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Kafka, fabula nuda non datur...
di Giuseppe Crivella

23 aprile 2014



Sovente nel leggere Kafka si è assaliti dall’oscura certezza che tutta la sua affilatissima prosa sia spasmodicamente attraversata da una sorta di sordo e multiforme dramma esegetico. Dramma qui è da intendere nell’accezione strettamente etimologica: azione, attività (scenica). Si tratta forse di un fare ermeneutico composto di spostamenti repentini ed obliqui dal centro ai margini del testo, dietro la pressione di un’osservazione nella quale sembra essersi depositata una folgorazione d’assoluto già prossima a svanire. Oppure a succedersi sono vagli e abbagli desultori di frantumate verità, ora tenebrosamente tetragone ora spettralmente elusive; sprofondamenti ed emersioni incardinati l’uno sull’altra da una perversa logica di sinonimia deviante, così che quando si crede di scendere in profondità il pensiero in realtà rasenta il culmine massimo di una illuminazione raggelante e afasica, mentre il concetto di vetta rima sinistramente con quello di abisso.

Un dramma in sostanza perfettamente interpretato dal quell’infausta e inesausta agitazione che angustia il protagonista de La tana (il titolo originale è però der Bau, che potrebbe anche significare soltanto “la costruzione”), uno degli ultimi racconti di Kafka, scritto infatti tra il 1923 e il 1924, definito, forse proprio per questo, da Calasso ciò che più si avvicina a uno scritto testamentario. Una soffusa e nodosa strategia d’allontanamento da sé è ciò che scandisce e dirige i movimenti di questa strana creatura — una delle tante che popolano il ricchissimo e polimorfo bestiario proprio dello scrittore praghese — a metà tra una talpa goffamente dedita ad un freddo raziocinare abnorme e inconcludente e uno di quei decrepiti funzionari, che affollano le penombre degli uffici, dei tribunali, della cancellerie della catacombale burocrazia kafkiana. Sia i due K., sia la talpa-funzionario infatti si dibattono follemente per depistare delle figure umbratili e vischiose, le quali per un imperscrutabile disegno sono chiamati ad osteggiare i loro progetti, per quanto modesti questi possano essere. Ma tale depistaggio, perseguito in ogni caso con una minuzia maniacale, progettato con una disumana lucidità analitica, sembra tradursi in un accerchiamento paradossale e inflessibile che il personaggio porta a termine unicamente ai propri danni.

Si prenda a titolo d’esempio la talpa-funzionario: tutta la sequela di spostamenti programmati e poi disattesi, tutte le sue deviazioni, tutto l’infinito rosario di false piste, tutti i trabocchetti che essa dissemina dietro — e, per forza di cose, anche davanti a sé — d’improvviso si illuminano d’una luce estranea, alienante, e diventano tracce inoppugnabili del suo passaggio, indizi irrefutabili della sua minacciata presenza, segni espliciti lasciati ad uno scaltrito inseguitore, a cui non resta che seguirli per piombare sulla povera preda. Pertanto, per confondere tale inseguitore, la talpa-funzionario deve progettare una tana che sia trappola per se stessa, in modo tale che anche il predatore che si muova sui suoi passi, vi si senta messo a rischio. A questo punto però s’offusca dolorosamente il disegno d’una controffensiva ragionata. Un percorso di contaminazione tra l’angoscia e l’astuzia, la congettura e il reale, la paranoia e il pericolo effettivo infetta la totalità della tana, traducendola in uno spazio sdoppiato di gesti e segni tortuosamente anfibolici: essa è percorsa una prima volta al fine di seminare e confondere il presunto predatore; in un secondo momento essa viene attraversata nuovamente a contrario, attuando delle precise contromosse che non solo servono a déjouer gli stratagemmi del primo passaggio, ma trasfigurano perversamente la talpa-funzionario nella nebulosa controfigura di un ipotetico inseguitore, il quale si trovi simultaneamente ad abitare la propria tana come un luogo tempestato di trappole e ad affrontare queste stesse trappole come gli unici espedienti in grado di garantire l’inaccessibilità della propria tana ad eventuali creature estranee.

È ancora Calasso a far notare che questa ambiguità intrinseca presente nel racconto in esame è rafforzata dal fatto che in tedesco sono due le parole incaricate di significare tana, Höhle e Bau: la prima indica una cavità, una caverna, una sorta di apertura praticata nella materia inerte a ricavarvi uno spazio vuoto; la seconda invece designa un’operazione fabbrile di articolazione e organizzazione dello spazio, un processo di strutturazione minuta e ben congegnata a partire proprio dalla Höhle. Pertanto non si dà Bau senza Höhle, ma al tempo stesso la Höhle non ha senso se non è messa in uso dalla distribuzione interna attuata dal Bau.

Ma in Kafka la netta continuità dei due campi semantici improvvisamente è contestata, turbata, stravolta. La costruzione occlude e dissipa lo spazio dell’apertura: in essa non si dà mai un ambito di transito, ma tutto è perfettamente progettato perché i passaggi diventino ostacoli. Kafka fa giocare perversamente Bau contro Höhle, così che là dove ci aspetteremmo di trovare un sistema di significati congruente con un’accezione euforica della nozione di tana, improvvisamente siamo messi di fronte a tutta una isotopia disforica, in forza della quale la tana diventa una costruzione parallela ed equivalente a tutto un campionario di luoghi negativi tipici della narrativa kafkiana: la stanza di Samsa (a sua volta emblema della famiglia in cui è intrappolato), la macchina torturatrice de In der Strafkolonie, fino ad arrivare al villaggio labirinticamente lineare in cui l’agrimensore K. lascia le tracce ignobili della sua inutile presenza, nonché agli spazi in cui Josef K. cerca di dipanare il groviglio della propria innocenza facendole assumere sempre più i tratti di una colpa inammissibile e inespiabile.

Quello che avviene tra Bau e Höhle è una sorta di radicale dimidiamento semantico che in altri contesti arriva a colpire anche oggetti e segni, gesti e intenzioni; probabilmente nessuno meglio di Walter Benjamin ha illustrato questo aspetto della concezione dell’autore praghese, notando appunto come «tutta l’opera di Kafka rappresenta un codice di gesti che non hanno già a priori un chiaro significato simbolico per l’autore, ma sono piuttosto interrogati a riguardo in ordinamenti e combinazioni sempre nuovi […]. I gesti dei personaggi di Kafka sono troppo forti per il loro ambiente, e irrompono in uno spazio più vasto». Questo spazio più vasto è quello in cui alligna l’ambivalenza dei sensi, la quale imbeve ogni cosa.

La talpa-funzionario non può allora non mettere in campo una batteria di soluzioni rapidamente deperibili, un’ostinata metodologia del colpo a vuoto, un’ermeneutica della postulazione fallace. Nel racconto der Bau quindi ripercorrere a ritroso i medesimi tracciati porta allo smarrimento, alla confusione, alla più scompaginata incertezza. Dice Calasso a questo proposito: «[der Bau] è un’unica colata di parole, nelle ultime pagine priva di capoversi, che si interrompe all’inizio di una proposizione relativa. Ma secondo il principio animatore del testo, il narratore saprebbe continuare indefinitamente a narrare. Un solo essere può interromperlo: la sua controparte tenebrosa, se per avventura uscisse da un’esistenza soltanto acustica, cessando di scavare nella tana come fosse la propria per mostrarsi muso a muso. O altrimenti quell’essere indefinito e persecutorio potrebbe anche dileguarsi, sostituito da un’altra ipotesi e altre inquietudini».

Ecco che allora forse der Bau diventa una perfetta metafora del testo, o meglio, di quella particolarissima pragmatica del testo che Kafka ha messo a punto con la sua narrativa: attraversata due o più volte, solcata dalla lettura innumerevoli volte — esattamente come la talpa-funzionario passa e ripassa per i suoi stretti e franosi cunicoli un numero incalcolabile di volte — la sfera dei significati diventa il friabile teatro di continui smottamenti interpretativi. I sensi delirano nel grigio propagginarsi di figurazioni parziali e sfuggenti, le quali finiscono col depositarsi negli anfratti del pensiero, incancrenendovi sotto forma di versioni aberranti che si accavallano alla narrazione, si sovrappongono ad essa finendo col soffocarla o col corroderla. Siamo così tornati al dramma esegetico incontrato all’inizio: in esso sembra precipitare ogni frontiera tra la quinta narrativa e il proscenio ermeneutico. Tutto assume al tempo stesso il carattere di traccia e il carattere di chiave, sebbene la loro presenza, già diafana, divenga a poco a poco solo indiziaria.

Se da una parte quindi in Kafka tutto è pieno di senso, dall’altra ogni cosa è insaturabile dall’interpretazione, la quale non può infine non pietrificarsi in un silenzio minerale. Nella propria evidenza polverosa e spettrale tutto rimanda in modo estraniante e estenuato ad altro, ma questo altro è la parvenza estrema che le cose lasciano prima del loro svanire, schiantate dalla impercettibile e mostruosa irruzione dell’infinito in esse. In Kafka dunque pervenire — tornare? — all’assoluto non significa giungere alla contemplazione di una presunta integrità originaria, ma piuttosto ferirsi a morte attraversando un ordinatissimo paesaggio di abbacinati rovine.

Hans Poelzig, Grosses Schauspielhaus (Berlin)
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