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Michel Foucault: Una piega nello spazio

di Anna Mastrini

10 luglio 2020


1. Spazi e contro-spazi

Abitudinario e confortevole sono solo un paio degli aggettivi che solitamente affiancano ciò che comunemente definiamo come spazio, ma cosa accade nell’istante in cui ciò che dovrebbe apparirci come rassicurante e sicuro assume invece le sembianze di una fitta rete dalla quale non vediamo vie di fuga? Cosa accade quando i perimetri non vengono più associati alla prudenza ma piuttosto ad un limite? In altri termini, cosa possiamo fare dinnanzi ad un mondo che non ci si presenta più come mera accoglienza ma, al contrario, come una grande trappola?

A partire da queste considerazioni poco confortanti e da questo spazio che si mostra più come un reticolo che come un paesaggio, le parole di Foucault emergono come un rimbombo, come un impetuoso rumore di sottofondo. Queste ultime provengono da una breve conferenza radiofonica tenuta dal filosofo francese nel 1966: Eterotopie, attraverso la quale egli descrive tutta una serie di spazi Altri che affollano il nostro quotidiano, piccoli sentieri secondari e avvallamenti nascosti nelle incrinature del canonico spazio, delle faccende quotidiane e dei rigidi confini. In altre parole Foucault mostra una fessura in quel solido e imponente muro verso il quale per tutto questo tempo lo sguardo comune si è rivolto, indicandone una prospettiva nuova e inaspettata in grado di spingersi un poco più in là della superficiale visione canonica dello spazio.

Attraverso le sue parole Foucault dà il via ad un’indagine che muove i suoi passi ben più in là dei tragitti che siamo soliti percorrere, ben più in là dei paesaggi che siamo soliti osservare, proiettando il suo pensiero come uno sguardo tutto nuovo sul mondo.
Viviamo nell’epoca del simultaneo, nell’epoca della giustapposizione, nell’epoca del vicino e del lontano, del fianco a fianco, del disperso. Viviamo in un momento in cui il mondo si sperimenta, credo, più che come un grande percorso che si sviluppa nel tempo, come un reticolo che incrocia dei punti e che intreccia la sua matassa. [1]
Così Foucault prende parola nella conferenza di Tunisi del 1967 discostandosi dall’ossessione maggiormente sentita nel XIX secolo per la storia, per il suo sviluppo e il suo corso temporale. Egli decide di soffermarsi invece sul fatto che la nostra epoca sia a tutti gli effetti un’epoca dello spazio. La nostra società è caratterizzata dunque da linee, tracce e direzioni, da luoghi, strategie e piegamenti. Per questo motivo egli pone la sua attenzione in particolar modo su questa questione, convinto del fatto che «l’inquietudine d’oggi riguardi fondamentalmente lo spazio, che appare indubbiamente ben più piegato di quando non lo sia il tempo» [2].

Foucault nel corso di questa conferenza delinea a ritroso tre momenti storici principali dello spazio: lo spazio medievale come spazio della localizzazione, ovvero quell’insieme gerarchizzato di luoghi sacri, profani, aperti, chiusi, urbani, rurali, e così via nel quale ogni spazio è geograficamente localizzato nella società. Successivamente la prima modernità è caratterizzata da uno spazio dell’estensione nel quale attraverso l’opera di Galilei si istituisce uno spazio infinito e infinitamente aperto, uno spazio della moltitudine, che sostituisce quello spazio precedente attentamente gerarchizzato. Infine lo spazio attuale secondo Foucault è uno spazio della dislocazione, ossia definito da «relazioni di prossimità tra punti o elementi; formalmente, si può descriverli come delle serie, degli alberi, dei tralicci» [3].

La nostra è un’epoca della dislocazione nella quale troviamo spostamenti, difetti, pieghe, rovesciamenti di uno spazio apparentemente perfetto e quadrettato. Quest’ultimo è quello che Foucault definisce come dispositivo o quadrillage, ossia una vera e propria arte della ripartizione che organizza, frammenta, ordina e incasella spazi trasformando la confusa e pericolosa moltitudine in un ordine modellato, funzionale e produttivo.
Gli individui si trovano così in un regime di potere che gestisce meticolosamente lo spazio, che lo divide e lo modella in funzione del dispositivo nel quale gli uomini non sono altro che piccoli ingranaggi funzionali al movimento della grande macchina. Si stratta di un sistema di controllo che si attua con la creazione di determinati spazi come le prigioni o le cliniche psichiatriche necessarie per allontanare i criminali, i folli, gli anormali dalla società e successivamente rinchiuderli in luoghi appositi per il loro controllo e la loro manipolazione.

Questo stretto legame tra il potere e lo spazio, e come lo spazio non sia altro che una dimensione del potere, viene dettagliatamente affrontato in molte delle sue opere come Sorvegliare e punire o in Storia della follia dove rispettivamente vengono descritte dinamiche di potere nelle prigioni e nei manicomi la cui efficacia però è alla fine minata. Quello che mostra in queste opere Foucault non è tanto un potere vincente, bensì una complessificazione delle relazioni di potere, delle forze e delle strategie che si instaurano nella società, delle collisioni, delle sovrapposizioni e dei rovesciamenti che si attuano nel corso della storia e di come questo dispositivo non sia perfetto e nemmeno immune al cambiamento. Questa prospettiva del pensiero foucaultiano viene affrontata in modo dettagliato da Géraldine Brausch, professoressa di filosofia all’università di Liège, in uno dei suoi articoli del 2012, Logiche del potere e logiche spaziali in Michel Foucault, nel quale descrive il rovescio delle tecniche disciplinari che abitano i dispositivi sociali mostrando, con le sue parole, le reali intenzioni del filosofo francese:
Foucault afferma dunque che le tecniche disciplinari sono, almeno potenzialmente, non efficaci, o meglio che possiedono un’efficacia inversa. Esse non realizzano gli obbiettivi che enunciano, ma quelli che non enunciano, o meglio ancora, quelli inversi a loro. Questo non vuol dire che non funzionino mai e che, in fondo, le tecniche disciplinari siano sempre fallimentari rispetto ai loro scopi espliciti. [.] Insistendo però sulla parte di fallimento, Foucault mostra una storia non necessaria, non meccanica; una storia spessa, non teleologica, composta da una moltitudine di strategie. [4]
Una tale prospettiva mostra come in realtà non ci siano necessità universali nella vita degli individui, come non ci siano dogmi, confini o tradizioni. Le origini della storia non sono prestabilite e tutto ciò che fa parte del paesaggio abitudinario, tutte le istituzioni e le dinamiche di potere sono soltanto il risultato di precisi mutamenti storici.

Occorre dunque discostarsi da una prospettiva kantiana la quale presuppone precise categorie universali nelle quali vengono inseriti elementi e caratteristiche attentamente catalogate a monte. Occorre allontanarsi da tutto ciò che pretende di essere radicale poiché non è un movimento trascendentale quello che caratterizza gli individui, bensì una fitta intessitura di poteri e resistenze, di forze e contro-forze, di spazi e contro-spazi che danno il via ad un continuo movimento strategico tipico di un processo storico. Per questo motivo l’attenzione di Foucault si sofferma principalmente sulla dislocazione, sul difetto, poiché per quanto lo spazio paia lineare e precostituito, in realtà è formato da avvallamenti e, per quanto esso sia apparentemente rigido, è al contempo flessibile e mutevole. In altre parole si tratta di uno spazio infinito (come già Galilei aveva scoperto), uno spazio dell’estensione, del molteplice e della piega:
ecco cosa voglio dire. Non si vive in uno spazio neutro e bianco; non si vive, non si muore, non si ama nel rettangolo di un foglio di carta. Si vive, si muore, si ama in uno spazio quadrettato, ritagliato, variegato, con zone luminose e zone buie, dislivelli, scalini, avvallamenti e gibbosità, con alcune regioni dure e altre friabili, penetrabili, porose. [5]
Foucault mostra in questo modo uno spazio eterogeneo composto da più luoghi che si differenziano tra loro, alcuni evidenti e altri nascosti, alcuni ben delineati da confini e altri posti esattamente all’opposto, all’esterno.

È come se, attraverso le sue parole, si cominciasse ad intravedere, dietro alla superficiale immagine di uno spazio rigorosamente delimitato, una sorta di dimensione diagonale e con essa una molteplicità insita nella nostra apparente omogeneità. In altre parole si tratta di particolari contro-spazi i quali sono assolutamente differenti, sono luoghi che si oppongono a tutti gli altri, sono il rovescio di ciò che chiamiamo quotidianità. Proprio qui, in questi contro-luoghi, il pensiero foucaultiano inizia pian piano ad addentrarsi, così da far sconfinare gli spazi oltre il loro stesso perimetro e, con essi, direzionare lo sguardo oltre quel panorama che ingenuamente si pensava di conoscere:
i bambini conoscono benissimo questi contro-spazi, queste utopie localizzate. L’angolo remoto del giardino, la soffitta o, meglio ancora, la tenda degli indiani montata al centro della soffitta, e infine - il giovedì pomeriggio - il grande letto dei genitori. È in quel letto che si scopre l’oceano, perché tra le sue coperte si può nuotare; ma quel letto è anche il cielo, perché nelle sue molle si può saltare; è il bosco perché ci si può nascondere; è la notte perché fra le sue lenzuola si diventa fantasmi. [6]
I bambini attraverso i loro giochi non inventano nulla di nuovo, ma semplicemente riescono a scorgere l’intelaiatura dello spazio, il suo lato mutevole a tratti distorto, i suoi luoghi reali fuori da tutti i luoghi, in altre parole quegli spazi Altri che Foucault definisce come Utopie ed Eterotopie.
Questa duplice articolazione tra Utopie ed Eterotopie compare per la prima volta nella Prefazione di Le parole e le cose del 1966, lo stesso anno delle due conferenze radiofoniche tenute su France Culture, associata però, in questa prima apparizione, alla tematica del linguaggio dove le utopie rappresentano dei luoghi inventati, fittizi, ritratti poi a parole attraverso le favole e i racconti; mentre le eterotopie «inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, [.] perché spezzano e aggrovigliano i nomi comuni, perché devastano la sintassi» [7], rovesciando l’ordine delle parole le quali si distanziano dalle cose dando luce ad una vera e propria dislocazione linguistica nella quale il senso sprofonda.

Il pensiero di Foucault non si ferma qui, così nello stesso anno egli decide di rielaborare questa duplice questione nelle due conferenze radiofoniche effettuando però uno spostamento importante, orientando la sua riflessione su tutt’altro piano. Tra Le parole e le cose e le conferenze radiofoniche Foucault varia sensibilmente l’uso della nozione di spazio passando da un uso metaforico, in riferimento allo spazio del discorso e del linguaggio, ad un uso chiaramente referenziale indirizzato a certi luoghi e a determinati contesti sociali. Nonostante questo spostamento sul piano d’analisi, è tuttavia chiaro che l’insieme di queste riflessioni trova la sua coerenza nell’idea che non c’è uno spazio dato senza questi contro-spazi, opposti e apparentemente incompatibili, ma che al contempo lo arricchiscono e lo aprono alla possibilità di un cambiamento.


2. Il riflesso della quotidianità

L’attenzione di Foucault si sposta su questi particolari spazi Altri, fuori dal quotidiano e da tutto ciò che comunemente appare come vero ed unico, entrando così nel merito di questa coppia Utopia-Eterotopia e analizzando la loro principale differenza. Queste due particolari categorie differiscono principalmente sul piano del reale poiché le utopie sono spazi privi di luogo reale o meglio rappresentano luoghi fantastici, proiezioni perfezionate della società stessa. Possono essere dei modelli a cui ispirarsi o dei luoghi meravigliosi nei quali fuggire, in ogni caso, queste utopie costituiscono degli spazi fondamentalmente irreali. Sono nate nella mente degli uomini, nei loro racconti, nei loro sogni, hanno una dolce origine che deriva dai loro cuori speranzosi:
paesi senza luogo e storie senza cronologia, città, pianeti, continenti, universi, di cui sarebbe certo impossibile trovare traccia in qualche carta geografica o in qualche cielo, semplicemente perché non appartengono a nessuno spazio. [8]
Ci sono poi le eterotopie, le quali rappresentano invece dei veri e propri spazi reali intrecciati ai nostri luoghi comuni, dei contro-luoghi, come una sorta di utopie effettivamente localizzate e realizzate. Le eterotopie ci mostrano una dimensione tangibile, sono ambivalenti e inquietanti probabilmente perché minano, spezzano, rovesciano il nostro rassicurante luogo comune e non a caso Foucault decide di focalizzarsi e approfondire proprio queste ultime. «In generale l’eterotopia ha come regola quella di giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente sarebbero, dovrebbero essere incompatibili» [9]. Si tratta quindi di uno spazio eterogeneo, costellato da più spazi differenti tra loro, di un paradossale meccanismo di scatole cinesi per il quale una scatola ne contiene al suo interno un’altra e così via. Ecco da cosa è composto il nostro spazio, da contro-spazi ben posizionati i quali riflettono in modo distorto e ambivalente la nostra apparentemente perfetta abitudine.

Per identificare tra i luoghi sociali quelli eterotopici Foucault enuncia diversi principi nel corso della sua conferenza i quali delineano il concetto di eterotopia, la sua funzione e la sua collocazione riportando con essi alcuni particolari esempi. Il primo fra questi principi è proprio il fatto che ogni cultura e ogni epoca porta con sé le sue eterotopie. L’esempio più antico a cui fa riferimento Foucault è «il giardino, straordinaria creazione ormai millenaria, possedeva in Oriente dei significati molto profondi e sovrapposti» [10].
Non si tratta di un semplice giardino come quelli che costeggiano oggigiorno le nostre case, bensì di un vero e proprio mondo a sé stante. Non a caso gli antichi persiani lo consideravano un luogo sacro, suddiviso al suo interno in quattro parti che rappresentavano le diverse parti della terra e nel centro sorgeva una fontana zampillante la quale stava a rappresentare una sorta di centro del mondo. Passeggiare in questo giardino voleva dire spostarsi nelle diverse dimensioni, muoversi da una parte all’altra del mondo. Era una sorta di microcosmo, un’antica eterotopia felice. Oggi questi meravigliosi giardini non esistono più come molti luoghi che nel corso della storia sono andati a scomparire, ma al loro posto ne sono sorti altri e altri ne sorgeranno:
ora, se si pensa che i tappeti orientali erano inizialmente delle riproduzioni dei giardini, si comprende il valore leggendario dei tappeti volanti, dei tappeti che percorrevano il mondo, [.] il tappeto è un giardino che si muove attraverso lo spazio. [11]
Foucault non è il solo ad interessarsi alla questione del giardino, altri studiosi e teorici ritengono che tale luogo possa in qualche modo rappresentare al meglio la dimensione di uno spazio Altro differente da come normalmente lo conosciamo, quasi come se fosse una sorta di dipinto posizionato al centro del paesaggio sociale, come un vero e proprio giardino mentale. Queste ultime sono le parole di Gilles Clément scrittore, agronomo e paesaggista francese del XX secolo, colui che ha teorizzato il concetto di Terzo paesaggio e ha dedicato gran parte della sua vita allo studio di questo affascinante luogo:
la forza di un simile giardino scaturisce dal fatto che non si trova mai costretto in un involucro formale soggetto alle convenzioni, ai riferimenti e allo stile di un’epoca. È un giardino mentale, capace di assorbire le violenze della modernità senza perdere la propria integrità. Mentale e verticale, diametralmente opposto alla centralità dell’estensione che è caratteristica dell’Occidente, dove il potere si misura sulla base del terreno posseduto. [12]
Lo scrittore francese si sta riferendo, come lo stesso Foucault, agli antichi giardini d’Oriente i quali possedevano una potenza inaspettata e un panorama autentico, privo di preconcetti e sganciato dalle strutture sociali tipiche di un mondo Occidentale nel quale il potere è direttamente proporzionale al possedimento dei terreni. L’obbiettivo di Clément non è dunque quello di descrivere l’ennesimo luogo di dominio, piuttosto il suo scopo è quello di mostrare l’estrema diversità di ciò che esiste sul pianeta consentendoci l’accesso a tutto ciò che è privo di limiti spaziali e specifici diametri, mostrandoci così le zone d’ombra, le forme, le tensioni delle prospettive opposte e tutto ciò che si riesce a vedere solo dopo aver smesso di osservarlo.

Questo è quello che egli definisce come Terzo paesaggio, espressione che indica tutti quei luoghi abbandonati, disabitati, sparpagliati, dispersi, i quali detengono un solo punto in comune: «tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, questa è scacciata» [13]. Si tratta in altri termini di uno spazio della differenza e di un luogo dell’invenzione possibile, per questo motivo egli spesso lo definisce come un paesaggio mentale, laddove il pensiero sa spingersi più in là delle rigide staccionate e delle canoniche convenzioni sociali.
il Terzo paesaggio non si interessa ai residui per farli sparire, bensì per valorizzarli. In quanto territorio d’accoglienza di una diversità bandita da ogni altro luogo, il Terzo paesaggio include altri spazi [.] e costituisce per natura un insieme deregolamentato, assimilabile a uno di quegli spazi di libertà. [14]
Detto altrimenti il giardino è uno spazio lasciato libero di non rispondere a una forma fissata a priori, un luogo segnato dall’imperfezione, dallo squilibrio e dall’incontro con l’Altro, una dimensione a sé stante nella quale risiede tutta la potenza di un luogo privo di forma e perciò in grado di assumere qualsiasi aspetto.
Questo luogo dell’incontro imprevisto, questo spazio della trasformazione, risulta adiacente alla visione del giardino foucaultiano, tale per cui ne consegue questa breve digressione all’interno di un panorama nel quale occorre tenere conto anche di ciò che non si vede e di ciò che ancora non si conosce. Per quanto in Occidente il giardino venga normalmente associato ad una proprietà privata e ad un territorio attentamente limitato, quello che Clément e Foucault mostrano è uno spazio delle diverse possibilità posto esattamente nei nostri luoghi comuni. Sarà proprio verso queste ultime che lo sguardo del filosofo francese si volgerà, verso nuove angolazioni e spazi privi di confini, attraverso i quali dipingerà un paesaggio ai margini della quotidianità.

Tale groviglio di spazi non è altro che il risultato di una serie di eventi storici e dello scorrere delle epoche, le quali portano con sé nuove situazioni, nuovi contesti e con essi nuovi spazi. Abbiamo già riscontrato come l’eterotopia abbia il potere di avvicinare tra loro spazi apparentemente incompatibili. Così Foucault passa in rassegna una quantità di luoghi comuni verso i quali talvolta non si presta particolare attenzione e, nonostante vengano attraversati spesso nella vita quotidiana, essi celano al loro interno dimensioni alquanto insolite. Questo è l’obbiettivo del suo pensiero, produrre nella mente degli uomini una nuova prospettiva, un nuova modalità di osservare ciò che non si è mai smesso di guardare e, di conseguenza, mostrare una molteplicità di spazi Altri posti esattamente all’interno di ciò che si considera comune:
è così che il teatro realizza nel riquadro della scena tutta una serie di luoghi che sono estranei gli uni agli altri; è così che il cinema riesce a costituire una particolarissima sala rettangolare in fondo alla quale, su uno schermo a due dimensioni, si vede proiettato uno spazio a tre dimensioni. [15]
Il teatro, il cinema, così come i giardini e i tappeti d’oriente o come le prigioni e le cliniche sono solo alcuni degli innumerevoli contro-spazi che affollano la nostra quotidianità. Il cinema per esempio ha la caratteristica di mostrarsi nella sua totale ambiguità, come successione simultanea di più fotogrammi in grado di proiettare più spazi su di un semplice schermo. Guardare uno spettacolo a teatro, o più semplicemente un film alla tv, sono azioni talmente conosciute da essere scontate. Tuttavia Foucault affronta e ci mostra questi luoghi in tutta la loro portata significativa, ovvero come un intrico di più spazi simultanei posti in successione sulla stessa pellicola, come un mondo Altro proiettato in questo mondo sotto i nostri occhi.

Nonostante le utopie e le eterotopie siano differenti tra loro, nonostante questi spazi abbiano funzioni e caratteristiche distinte, essi hanno un preciso punto in comune ed è la questione dell’incontro con l’Altro. Questi luoghi o non-luoghi proiettano una situazione diversa a quella in cui siamo soliti muoverci, che sia di perfezione utopica o di distorsione eterotopica non fa una particolare differenza, ciò che conta è il fatto di far emergere una possibilità nuova, lo scacco della diversità e così facendo insinuare un dubbio nella mente degli uomini.
Per quanto alcuni di questi spazi possano essere irreali, il dubbio però, quello è reale e insinuandosi nel pensiero degli uomini comincia a far vacillare le certezze, i preconcetti e tutti quei rassicuranti luoghi comuni che sono stati costruiti nel corso della storia. Si arriva così secondo Foucault ad un punto essenziale per la questione delle eterotopie.
Queste si presentano come una vera e propria contestazione di tutti gli altri spazi. Hanno un ruolo perturbatore e sfasato rispetto al nostro abitudinario, proprio qui nello spazio in cui viviamo. Insinuano un dubbio nel nostro incosciente e autarchico benessere, consentendoci dunque di allontanare i nostri occhi da tutte quelle stelle fisse che pretendono di essere universali e di volgere in questo modo uno sguardo nuovo verso gli spazi entro i quali prende forma la nostra vita quotidiana.

Nella serie di spazi indagati dal filosofo francese ne emerge uno in particolare, al quale occorre rivolgere in modo più accurato l’attenzione. Si tratta di un luogo alquanto equivoco e per questo motivo Foucault lo affronta da più prospettive, definendolo infine in questo modo: «Credo che tra le utopie e questi luoghi assolutamente altri, le eterotopie, vi sia senza dubbio una sorta di esperienza mista, mediana come potrebbe essere quella dello specchio» [16]. Quest’ultimo rappresenta un’ambivalente mediazione tra le due categorie di spazi essendo caratterizzato da entrambe, ma non aderendo totalmente a nessuna. Detiene tutte le proprietà mantenendo al contempo delle differenze e per questo motivo resta uno dei luoghi più complessi e significativi che abitano il nostro paesaggio abitudinario.

Lo specchio è innanzitutto un’utopia, un luogo senza luogo, nel quale il soggetto si vede là esattamente dove non è, in un movimento di presenza-assenza tipico degli spazi utopici. Il riflesso e ciò che si spalanca alle sue spalle non è reale, lo spazio che affiora al di là del vetro è uno spazio virtuale, illusorio, che non si può toccare effettivamente con mano. Per questo motivo Foucault lo inserisce a prima vista nei luoghi utopici, nei non-luoghi, ma una tale considerazione di questo spazio risulta per il filosofo francese parziale e incompleta.
Da ciò consegue una seconda riflessione che pone tale luogo fra le eterotopie, nella misura in cui lo specchio esiste realmente e sviluppa nel soggetto un perturbante gioco di ritorni, nel quale si scopre presente e assente nel medesimo istante. Per quanto il mondo che si apre nel riflesso di quella superficie luminosa sia essenzialmente irreale, quest’ultima invece è reale, è uno spazio vero e proprio, presente e tangibile. Si tratta dunque di un non-luogo al contempo effettivamente localizzato nel nostro quotidiano e proprio questa sua caratteristica duplice e ambivalente lo pone tra i più affascinanti contro-spazi del pensiero foucaultiano.

Lo specchio è allo stesso tempo luogo reale e irreale, tangibile e mentale, un po’ come il Terzo paesaggio, precedentemente incontrato con Clément, ovvero come una dimensione che c’è e al contempo non c’è, che occupa uno spazio apposito ma che contemporaneamente può assumere qualsiasi altro tipo di forma. Strana esperienza quella di riflettersi in quella lastra speculare, come se potessimo vedere un altro me stesso che infondo tanto stesso non è. Siamo dinnanzi alla superficie del Doppio la quale mostra in un unico riflesso due lati, due prospettive, due angolazioni di uno stesso mondo, di uno stesso soggetto, di uno stesso sguardo. Si tratta dunque di uno spazio dell’Attraverso in grado di condurre da una parte all’altra nel preciso istante in cui lo sguardo si posa su di esso. Uno spostamento senza movimento, una prospettiva rovesciata, uno sguardo che si guarda, ecco cosa produce questo spazio senza luogo.
È proprio la presenza di questa dimensione dinamica e dislocata, accanto e insita alla dimensione geometrica e quadrettata tipica dell’architettura del potere, che consente di definire Foucault non come un pensatore della chiusura e della fissazione, bensì come un teorico dell’incontro con l’Altro e del cambiamento.


3. Il pensiero della differenza

Gli spazi di Foucault aprono un varco verso tutto ciò che non è, ma che al contempo potrebbe essere, verso uno sguardo Altro di ciò che siamo soliti guardare, offrendo così la possibilità di una trasformazione di ciò che facciamo, di ciò che siamo e di ciò che pensiamo. In altre parole esso apre un varco verso tutto quell’Altro che Foucault definisce come l’impensato.
L’impensato [.] è, nei riguardi dell’uomo, l’Altro: l’Altro fraterno e gemello, nato non già da lui, né in lui, ma a fianco e contemporaneamente, in un’identica novità, in una dualità senza ricorso. La zona oscura che viene volentieri interpretata come una regione abissale nella natura dell’uomo, o come una fortezza singolarmente sprangata della sua storia, è a questi legata in tutt’altro modo: gli è, a un tempo, esterna e indispensabile: un po’ come l’ombra riportata dell’uomo mentre scorge nel sapere; un po’ come la macchia cieca a partire da cui è possibile conoscerlo. [17]
Il pensiero, un altro tema che per molto tempo ha ossessionato Foucault, comincia qui a prendere forme nuove. È un pensiero che si delinea proprio come il corpo di fronte al suo riflesso costituendosi mediante l’inversione dei punti di osservazione. Foucault viene spesso associato allo spazio del confine, poiché uno dei suoi meriti fu proprio quello di aver stabilito un orizzonte che separa lo spazio della ragione da quello della disragione, della follia o dell’impensato, Basti pensare alle dinamiche di esclusione degli anormali ai confini della società e alla loro poi successiva reclusione oppure a tutti quei luoghi di prigionia e di collocamento, ma credere che il suo pensiero si sia fermato qui sarebbe del tutto fuorviante dalla totalità della sua prospettiva, poiché è proprio su quest’orizzonte che si collocano i punti di inversione e di capovolgimento.
Questo bordo è una linea appartenente al suo spazio e caratteristico di esso, allora, mediante un movimento di indietreggiamento, si è in grado di collocare il soggetto al posto dell’altro, e si può vedere, a rovescio, tutto lo spazio classico da questo nuovo punto di vista. [18]
La proposta del filosofo francese è proprio quella di cominciare a pensare l’impensato, quell’impaccio della parola, quello spazio della dislocazione laddove il pensiero compie un’esperienza limite, per la quale ora, dovrà pur cominciare a pensare. L’interrogarsi sulla questione del limite, ovvero di una linea di demarcazione e correlazione tra l’identità e l’alterità, pone le sue radici nel pensiero foucaultiano fin dalle sue origini attraversando poi la sua intera riflessione. Dunque, abituati ad uno spazio della demarcazione e del rigore, la domanda si insinua facilmente nei nostri pensieri: «verso quale regione ci dirigeremmo?» [19], dove possiamo cercare ciò che si trova al di là di ciò che siamo soliti vedere?

Nella Prefazione alla prima edizione della Storia della follia Foucault si propone di scrivere una storia dei limiti, «di questi gesti oscuri, necessariamente dimenticati non appena compiuti, con i quali una cultura rifiuta qualche cosa che sarà per essa l’Esterno» [20], la follia, il sogno, il mondo felice del desiderio, l’Oriente, i quali costituiscono alcune delle modalità e delle espressioni di quell’Altro che l’Occidente ha respinto costantemente. Si tratta dunque di provare a descrivere proprio dalle origini questa strana curvatura, questa forma Altra che lascia cadere ai suoi lati cose ormai tra loro lontane, esterne, apparentemente inconciliabili: l’identità e l’alterità, il visibile e l’invisibile, la ragione e la follia: «non è rinchiudendo il vicino che ci si convince del proprio buon senso» [21].

Foucault fa in questo modo riferimento ad un testo di Dostoevskij mostrando un’inquietante realtà: gli uomini allontanano altri individui considerati ed etichettati come strani, folli, anormali o più semplicemente diversi dalle solite dinamiche di pensiero, li pongono ai margini della società e li rinchiudono in determinati spazi appositi per la loro manipolazione. In questo modo creano un netto limite tra coloro i quali sono uomini della ragione e i folli, ma non è allontanando le diversità che ci si convince della propria identità. Non è così che possiamo considerarci normali, ponendo ciò che pare anormale lontano dal nostro sguardo; non è dimenticandoci dell’Altro che possiamo vivere convinti di ciò che prendiamo per vero ed unico.

Foucault comincia così la sua ricerca procedendo a ritroso verso il punto zero, in quel luogo in cui «follia e non-follia, ragione e non-ragione sono confusamente implicate: inseparabili visto che non esistono ancora, ed esistendo l’una per l’altra, l’una in rapporto all’altra, nello scambio che le separa» [22]. L’obbiettivo è proprio quello di riuscire a risalire al punto in cui ragione e follia ancora non si erano scisse, allontanandosi dai linguaggi psichiatrici della ragione e focalizzandosi invece sul silenzio antecedente. «Forse la Ragione occidentale deve qualche cosa della sua profondità a questa presenza oscura» [23], forse ciò che consideriamo il nostro buon senso è in grado di delinearsi proprio grazie al rovescio di se stesso, forse il pensiero ha preso forma a partire da quell’impensato che si tende ad allontanare in continuazione. Di conseguenza è proprio su queste linee di configurazione ed esclusione che bisogna collocarsi per cercare di comprendere ciò che accade.

Nella nostra cultura e nella nostra storia non può esservi ragione senza follia, come non possono esserci spazi senza i loro rispettivi contro-spazi, non ci può essere un io o un’identità senza la sua alterità. Tutto ciò che è conosciuto, abitudinario e assodato pone le sue radici nell’Altro in uno stretto legame di co-implicazione reciproca. Esseri alquanto ambivalenti gli uomini caratterizzati da limiti e dal loro stesso superamento, da leggi e trasgressione, tradizione e innovazione, finito e infinito. Un doppio che non si divide e nemmeno si sovrappone, duplicità congiunta tipica del movimento speculare dello specchio il quale non fa altro che offrire al nostro sguardo un altro sé, «l’altro lato di una psiche» [24]. Questa particolare questione del Medesimo complementare all’Altro costituisce quindi uno dei punti di partenza della ricerca foucaultiana e darà così vita alla metafora dello spazio utilizzata in Le parole e le cose per identificare un preciso luogo del pensiero e il suo rispettivo spazio Altro:
a che equivale in termini generali: non poter più pensare un pensiero? E inaugurare un pensiero nuovo? Il discontinuo - il fatto che in pochi anni a volte una cultura cessa di pensare come aveva fatto fino allora e si mette a pensare altro e in altro modo - si affaccia indubbiamente su un’erosione dall’esterno, su quello spazio che è, per il pensiero, dall’altro lato, ma in cui tuttavia esso non ha cessato di pensare fin dall’origine. [.] come mai il pensiero ha un luogo nello spazio del mondo, come mai esso vi trova una sorta di origine e non cessa, in entrambi i casi, di cominciare ogni volta da capo? [25]
Si tratta dunque di cominciare a interrogare il pensiero nella direzione in cui sfugge da se stesso ovvero un procedere fuori dai rassicuranti preconcetti, dai dogmi religiosi, dalle categorie universali e da tutto ciò che ha la pretesa di essere originario e immutabile. Foucault in questo modo indirizza il nostro sguardo fuori dal solito ragionare, fuori dagli spazi quotidiani, fuori da noi stessi e, una volta giunti in quello spazio senza luogo, il nostro pensiero comincia a pensare a ciò che ha sempre pensato, ma in modo del tutto diverso attraverso quello che Foucault definisce: il pensiero del fuori.

Il pensiero del fuori, testo pubblicato nello stesso 1966, delinea un pensiero Altro che al contempo resta il medesimo, una sorta di alterità come apertura al possibile cambiamento. I pensieri in questo modo si spingono più in là dei sentieri battuti e si addentrano in un «luogo senza geografia del loro possibile nuovo inizio» [26], nel quale «fuori sarebbe tratteggiato come esperienza del corpo, dello spazio, dei limiti del volere, della presenza indelebile dell’altro» [27].
Siamo di fronte ad un pensiero eterotopico, ad uno spazio Altro del discorso, ad una psiche che si osserva allo specchio dal quale a sua volta viene guardata; siamo di fronte all’altro lato di uno spazio, di un corpo, di un io, di un pensiero. Detto altrimenti si tratta di un dinamismo del pensiero, il quale si muove all’interno di un determinato processo storico che di conseguenza innesca un continuo cambiamento, un mutamento, una trasformazione per il quale Foucault «individua in esso la vera meta del suo viaggio alla ricerca del non-luogo del soggetto e di una lingua universale vuota» [28]. Ecco dunque la direzione del pensiero foucaultiano, la quale si orienta verso un non-luogo, verso un fuori vuoto nel quale hanno origine e si muovono i pensieri, un vuoto che permette il dinamismo, un primo motore di un pensiero che si ricrea e ricomincia ogni volta da capo come accade nel gioco del quindici [29].

Per quanto questo riferimento possa sembrare banale, esso nella sua semplicità valorizza la questione del vuoto e ne permette una facile comprensione. Si tratta di un rompicapo nel quale le caselline numerate possono muoversi solamente grazie alla presenza-assenza di un singolo spazio vuoto. Quest’ultimo permette così il movimento di tutte le tesserine e la possibilità di riordinarle, ossia non è altro che un vuoto in funzione del dinamismo. Il pensiero dunque ha una potenza che risiede nel suo essere creativo, in questa sua modalità esclusiva di viaggiare senza muoversi. Pensare è creare nuove prospettive, è un vagabondare tra spazi e possibilità, è posare lo sguardo fuori dagli schemi precostituiti. Pensare è la resistenza che l’uomo può opporre a questo meccanismo sociale che lo schiaccia.

Il pensiero è come una nave, eterotopia foucaultiana per eccellenza, uno spazio nomade che vaga di porto in porto, che percorre mari sempre nuovi e acque sconosciute. La nave permette di muoversi nel mondo e di attraversare confini, «è un pezzo di spazio vagante, un luogo senza luogo che vive per se stesso, chiuso in sé, libero per certi aspetti, ma fatalmente consegnato all’infinito del mare» [30]. Essa fa sì che gli uomini e di conseguenza i loro pensieri si rivolgano a spiagge inesplorate, a porti differenti e che scorgano l’infinito orizzonte dei possibili.
Gli uomini trascorrono la loro vita ancorati a ciò che meglio li rassicura, la loro nave resta stabile nel porto e il loro pensiero resta cieco, fradicio di consuetudini. Ecco allora che è necessario un dirottamento, ecco dunque la via, una nuova direzione che non venga intrapresa solo da coloro che vengono nominati folli, ma che conduca il pensiero comune verso mari che non conoscono riposo. Un viaggio al di là del senso comune e del conosciuto, un viaggio in un fuori che apre il mondo in tutta la sua meraviglia.
le civiltà senza navi sono come i bambini, i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare. I loro sogni allora si inaridiscono; lo spionaggio si sostituisce all’avventura, e lo squallore della polizia prende il posto dell’assoluta bellezza dei corsari. [31]
Ecco la svolta, il cambio necessario affinché il movimento del pensiero possa finalmente vagare come un nomade privo di fissa dimora. Mano a mano emerge la reale importanza della prospettiva foucaultiana, la quale traccia una nuova concezione di spazio e, attraverso quest’ultima, ne determina il suo lato molteplice. Non è un uomo in gabbia quello che Foucault vuole mostrare, bensì un soggetto ben più libero di quello che pensa. Il mondo che appare come una trappola, è in realtà ben più piegato di quanto si potesse immaginare.

Giunti a questo punto si dovrebbe riuscire a scorgere tutto ciò che invece non si è ancora in grado di vedere, tutto ciò che si schiva con sufficienza considerandolo irrazionale, tutto ciò che in quanto diverso si ritiene pericoloso e, con esso, tutto ciò che è talmente vicino ai nostri occhi da non riuscire a metterlo a fuoco pienamente. Questi contro-spazi sono sempre stati qui, a portata di mano, troppo vicini perché si potessero notare, per questo motivo il pensiero foucaultiano diventa un nuovo paio di occhiali sul mondo affinché la nostra presbite vista possa vedere quello che da sempre ha di più vicino.
E così Foucault si rivolge a tutte quelle filosofie maldestre, a quelle riflessioni statiche, a tutti coloro che si focalizzano sulle domande sbagliate, che si interrogano ricercando la verità nella propria conoscenza, all'Antropologia che costituisce la disposizione che ha governato il pensiero filosofico da Kant direttamente fino ai giorni nostri.Si rivolge verso di loro con un riso filosofico, a tratti silenzioso, come se questo silenzio fosse uno spazio vuoto, ma non un vuoto qualunque, non una mancanza o un qualcosa da colmare con inutili parole, piuttosto come una sorta di apertura verso un Altro spazio in cui finalmente è di nuovo possibile pensare.

NOTE

[1]. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, tr. it. e cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano 2011, p. 19.
[2]. Ivi, p. 21.
[3]. Ibid. La scelta del termine non è casuale, infatti per dislocazione si intende uno spostamento. Nel caso della lingua parlata si tratta di una costruzione nella quale alcuni costituenti non occupano più le posizioni canoniche previste dalla struttura della lingua creando così una sfumatura differente nella portata significativa della frase; oppure, facendo riferimento all’ambito della chimica, una dislocazione è un difetto in una struttura cristallina che si estende lungo una linea, ossia uno spostamento che si instaura nei rapporti cristallini e perfetti tra gli atomi creando così una variazione tra i legami.
[4]. G. Brausch, Logiche del potere e logiche spaziali in Michel Foucault. Sulle intenzioni socio-politiche dello spazio architettonico e urbano e sui loro effetti, in Materiali foucaultiani anno I, n. 1, gennaio-giugno 2012, tr. it.di L. Cremonesi, pp. 75-90, qui, p. 82.
[5]. M. Foucault, Le eterotopie, in Utopie. Eterotopie, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli, 2018, pp. 11-28, qui, p. 12.
[6]. Ivi, pp. 12-13.
[7]. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, tr. it. di E. Panaitescu, Bur Rizzoli saggi, Milano 2018, pp. 7-8.
[8]. M. Foucault, Le eterotopie..., cit., p. 11.
[9]. Ivi, p. 18.
[10]. M. Foucault, Spazi altri..., p. 28.
[11]. M. Foucault, Le eterotopie..., p. 19.
[12]. G. Clément, Breve storia del giardino, tr. it. di M. Balmelli, Quodlibet, Macerata 2012, p. 36.
[13]. G. Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, tr. it. di F. De Pieri e G. Lucchesini, Quodlibet, Roma 2016, p. 16.
[14]. Ivi, pp. 69-70.
[15]. M. Foucault,
Spazi altri..., pp. 27-28.
[16]. Ivi, p. 24.
[17]. M. Foucault, Le parole e le cose..., pp. 349-350.
[18]. O. Marzocca,
Filosofia dell’incommensurabile. Temi e metafore oltre-euclidee in Bachelard, Serres, Foucault, Deleuze, Virilio, Franco Angeli, Milano 1989, p. 127.
[19]. M. Foucault, «Prefazione alla Storia della follia» (1961), in Archivio Foucault 1. Interventi, colloqui, interviste (1961-1970), tr. it. G. Costa, cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 49-57, qui, p. 51.
[20]. Ibid.
[21]. Ivi, p. 49.
[22]. Ivi, p. 50.
[23]. Ivi, pp. 50-51.
[24]. M. Foucault, Le parole e le cose..., p. 20.
[25]. Ivi, p. 65.
[26]. M. Foucault, Il pensiero del fuori..., pp. 56-57.
[27]. Ivi, p. 23.
[28]. O. Marzocca, Filosofia dell’incommensurabile..., p. 132.
[29]. Il gioco del quindici è un rompicapo classico creato nel 1874 da Noyes Palmer Chapman. Il gioco consiste in una tabellina su cui sono posizionate 15 caselline numerate progressivamente a partire dal numero 1. Le tessere possono scorrere in verticale e orizzontale grazie all’esistenza di uno spazio vuoto. Lo scopo del gioco è riordinare le tessere, dopo averle mescolate in modo casuale.
[30]. M. Foucault, Le eterotopie..., pp. 27-28.
[31]. Ivi, p. 28.



Hana Leah Bittner, Architectural drawings, 2011/2016

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