roseaux, de Nouvelle Bretagne, [la] fait s’écrier: Tiens, Chimène [...]! [3] Un autre fétiche [est] pour elle le dieu de la médisance» (727) ecc
In merito a tali immagini Nadja manifesta un potere simile a quello che lei ha dimostrato altrove e che suscita meraviglia in Breton: quello di scoprire un al di là dell’apparenza delle cose viste e delle situazioni vissute. Lei attribuisce alle immagini un senso secondo, risveglia le opera d’arte assopite, divenute elementi decorativi di un universo domestico, risemantizzandoli nuovamente tramite il suo sguardo e la sua parola, riferendo a se stessa e ai suoi rapporti con Breton ciò che essi rappresentano. Messe così in rapporto con la relazione in corso dei due personaggi, tali opere rivelano la preoccupazione di Nadja e fanno scoprire la sua inquietudine rispetto all’avvenire. [4]

Ciò è vero soprattutto per quanto riguarda il quadro triangolare di Giorgio de Chirico L’Angoissant Voyage ou L’Énigme de la Fatalité, nel quale Nadja riconosce «la fameuse main de feu» (727) che sappiamo rappresentare emblematicamente André Breton dal momento in cui lei ha dichiarato a quest’ultimo quale fosse ai suoi occhi il senso del manifesto di rue de la Seine. E quindi non possiamo evitare di pensare che questo quadro riguardi anche la giovane donna. A margine di un testo di una conferenza del 1924 pubblicato ne Les pas perdus Breton constatava che «de Chirico apparaît aussi comme un prophète. Ce maître de l’énigme laisse à chacun toute liberté de se projeter dans ses tableaux et d’y lire, avec l’angoisse de son devenir, ses plus obscures émotions» [5]. È quindi legittimo credere che ciò è proprio quello che Nadja è indotta a fare con questo quadro
All’inizio di Nadja, nel commento che egli stila del quadro di de Chirico — commento che appare come un consiglio indirizzato a chi vorrà decifrare l'opera in seguito riprodotta — Breton sottolinea l’importanza della disposizione degli oggetti, al fine di comprendere «un univers [qui] va contre l’ordre prévu, dresse une nouvelle échelle des choses»; inoltre egli afferma che, per fare ciò, «y aurait lieu de fixer l’attention critique sur ces objets eux-mêmes et de rechercher pourquoi, en si petit nombre, ce sont eux qui ont été appelés à se disposer de la sorte» (649). Nella sua conferenza del 1924 Breton aveva anche notato che tali oggetti sono dei simboli: «ce peintre [.] nous tient sous le coup d’une trop émouvante promesse pour que jamais nous puissions nous détourner de lui avec indifférence. C’est en effet à de Chirico que nous devons la révélation des symboles qui président à notre vie instinctive» [6]. E Maurizio Fagiolo dell’Arco segnala ancora che essi sono «des objets inquiétants, gants, accessoires de couture, trop vides, trop inoccupés, images de solitude, d’abandon ou de deuil» [7]. Osservazione simile era stata fatta da Apollinaire nel 1914: «Giorgio de Chirico vient d’acheter un gant de caoutchouc rose qui est une des marchandises les plus impressionnantes qui soient à vendre. Il est destiné, copié par l’artiste, à rendre plus émouvants et effroyables que ne le sont ses tableaux passés, ses ouvres de l’avenir» [8]. Tutte queste osservazioni autorizzano il lettore a supporre che cosa il quadro debba rappresentare per Nadja.

La mano di fuoco poggia su di un piano rettangolare — piano di un tavolo, forse — suddiviso in quadrati alternati bianchi e neri, che fa pensare a una scacchiera di quei giochi dai nomi simbolici, nonché ad un incursione nel mondo contemporaneo, rappresentato schematicamente da immobili ad arcate e dal comignolo della fabbrica, «livré aux hasards», come Breton all’inizio del libro si augura che sia la sua vita (651). D’altro canto essa sembra una mano artificiale articolata in modo tale da suggerire una possibile incapacità di agire in maniera risoluta. Tale simbolo della presenza di Breton si accompagna al sentimento che questa sia sottesa da indecisione e suscettibile di fallimento. La «disposition d’objets», come la chiama Breton, istituita da de Chirico produce una di quelle «suppositions figuratives nées de la juxtaposition d’objets d’apparence inoffensive» che Salvador Dalì in un testo del 1928 considera caratteristiche della pittura di Giorgio Morandi, Max Ernst e Giorgio de Chirico la cui «calme [.], quiétude [e] statisme» sono in effetti, precisa l’autore, «un statisme et une quiétude dramatiques parce que menacés à tout instant» [9]
Una simile inquieta incertezza si scopre proprio esaminando il paesaggio circostante. Seguendo le analisi di Marguerite Bonnet possiamo dire che proprio come nello scenario dinanzi al quale passano tutti giorni Victor Hugo e Juliette Drouet «le rapport de la porte cavalière à la porte piétonne [est] comme une image du rapport de Hugo à Juliette, tel qu’il apparaît dans leur correspondance» (1524, p. 648, n. 4), nello stesso modo nello scenario che costituisce lo sfondo della mano di fuoco posata sul piano a riquadri bianco/neri il rapporto dei due prefabbricati è come il rapporto tra Breton e Nadja. Come nota ancora Marguerite Bonnet, proprio qui abbiamo «une façon de plus, de nouer secrètement d’un point à l’autre du récit — ici, d’un couple à l’autre — un de ces fils que sa volontaire discontinuité dérobe» (1558, p. 748, n. 1), ma che contribuisce a creare l’impressione in base alla quale i due protagonisti del racconto vivono un’avventura eccezionale. I due immobili tendono l’uno verso l’altro ma non si riuniscono mai. Inoltre essi non sono sottoposti al medesimo regime prospettico, generando una dissomiglianza che equivale all’assenza di prospettiva comune tra Breton, che non prova amore per Nadja, e quest’ultima che invece è mossa un appassionato trasporto nei confronti dell’uomo.

Senza orizzonte visibile, il camino — che in questo quadro dai colori radi ed ognuno circoscritto al proprio oggetto distinto dagli altri, si associa proprio in forza della sua cromia ocra-rossastra alla mano rossa (detta di fuoco, cosa che induce ancor di più ad associare i due oggetti) — impedisce che si veda al di là di esso. Jean Clair fa notare che la riproduzione pittorica di un tale oggetto provocava un effetto molto più forte nel tempo in cui de Chirico dipingeva questo quadro: «sans doute ne peut-on imaginer, aujourd’hui qu’elles ont été démolies ou rejetées dans de lointaines banlieues, l’impression produite sur l’homme du début du XXe siècle par la vision de ces hautes tours [.] qui commençaient de hérisser le paysage traditionnel des cités, se substituant aux clochers et aux tours et dominant de leur masse les maisons»
Egli ricorda anche in relazione all’«inquiétude de la cheminée, [à] sa brutale intrusion dans la culture fin-de-siècle, [che] Guillaume Apollinaire, en 1913, [.] s’était pris d’enthousiasme pour ces symboles d’une virilité qui, haut dressée et pavoisée, fécondait dans Alcools la mythologie du monde des machines:

«Les viriles cités où dégoisent et chantent
Les métalliques saints de nos saintes usines
Nos cheminées à ciel ouvert engrossent les nuées
Comme fit autrefois l’Ixion mécanique» [11]

Nel film di Jean Vigo e Boris Kaufmann À propos de Nice del 1929 i comignoli delle fabbriche diventano allo stesso modo dei simboli fallici. La stessa cosa capita nel quadro di de Chirico. Il camino raffigura il desiderio di Breton. Dal momento che le due linee di fuga più evidenti degli immobili si ricongiungono su di esso e in forza della sua posizione centrale, che obbliga lo sguardo ad arrestarsi (a fissarsi?) su di esso, Nadja — che propone una lettura del quadro nel quale essa progetta la sua insoddisfazione e la sua nostalgia — è portata a concludere che non ci sarà con Breton una relazione — che essa sperava pienamente amorosa — se non legata alla soddisfazione di questo desiderio. «L’inquiétude de la cheminée», per dirla con Jean Clair, è legata al fatto che le buone risoluzioni, con le quali il 7 ottobre Breton, credendo di rassicurarla, in effetti rassicurava se stesso — «Il serait impardonnable [.] que je ne la rassure pas sur la sorte d’intérêt que je lui porte, que je ne la persuade pas qu’elle ne saurait être pour moi un objet de curiosité, comment pourrait-elle croire, de caprice» (701) — non hanno prodotto l’effetto sperato; o forse questa inquietudine dipende dal fatto che essa si ingannava sulla sua capacità di mantenere in maniera durevole un’indifferenza volontaria (come volontaria era la condizione di servitù intorno alla quale uno dei suoi illustri predecessori in letteratura s’interrogava rispetto alle ragione del suo durevole mantenimento).
Come con la giovane fanciulla con cui egli aveva giaciuto a Nantes nel 1915, Breton al termine della sua avventura con Nadja potrà credere di aver raggiunto «une cime où [il a] côtoyé l’irrésistible» [12]. Se è vero che «ces hommes qui se laissent enfermer la nuit dans un musée pour pouvoir contempler à leur aise [.} un portrait de femme [.] ensuite [savent] de cette femme beaucoup plus que nous n’en savons » (716), come potrebbe Nadja sbagliarsi su Breton che essa frequenta con una certa assiduità e interpretar male il quadro che lei «déchiffre comme un cryptogramme» (716)? Esso è per lei «souvenir du futur» [13], che le conferma che lei non potrà godere dell’«or du temps».

Nadja guarda le opere dipinte o scolpite, e in particolare questa qui, come degli specchi, specchi magici, come quello che consulta la marâtre di Biancaneve per conoscere passato e futuro. Non dobbiamo quindi sorprenderci del fatto che tale consultazione non risulti soddisfacente. Tali specchi permettono di conoscersi e di regolare il proprio rapporto col mondo piuttosto che conoscere il mondo. Scopriamo così una concezione originale della pittura, e più in generale della funzione della pittura che René Passeron, grande conoscitore della pittura surrealista, espone in questi termini: «Si la peinture est connaissance, comme l’ont toujours souhaité les surréalistes, [elle] creuse devant nous un miroir; par elle, nous prenons conscience. Nous la regardons et c’est nous même que nous connaissons» [14]. Tale concezione fa delle opere d’arte figurativa dei compendi dell’esperienza vissuta che hanno il vantaggio di sostituire al disordine della vita, sottoposta al caso degli incontri e degli eventi, un’immagine di quest’ultima ordinata e stabile. Possiamo quindi sperare che la loro contemplazione, attraverso il filtro dell’interpretazione simbolica — analisi freudiana e interpretazione paranoico-critica — permetta a chi li contempli di accedere ad una comprensione del proprio destino, in modo da poter mettere in ordine i propri sentimenti al fine di decidere più lucidamente in merito alle condotte venture.
È per questo motivo che quando William Rubin scrive «[les surréalistes] se préoccupaient presque uniquement du contenu imagé de l’ouvre» [15], bisogna ricordarsi che tale contenuto immaginato non è immediatamente interpretabile come lo mostra in maniera indubitabile Mais les hommes n’en sauront rien di Max Ernst (732) [16], riprodotto in Nadja, così come la maggior parte dei quadri surrealisti. Per questo motivo, ciò che dice Jacques Rancière dell’arte moderna ne Le destin des images si applica molto bene in particolar modo alla pittura surrealista: «les mots et les formes, le dicible et le visible, le visible et l’invisible se rapportent les uns aux autres selon des procédures nouvelles. Dans le régime des arts, qui se constitue au XIXe siècle, l’image n’est plus l’expression codifiée d’une pensée ou d’un sentiment. Elle n’est plus un double ou une traduction, mais une manière dont les choses parlent et se taisent. Elle vient, en quelque sorte, se loger au cour des choses comme leur parole nouvelle» [17].

René Passeron ha dedotto la sua definizione della pittura dall’esame dell’opera di André Masson aggiungendo che la conoscenza che essa procura «entraîne un bonheur allègre» [18]. Non è certo il caso di Nadja che sperimenta piuttosto un dolore amaro. «Livré[e] à la fureur des symboles» (714), lei scopre osservando il quadro di André Breton che la sua avventura si è sviluppata in una maniera conforme a quella in cui essa si è presentata a lei il giorno del loro incontro. Lei gli ha detto di aver scelto di farsi chiamare «Nadja, parce qu’en russe c’est le commencement du mot espérance, et parce que ce n’en est que le commencement» (686). Ora però lei ha ormai perso la speranza di farsi amare veramente - follemente - da Breton e non le resta che sperare nell’inizio illusorio di un’avventura senza alcuna possibilità di seguito.
All’esplosione della torre Manoir d’Ango e «della chute déchirée des colombes», così come lo dice in maniera molto precisa Margurite Bonnet (1541), menzionate quando Nadja stava per entrare in scena, corrisponde, secondo il principio del fil dérobé, la rinuncia presente di Nadja ad essere amata. Nello stesso modo si potrebbe pensare che i titoli dell’opera di de Chirico caratterizzino perfettamente la situazione di Nadja: l’Angoissant voyage è quello che condurrà Nadja e Breton a Saint-Germain-en-Laye affinché si realizzi ciò che il quadro predice; l’Énigme de la Fatalité è quello delle modalità della fine della loro storia: ancora pietrificanti coincidenze.
Le fotografie dei disegni di Nadja e le opere collezionate da Breton permettono di comprendere le osservazioni e i commenti di Nadja infinitamente meglio di come l’avrebbero permesso le loro descrizioni. Poiché descrivere un’opera visiva è un’impresa utopica, irrealizzabile. Il discorso non è in grado di tenere testa alla profusione delle cose presenti in un quadro foss’anche di semplice composizione come quello di de Chirico, così come non riesce a rendere conto di tutti i rapporti possibili tra i costituenti dell’opera, o di tutte le disposizioni d’oggetti osservabili. La fotografia permette di sostituire a una descrizione necessariamente incompleta e incerta un’immagine che permette di conoscere l’opera globalmente (anche se le costrizioni tecniche o economiche fanno passare da un oggetto in rilievo, a colori e dalla percezione netta ad un’immagine piatta, grisailleuse e di mediocre qualità). In ciò essa favorisce la percezione dei rapporti interni tra visibile e dicibile, ovvero permette di transitare dalla constatazione della realtà visiva delle opere all’instaurazione di un discorso interpretativo, cosa che — per Rancière — è necessario per le opere moderne.

Ma anche le riproduzioni fotografiche permettono di stabilire dei rapporti esterni tra dicibile e visibile, ovvero tra il racconto scritto e le riproduzioni fotografiche dei luoghi e delle opere. Non solo le fotografie danno a vedere ciò che l’autore non potrebbe descrivere, ma nel caso de L’Angoissant Voyage ou L’Énigme de la Fatalité l’inserzione nel testo della riproduzione di questo quadro permette di conoscere ciò che Breton non ha intenzione di raccontare. La relazione dialettica stabilita tra l’immagine e il testo gli permette di restare fedele al suo progetto di rispondere senza tentennamenti alla questione posta in all’inizio del suo libro: «Qui suis-je ?», senza con ciò dover diffondersi in merito a tutto ciò che di mediocre si mescola al suo desiderio di riportare unicamente «les épisodes les plus marquants de [s]a vie telle qu[’il] peu[t] la concevoir hors de son plan organique» (651). L’utilizzo delle immagini e l’idea di prendere in considerazione la «manière dont les choses parlent et se taisent» fanno parte di una sorvegliata strategia narrativa: ciò che il quadro dà a conoscere simbolicamente non diverrà oggetto di una esposizione discorsiva; la menzione della fine della relazione tra Breton e Nadja potrà essere ellittica e il fatto che nel prosieguo egli conoscerà l’amore sotto un altro aspetto potrà essere annunciato dal blu che viene a scoprirsi nel quadro di de Chirico, al di là della mano di fuoco e del suo sfondo fuori contesto.


[*]. Pubblicato per la prima volta con il titolo Histoire de la main de feu ou les enseignements de l’angoissant voyage ou l’énigme de la fatalité de Giorgio De Chirico dans Nadja, in Mélusine XXXVII, numero unico 2017, a cura di Henri Béhar e Françoise Py, Atti del convegno internazionale a Cerisy-la-Salle del 2016, ed. L’Age de L’Homme.

[1]. Giorgio de Chirico, L’Angoissant Voyage ou L’Énigme de la Fatalité, 138 x 98,5 cm, Bâle, Kunstmuseum.
[2]. Per evitare un numero troppo elevato di rimandi in nota, inseriamo tra parentesi nel corso del testo la paginazione delle opere citate di Breton tratte dall’edizione delle Ouvres complètes, Paris, Gallimard, t. I, 1988.
[3]. Cfr. J. Arrouye, «La photographie dans Nadja», in Mélusine IV, 1983.
[4]. Che essa si sia «maintes fois représentée sous les traits de Mélusine» (727) è rivelatrice di questa inquietudine. È noto che le relazioni amorose della donna-serpente si concludono sempre molto male.
[5]. Cfr. A, Breton, «Caractère de l’évolution moderne et ce qui en participe», conferenza del 17 novembre 1924 presso l’Ateneo di Barcellona, ripreso ne Les Pas perdus, Paris, NRF, 1924.
[6]. Ibid.
[7]. M. Fagiolo dell’Arco, «De Chirico à Paris, 1911-1925» in De Chirico, Paris, Centre Pompidou, 1983.
[8]. G. Apollinaire, in M. Fagiolo dell’Arco, «De Chirico à Paris, 1911-1925», op. Cit. Tale guanto appare in Chant d’amour, 1914, 73 x 59,1 cm, New York, The Museum of Modern Art. Altrove troviamo un guanto di pelle, per esempio ne Les distractions d’une jeune fille, 1916, 47 x 40 cm, New York, The Museum of Modern Art. Tali guanti, di plastica o pelle, rosa, rossa, o rosso-scura, sono delle variazioni plastiche della mano di fuoco ma non possono essere associate a Breton come il guanto de L’Angoissant Voyage ou L’Énigme de la Fatalité.
[9]. S. Dali, «Nouvelles limites de la peinture», L’Âme des Arts n° 22, 29 février 1928.
[10]. Breton e Nadja vedono il quadro nella sua realtà colorata.
[11]. J. Clair, «Dans la terreur de l’Histoire», De Chirico.
[12]. Lettera ad André Pris du 27 ottobre 1915, in P. Allain, «Nantes qui me hante», in Mélusine XXXVII, 2017.
[13]. A. Breton, Introduction au Discours sur le peu de réalité, Paris, Gallimard, 1927.
[14]. R. Passeron, André Masson, Paris Denoël, 1975.
[15]. W. Rubin, «De Chirico et la modernité», De Chirico.
[16]. M. Ernst, Mais les hommes n’en sauront rien,1923, 80,3 x 63,8 cm, Londres, Tate.Gallery.
[17]. J. Rancière, Le Destin des images, Paris, La Fabrique, Paris 2014, p. 21.
[18]. R. Passeron, André Masson.


Jean Arrouye è professore emerito presso l’Università d’Aix-Marseille dove è stato docente di semiologia dell’immagine. Dal 1982 al 1997 è stato inoltre docente di semiologia della fotografia presso l’École Nationale Supérieure de la Photographie d’Arles, organizzando ogni estate in occasione dei Rencontres Internationales de la Photographie gli ateliers di interpretazione dell’immagine fotografica. Dal 1988 al 2000 ha insegnato estetica e storia dell’arte presso l’École Supérieure d’Art de La Réunion. Con l’editore Bernard Muntaner ha creato la collezione Iconotextes ogni volume della quale riunisce una serie di interventi critici di orientamento diverso diretti all’interpretazione di una stessa opera d’arte. Tra le sue opere ricordiamo soprattutto Les métaphores photographiques (2004, con Jean-Pierre Amar), La photographie au pied de la lettre (2005), Eloquence de la peinture. Figures seules et en couple (2013).


Giorgio De Chirico, L'énigme de la fatalité (1914).
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