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Da un mio immobile disseminarmi
Pessoa e il linguaggio come teatro di una egologia apofatica*

di Giuseppe Crivella

9 maggio 2016



Abstract: the paper provides an analysis of Pessoa’s Livro do Desassossego, read on the basis of a clear perspective: the eclipse of the speaking subject in favor of the emergence of an impersonal language. Two notions of classical rhetoric recur here in order to show the process of expulsion of the persona loquens: aposiopesis and hypotyposis.

Keywords: Pessoa, Livro do Desassossego, Mallarmé, Heteronym, Abolition of subject.


A Àguia era il nome della rivista — ancora vicina come orientamento estetico a suggestioni e influenze marcatamente simboliste — a cui poco più di un secolo fa Pessoa inviò un suo frammento in prosa, il quale ben presto sarebbe diventato il primo germe di quel testo solcato da brevi immensità fatte linguaggio — a metà tra Novalis e il Baudelaire di Mon cœur mis à nu, [1] vicino a Nietzsche per la predilezione del taglio aforistico dato all’espressione del pensiero [2] e a Lo Zibaldone Leopardiano — riemerso solo molti anni dopo la morte dell’autore, avvenuta nel 1935, e pubblicato nel 1982 col titolo emblematico di Livro do Desassossego, Libro dell’Inquietudine. [3]

Da esso, occupando silenziosamente tutta la siderale distanza che separa in una vasta vacillazione di intenti e forme il noetico dal magmatico, Pessoa emerge col fioco rilievo d’una palpebrante falda psichica, nel cui indefinito assottigliarsi un nervoso smottamento di maschere non smette di prodursi, proiettando sparsi sembianti di corpo là dove una bianca penombra si è appena ritirata, col moto felpato d’una lacrima che righi di notte il fermo volto di una statua.

Estroflesso dal proprio estenuato circuito di identità lineate sullo sfrangiato profilarsi di una persona divenuta precipizio, Pessoa scelse ben presto di trasformarsi nella sfibrante emanazione d’una membrana mentale tesa fino al lacerarsi dei tessuti deputati alla registrazione degli accidenti esterni, oltre il limite ibrido della parola e del pensiero, dove cioè non solo parola e pensiero si dissociano l’uno dall’altra, ma sono attraversati da lesioni, dove affiora un sensorio disincarnato ed informe, le cui fitte terminazioni nervose svettano e si diramano quali filamenti sradicati da ogni corpo connettivo addentrandosi così nelle spire d’un vuoto contrattile.

Pessoa non abitò ma fu questo vuoto, gremito di scrittura, d’una scrittura notturna e cerebrale trafitta dalle asimmetriche flessioni di scorie percettive allestite a scenario ove lasciar esibire in uno spettacolo effimero e segreto quella sottile calca d’eteronimi [4] nel cui incessante tremito egli aveva deciso di dissolversi: «mi separo da me e vedo che sono il fondo di un pozzo». [5]

Ai nostri occhi egli, divenuto appunto emanazione di quella membrana — satura del portato eteroclito d’una tale acutezza sensibile che non riesce mai a trovare pieno sfogo — ha fatto a sé ciò che Fontana fece alla pittura: in entrambi i casi le eccessive tensioni delle superfici-limite — la superficie specchiante della coscienza e la superficie opaca della tela — si sono risolte in un taglio, in un’apertura misteriosamente spalancata su ciò che è destinato ad essere esposto proprio in forza della sua assediante inaccessibilità, versante insituabile d’una dislocazione dove il dentro è isotopico ad un’esteriorità a cui sia precluso ogni fuori, varco puramente mentale dunque tra due fronti allineati in una perfetta equivalenza di valori, grazie ai quali i continui movimenti di entrata e di uscita pongono sempre da capo i medesimi interrogativi afferenti la sfocata pluridimensionalità d’ogni ubicazione immaginaria del reale.

Attraverso tale varco, che non immette in nessun dentro e non espelle verso alcun fuori o, forse, che immette in troppi fuori ed espelle verso un dentro innumerevole e poroso, una maceria di rimembranze filtra lungo i margini erosi di tempi morti, ove la storia del mondo e il circoscritto divenire d’una coscienza soggettiva sprofondano insieme, coincidendo nel lentissimo crepuscolo di un’anima tramata sui lividi grovigli di distanze interiori. Ecco nella prosa 439 del Libro dell’inquietudine in che modo l’autore narra questo processo:
sono un’assenza di saldo di me stesso, un equilibrio involontario che mi lascia desolato e mi indebolisce.
Tutto ciò che ho scritto è grigio. Si potrebbe dire che la mia vita, anche quella mentale, era una giornata di pioggia monotona in cui tutto è penombra e non-avvenimento, privilegio vuoto e ragione dimenticata. Mi sento sconsolato come seta lacerata […].
Il mio umile sforzo di dire almeno chi sono, di registrare, come una macchina di nervi, le minime impressioni della mia vita soggettiva e acuta, tutto questo si è svuotato come un secchio in cui si è inciampato, e si è completamente sparso per terra come acqua […]. Sono naufragato senza una tempesta in un mare dove si può stare in piedi. [6]
In tal senso l’inquietudine fu per Pessoa l’unico modo tramite cui egli riuscì a coincidere con il limite mobile, con l’orlo mosso di una figura in cui potersi riconoscere e attraverso cui poter essere smascherato nella sua rarefatta esistenza di osservatore anonimo e trasparente. Egli scelse allora di diventare allusione, rimando incerto e costante ad una parte amorfa di se stesso, muovendo però da un luogo ove pareva non esserci nessuno che potesse additare o anche solo suggerire una direzione di ricerca, un tracciato di scoperta, una indicazione per il suo sparso ritrovamento. Ma farsi allusione non bastava.

Pessoa sapeva che alludere è costeggiare le cose, avvicinarle soltanto, sfiorarle senza conoscerle, coglierle da una distanza che, seppur minima, le rende irrevocabilmente sfuggenti, elusive, enigmatiche. Egli si propose allora di diventare linguaggio e, all’interno di questo linguaggio, optò per una figura retorica piuttosto negletta, quasi dimentica, lontana nel tempo, simile a un relitto polveroso e consunto, malamente sopravvissuto alla silenziosa e inavvertita estinzione che stava colpendo in quegli anni i manuali di oratoria e bello stile di quasi tutte le lingue. La scelta cadde sull’aposiopesi — più nota come reticenza — vale a dire una sospensione strategica del discorso tessuto attorno ad essa come una corposa ragnatela in cui rimanere felicemente invischiati. Si trattava di perseguire un’opera di sviamento, di verace mistificazione dialettica, di attendibilissimo depistaggio, di adulterazione delle identità traslitterate in un vasto vaneggiare di nomi entro cui far scorrere i mille rivoli di un soggetto fibroso, la cui fisionomia pareva tendere pericolosamente allo sfilacciamento.

L’aposiopesi comincia per sottrazione, introduce da subito ciò su cui calerà il silenzio improvviso e definitivo; ha la forma di una finta che squilibra l’avversario per infliggergli il colpo di grazia, ma al tempo stesso assomiglia ad un gesto che preluda ad una fuga immotivata e istantanea. Fu nella aposiopesi che Pessoa per un attimo intravide forse se stesso, scorgendosi nel momento in cui il linguaggio veniva preso da un capogiro repentino e tenace che lo faceva oscillare nello spazio vuoto di un discorso protratto solo mediante l’astensione da ogni parola ulteriore; simultaneamente asseverativo e elusivo, il linguaggio-pessoa apparve nella aposiopesi come un riflesso assurdamente incrostato sulla superficie di uno specchio dopo la sparizione definitiva dell’oggetto; riflesso isolato ed orfano, immotivata piega della visibilità contrattasi nell’inane riverbero del vuoto.

Ma anche l’aposiopesi a lungo andare finì con il lasciare Pessoa insoddisfatto e deluso. Egli sentiva chiaramente di essere una lacuna eccedente la propria mancanza; da ciò egli dedusse con ferreo argomentare la necessità di identificarsi con un’altra figura, desumendola questa volta dal sacello dei metalogismi. La sua scelta cadde allora risolutamente sulla ipotiposi, figura inversa, contraria, simmetrica e opposta e forse proprio per questo correlativa alla aposiopesi.

Se quest’ultima infatti lavorava per sottrazione e sospensione, interruzione e inibizione — l’aposiopesi non è altro che una danza di segni distribuiti lungo il contorno sfrangiato di una parola che non deve essere proferita, ma deve in qualche misura risultare avvertibile nel doppiofondo di tutto il discorso — in modo da illudere e convincere l’ascoltatore che quel poco che è stato detto abbia un seguito soltanto forzosamente postulabile, appena accennato, tanto alluso quanto eluso, l’ipotiposi procede per accumulo, moltiplica i dettagli, trasforma l’insieme ora in un ricco tratteggio stilizzato di aspetti secondari che improvvisamente balenano in primo piano, ora in una trascrizione apparentemente iperrealista — in realtà ad altissimo contenuto allucinogeno — gravida di considerazioni intensamente finalizzate ad amplificare in maniera inarginabile il quadro di riferimenti che dovrebbe offrire la giusta distanza per mettere a fuoco la figura centrale.

Con l’ipotiposi Pessoa poteva finalmente essere libero di essere tutto. Lo spazio della aposiopesi era vasto, ma anche troppo precisamente sagomato sul suo franto profilo di scomparse: un movimento azzardato, un gesto un po’ scomposto lo avrebbe tradito, rendendolo goffamente avvertibile, costringendolo a rimettere un piede al di fuori di quel linguaggio che egli voleva assolutamente essere senza residui, un linguaggio forse affine ad un soffio. Ecco quindi come egli stesso si ritrasse in una delle prose finali del Libro dell’inquietudine:
vago soffio di ciò che non oso vivere, languido sospiro di ciò che non ho potuto sentire, sussurro inutile di ciò che non ho voluto pensare, vai lento, vai pigro, vai nei vortici che ti aspettano e per i declivi che ti si presentano, vai verso l’ombra o verso la luce, fratello del mondo, vai verso la gloria o verso l’abisso, figlio del Caos e della Notte, ricordando sempre, in qualche tuo angolo remoto, che gli Dèi sono venuti dopo e che anche gli Dèi passano [7].
Nell’ipotiposi l’identità è un costrutto intensivo, dinamico, trasversale. Assomiglia ad una risonanza latente sotto la superficie delle cose più distanti e disparate. Il suo contorno è una interminabile linea fratta che invece di delimitare espande l’orizzonte della propria definizione. Nell’ipotiposi inoltre l’io è una screziata forma mentis nel punto sorgivo della quale la realtà si condensa prima e si consuma poi, nell’ostinato rifrangersi di una molteplicità di immagini che invece di ritrarre il mondo nella sua ferma compattezza, lo dissaldano, lo vaporizzano, gli conferiscono una sorta di esile esistenza gassosa portandolo così fino a dileguare in un freddo tremito di resti irriconoscibili: «non so chi sono o cosa sono. Come qualcuno sepolto sotto un muro crollato, giaccio sotto la vacuità precipitata dell’universo intero». [8]

Vista in tal senso, l’ipotiposi è una sonnambolica dilazione concessa all’essere prima del suo risveglio in forma di mondo, è una pausa indeterminabile durante la quale il linguaggio indugia nella più serrata prossimità agli oggetti per vederli e per ricordarli a partire dal rovescio della loro apparenza consueta. L’ipotiposi accumula, moltiplica, intensifica in un approccio percettivo alla realtà che sospende ogni ordine di rassomiglianza: pensare quindi significa ora addentrarsi in una tenebra sperimentale, ove la voce diventa l’attore attonito di una memoria impersonale, lo sguardo l’abitante di una materia indocile che fa della propria forma un esercizio di agitazione simbolica, il corpo il fenomeno di una ubiquità verticale e senza movimento, la scrittura un urto di evidenze in attesa nel punto di incrostazione dell’invisibile. Infine l’ipotiposi rappresenta una preliminare forza di estenuazione applicata lungo le penombre dell’ovvio, quasi a sollecitare la parola e il pensiero ad una visitazione larica del mondo contemplato in uno stadio infinitamente anteriore rispetto alla sua condizione presente, in una sorta di metempsicosi della realtà stessa che, prima di dissolversi definitivamente in mille rivoli, appare per l’ultima volta come l’immensa metafora della malinconia di un dio:
cose informi e soavi, meraviglie di profonda impressione, senza immagini, senza emozioni, limpide come il cielo è l’acqua e risuonanti come spirali che si stramano sul mare che si ingrossa dal profondo di una grande verità: cose tremule di un azzurro obliquo in lontananza, verdeggianti all’arrivo con trasparenze di altrettanti toni verde-sporco e, una volta infrante, stridendo, le mille braccia sfatte e distese sulla sabbia scura e sulla schiuma non più spumeggiante, riunendo in sé tutte le risacche, il ritorno alla libertà originaria, le nostalgie divine, i ricordi, come questo che, privo di forma, non mi dava dolore […], un corpo di nostalgia con l’anima di schiuma. [9]
Pessoa pertanto aveva capito che proprio là dove egli supponeva di poter scomparire riassorbendosi senza resto in uno spazio neutro di sospensione e raccolta rispetto a tutto ciò a cui egli alludeva per sottrazione, in realtà egli finiva per svelarsi, per tradirsi, per manifestarsi come un segno indicante infinitamente se stesso, la sua personalità, il suo luogo di incerto nascondimento; l’aposiopesi, invece di sottrarlo allo sguardo, lo ostentava in una brutale opera di denudamento e smascheramento che avrebbe finito per scarnificarlo. Ecco perché l’unica contro-mossa legittima ad essa poteva essere solo l’ipotiposi. Il moltiplicarsi dei nomi, l’intensificarsi e il sovrapporsi di biografie immaginarie e autobiografie altrui, costruite tramite il montaggio combinatorio di lacerti smembrati e giustapposti, cascami residuali ma ancora reciprocamente reattivi, spoglie mutile di vite reali protese ora però verso un punto di liquefazione immaginaria rivitalizzata da una potente inventività lirica. È nelle prose 205 e 206 che Pessoa illustra con estremo nitore metodologico tale stato di cose:
quante cose, considerate nostre, sono soltanto qualcosa di cui noi siamo o specchio perfetto o involucri trasparenti […].
Più medito sulla nostra capacità di illuderci, più scivola fra le mie dita stanche la sabbia fina delle certezze svanite. E tutto il mondo sorge, in momenti in cui la meditazione mi si trasforma in sentimento e quindi la mente si obnubila, come una nebbia fatta di ombra, un crepuscolo degli angoli e degli spigoli, una finzione dell’interludio, una dilazione dell’alba. Tutto mi si trasforma in assoluto morto di se stesso, in una stagnazione di particolari. E i sensi stessi con cui trasferisco altrove la meditazione per dimenticarla, sono una specie di sonno, qualcosa di remoto e consecutivo, un interstizio, una differenza, casualità di ombre e della confusione […].
È questa la mia morale o la mia metafisica: o io, viandante di tutto – anche della mia stessa anima – non appartengo a niente, non desidero niente, non sono niente – astratto centro di sensazioni impersonali, specchio senziente caduto rivolto verso la varietà del mondo... [10]
L’identità pessoana diviene così un esoscheletro cavo e multiforme, una risonanza vaga ma persistente, vasta e remota dal cui livido e immateriale spaziarsi prende forma la presupposizione dei possibili rimasti ai margini di realtà, negati dal passato ma legati ad un futuro come proiezione astratta di vicissitudini e tracolli che scolpiscono un’idea frantumata di persona. E per dare consistenza a tutto ciò, l’unica via era farsi linguaggio, assimilare la sua esistenza scoscesa, diventare la parola che oltrepassa la linea mediana dell’essere sezionandola in una specularità alienata di corrispondenze senza rapporto, seppur sinistramente concordanti. Nella visionaria prosa 49 l’alzarsi del vento nel giro di poche frasi descrive la parabola stessa del mondo, dal suo fioco sorgere fino ad un inavvertito cataclisma cosmico:
si è alzato il vento...Dapprima era come la voce da un vuoto, un soffiare nello spazio interno di una cavità, un’assenza nel silenzio dell’aria. Poi è emerso un singulto, un singulto dal silenzio del mondo, il rumore di vetrate scosse, che era davvero vento. Infine è risuonato più alto, urlo sordo, come un piangere davanti all’avanzare della notte, uno stridere di cose, un cadere di frammenti, un atomo di fine del mondo. [11]
Un vasto sistema di incoscienze erano il mondo e la vita per Pessoa, calibratissimi congegni di inconsapevole e fortuita perfezione che nel loro indefettibile funzionamento puntualmente finivano col far deragliare il pensiero fuori dai logori cardini di una realtà sonnolenta, sopraffatta dal fiacco splendore di un quotidiano inghiottito senza riscatto nelle sabbie mobili della coscienza.

Il linguaggio si presentava allora come una presenza sinistramente accerchiante; sui suoi margini le parole si stagliavano come il livido respiro proveniente dal torbido sonno infinito delle cose, raccoltosi però in forma di natura al fondo di quello scintillio in cui la voce si fa volto e la luce massa oscura di acque sulle cui rabbrividenti increspature il tempo si lacera trasformandosi in un pianto inestinguibile.

Ma dove inizia il tempo? E che cos’è il tempo in una mondo siffatto? Per chi visse una vita plurima e franta, esso non poté che essere uno spazio discontinuo, il luogo di una evidenza rappresa attorno all’illimitato contrarsi di uno sguardo fatto d’ombre e cenere. Come un legno che affonda e riaffiora in un rollio estenuante e ritmico, il tempo delle esistenze trasversali di Pessoa si sviluppò per interruzioni continue e precise, una calcolata epilessia di parvenze nel cui iridescente spirare i nomi brillarono come le tracce immemoriali di una identità ramificata e scomposta, slogata in un labirintico intrico di ipotesi dal cui centro il volo spezzato di una libellula si librava come l’ultimo ansimare di un moribondo senza volto che mimi l’oblio a cui sembra condannato, adibendo però i nomi propri che di volta in volta sceglieva come sue trascorrenti controfigure a preziosi reliquari ove custodire le flebilissime tracce sparse della propria felice scomparsa concentrica: «viviamo quasi sempre fuori di noi e la vita stessa è una continua dispersione. Però tendiamo verso noi stessi, come verso un centro intorno al quale, come i pianeti, compiamo ellissi assurde e distanti. Sono più vecchio del Tempo e dello Spazio, perché sono cosciente». [12]

Il tempo per Pessoa non scorreva, non fluiva, non si spostava secondo una linea unitaria: esplodeva silenziosamente in un pulviscolo di brevi segmenti irrelati, erigeva frontiere labilissime tra i soggetti che abitavano la sua scrittura con la tenue fosforescenza di una immagine trafitta dalla luce che avrebbe dovuto renderla visibile e comprensibile. Il tempo per lui non seguiva una linea retta quindi, ma scavava cunicoli disordinati, rendeva comunicanti lontananze terrestri inassimilabili. Aderente alla caduca consistenza delle cose, anche il tempo diventava linguaggio e il linguaggio trascolorava in corpi sabbiosi, in maschere intrise della inguaribile malinconia delle statue. [13]

Pessoa non abitò alcun tempo perché cercò di esserli tutti contemporaneamente, assumendone ora la loro natura astrattamente informe, risolta in un istante senza durata, incassata nella gelida fissità dell’eterno come un chiodo inavvertibile, ora assimilando in sé la loro conformazione pulviscolare, sparsa nel divenire come una confusa costellazione di ritorni in cui le somiglianze apparenti celano abissi di incolmabili difformità. Si legga a titolo d’esempio la prosa 28 che non a caso inizia coll’immagine dirompente di un orologio solitario e funereo che lacera la compatta placidità del silenzio mattutino per lasciar cadere un quadruplo rintocco come una sconosciuta massa inerte e pesante: cessare, dormire, sostituire questa coscienza intermittente con migliori cose melanconiche sussurrate in segreto a chi non mi conoscesse...Cessare, passare fluido e liquido, flusso e riflusso di un vasto mare, su coste visibili nella notte in cui veramente si dormisse...
Cessare, essere incognito ed esterno, movimento di rami in viali lontani, tenue cadere di foglie, avvertito più per il suono che per la caduta, alto mare sottile di zampilli in lontananza, e tutto l’indefinito dei parchi della notte, perduti in grovigli continui, labirinti naturali della tenebra. [14]
Ed ancora, nella prosa 24 il tempo appare come un traslucido accumulo di eventi sparpagliati nelle ramificate propaggini di un divenire recalcitrante ad ogni logica di sviluppo lineare:
tutto è ciò che siamo e tutto sarà, per coloro che ci seguiranno nella diversità del tempo a seconda di come noi lo avremmo immaginato, ossia a seconda di come saremo veramente stati con l’immaginazione inserita nel corpo. Non credo che la storia, nel suo grande panorama sbiadito, sia niente di più di un decorso di interpretazioni, un consenso confuso di testimonianze distratte. Il romanziere è tutti... [15]
Il tempo, abbiamo detto, non scorse per Pessoa, ma piuttosto trascorse in una astratta vastità di eventi, luoghi, personaggi che costituirono il visibile rovescio di quella scenografia ambulante [16] che egli aveva scelto di diventare, beffardo e impronunciabile sinonimo di un mistero che non cessava di chiudersi su se stesso, facendo in tal modo della propria esibizionistica ritrosia il trasparente avvolgimento di un linguaggio sepolto nella rivelazione puntuale di questa manomissione dell’identità, un linguaggio cioè che si svelava solo a partire da quell’oltre da cui non si dà più possibilità di espressione, attorto in una tessitura sotterranea di parole che designano e significano unicamente nella generazione di un testo postumo, liquido e incandescente.

In seno ad esso Pessoa si collocò come in una cavità ardente gremita di significati, soglia aleatoria di un linguaggio in cui il parlante — i parlanti — costituisce il doppio versante di una medesima superficie verbale. Nel pieno della massa fisica della voce — unica massa ormai rimasta — all’interno di ciò che la riempie facendola materialmente spessa, vibrante, sonora, vediamo sorgere gli elementi della sua identità come sfaccettature puntiformi subito rituffate nelle venature di un altro blocco verbale, avviluppata nel volume coperto dalla esplosione segreta delle parole e delle immagini che avrebbero dovuto rendere riconoscibile quella identità:
tutto quello che nella vita ho cercato, io stesso lo devo ancora cercare. Sono come qualcuno che cerchi distrattamente quello che, cercato nel sogno, abbia ormai dimenticato che cosa fosse. Il gesto reale delle mani visibili che cercano, rigirando, spostando, fissando e che esistono bianche e lunghe, esattamente con cinque dita ciascuna, diventa più reale della cosa assente, cercata.
Tutto ciò che ho avuto è come questo cielo alto e diversamente lo stesso, brandelli di niente toccati da una luce distante, frammenti di falsa vita che la morte da lontano indora, con il suo triste sorriso di assoluta verità. Sì, tutto ciò che ho avuto è stato il non aver saputo cercare, signore feudale di paludi al crepuscolo, principe deserto di una città di tumuli vuoti. [17]
Pessoa di volta in volta fu ognuna di queste immagini e, nell’incarnarle, le obliava, facendosi simile alla vuota lente di un microscopio tramite cui osservare da una nascosta prossimità l’imprevisto decomporsi delle cose nella pensante ebollizione [18] di una scrittura che non designava null’altro se non il momento di medusea rarefazione a partire dal quale l’ego iniziava ad abolirsi sparpagliandosi in un mosaico di direzioni perdute lungo i bordi di quella strana presenza che coincise oscuramente col cerchio di parole e oggetti solitamente chiamato mondo; illuminante in questo senso è la prosa 294 dedicata alla vita dei particolari:
per me i particolari sono cose, voci, lettere. Sul vestito di questa ragazza davanti a me scompongo il vestito nel tessuto in cui è composto, il lavoro con cui lo hanno fatto e il delicato ricamo che orla la parte intorno al collo mi si divide in vergole di seta […]. Immediatamente, come in libro di base di economia politica davanti a me si sdoppiano le fabbriche e il lavoro, la fabbrica dove è stato fatto il tessuto, la fabbrica dove è stata fatta la vergola, di una tonalità più scura, con cui si orla di cosette ritorte il suo punto vicino al collo; e vedo i reparti della fabbrica, le macchine, gli operai, le sarte, i miei occhi rivolti all’interno entrano negli uffici, vedo gli amministratori cercare di stare tranquilli, seguo, sui libri, la contabilità di ogni cosa; ma non è solo questo: vedo anche la vita domestica di coloro che vivono la loro vita sociale in quelle fabbriche e in quegli uffici...Tutto un mondo si srotola davanti ai miei occhi solo perché ho di fronte a me, sotto un collo olivastro, che sul lato opposto ha un volto che non conosco, un’orlatura irregolare di un verde scuro regolare sul verde chiaro del vestito. [19]
Il tempo, in ultimo, agli occhi di Pessoa assomigliava ad un cielo pietrificato e sconnesso, dalle cui dissestate commessure filtrava il soffio di una perennità sordamente circolare, ripetitiva, claustrale e immota. Da punti sparsi di quel cielo la memoria cadeva in forma di sconosciuta vegetazione, agonizzante e vibratile, strisciante e avvolgente, insinuatasi fin nei più sottili spiragli del linguaggio che sembrava d’improvviso volersi aprire lasciando sorgere dai suoi penetrali più riposti lo smaltato silenzio di una figura che mostrasse se stessa nell’atto di mostrare qualcosa che non potrà essere mai mostrato, in un raggiante duplicità di sensi che rendevano le parole al tempo stesso biforcute e monolitiche. Memoria stranamente e strenuamente lotofaga, quella di Pessoa, attorniata da un monotono affiancarsi — e sfiancarsi — di tempi simili a corolle vizze, a dita tremule e inferme di mani scheletriche che incisero nella notte il perimetro della loro interminabile fossa destinata a rimanere vuota. [20]

Inosservato egli ancora giace in quella fossa, simile a un osso di balena polito che brilli nella cecità di tutte le notti, mentre il suo corpo diventa un giardino gelido attraversato da vicoli tenebrosi o, innalzandosi grado a grado, un tempio fresco nella cui inaccessibile cella centrale ancora oggi è custodito il ticchettio degli orologi fermi, il lampo interminabile di una mente tramutatasi in sedimento minerale, un bianco deserto di silenzi, l’eco immobile e irreale del crepuscolo, le innumerevoli cavità vitree del mare aperto che si insinua nel denso sussurro della terra piumata di buio.

Pessoa appare dunque come il luogo geometrico d’una dissipazione perpetrata con lucida ostinazione, senza resto alcuno di tutti i possibili sorti nella tragicomica intersezione di lacerti d’esistenze che riescono ad assumere spessore e peso solo nel reciproco confliggere ed escludersi, sebbene alla fine tutti collimanti in un punto di fuga sparpagliato e intermittente.

Più o meno negli stessi anni in cui Rilke formulava la nozione del Weltinnenraum [21] — lo spazio interiore del mondo — Pessoa perpetrava quello strazio interiore dell’io che lo avrebbe condotto a trasformarsi in una vibratile fistola attraverso cui gli scompaginati impulsi del reale venivano a depositarsi in una scrittura incuneata tra frante risonanze d’Altrove.

Ad un passo da Mallarmé, siamo sull’orlo instabile lungo il quale il Libro dell’Inquietudine rischia di diventare l’Inquietudine del Libro fattosi discorso della sincope ove intercettare
ce dégagement multiple autour d’une nudité, grand des contradictoires vols où celle-ci l’ordonne, orageux, planant l’y magnifie jusqu’à la dissoudre: centrale, car tout obéit à une impulsion fugace en tourbillons, elle résume, par le vouloir aux extremités éperdues de chaque aile […], morte de l’effort à condenser hors d’une libération presque d’elle des sursautements attardés décoratifs des cieux, de mer, des soirs, de parfum et d’écume. [22]
e in cui Pessoa vedeva riflessa la sua eretica esperienza del reale, una sorta di empirismo eretico che probabilmente, quando egli alzava gli occhi al cielo, non gli faceva scorgere altro che il fondo di un abisso. Ignoto segno schiantato dalla schiuma di significati vani, paesaggio d’eteree latitudini annegate nel duro rarefarsi del ricordo, malata madreperla di nebbie e abbandono, di solitudini e tramonto, immoto astro che brilla fosco al fondo delle paludi del desiderio, dai confini della sera Pessoa giunge ancora a noi come un filo di fumo senza origine, decorazione distante di sangue e peste, interpretazione torrenziale e precisa di un testo assente, interminabile dialogo d’ombre in cui le voci sono rappresentate da un’unica fiamma dalla molteplice cima parlante e dove un freddo riverbero di sillabe sembra perdersi nei meandri di un corpo trasparente.

«Cos’è questo intervallo tra me e me?», [23] si chiese una volta Pessoa: fu questo l’unico caso in cui egli riuscì a riconoscersi in qualcosa di concreto, identificandosi completamente col punto interrogativo che chiude la domanda.


* Il presente saggio è stato presentato come dissertazione di dottorato nel corso di un ciclo di seminari di Letterature comparate svoltosi presso l’Università degli Studi di Perugia durante l’Anno Accademico 2014-2015. Relatore del seminario su Pessoa era il Prof. Brunello de Cusatis, che qui ringrazio per l’opera di cortese lettura di cui ha fatto oggetto questo scritto prima della pubblicazione.

[1] In effetti è difficile non vedere una analogia precisa tra l’incipit di questo frammentario testo baudelairiano, in cui expressis verbis si parla della vaporisation du moi, con numerosi passi dell’opera di Pessoa.
[2] Per una precisa puntualizzazione di ciò che qui intendiamo con taglio aforistico rimandiamo alle capillari osservazioni che Blanchot dedica a questi aspetti in M. Blanchot, L’entretien infini, Gallimard, Paris 1969, pp. 234-256.
[3] F. Pessoa, Libro dell’inquietudine, ed. it. a cura di P. Ceccucci, trad. a cura di P. Ceccucci e O. Abbati, Newton Compton, Roma 2006. Da ora in nota sempre abbreviato con LI seguito dal numero di pagina.
[4] È possibile dare una definizione di eteronimo? Lungi dal voler dare una risposta esaustiva a questa domanda, lasciamo la parola a Pessoa, al fine di tentare una determinazione più precisa del concetto in questione: «Ho creato in me varie personalità. Creo costantemente delle personalità. Ogni mio sogno, subito dopo essere apparso come sogno, si incarna in un’altra persona, che a sua volta lo sogna e non io». Ivi, p. 207.
[5] Ivi, p. 271. Corsivo nostro.
[6] Ivi, p. 297.
[7] Ivi, p. 313.
[8] Ivi, p. 136.
[9] Ivi, p. 145.
[10] Ivi, p. 151 e 153.
[11] Ivi, p. 43.
[12] Ivi, p. 158.
[13] Si legga a titolo di esempio la chiusa della prosa 217 in cui Pessoa, dopo aver evocato le rigorose coscienze analizzatrici del tempo e dello spazio appartenute a uomini come Platone, Scoto Eriugena, Kant e Hegel, conclude definendosi «statua interiore senza contorno […], un vacuo, un’illusione di anima, un luogo di un essere, una oscurità della coscienza dove uno strano insetto […] cerca invano almeno il caldo ricordo di una luce». Ivi, p. 159, corsivi nostri.
[14] Ivi, 27.
[15] Ivi, p. 24.
[16] «Sono stato recitato. Sono stato non l’attore, ma i suoi gesti». Ivi, p. 32.
[17] Ivi, p. 157.
[18] Cfr. le battute finali della prosa 53: «che certezza è questa registrata da una fredda lente. Chi sono io?». Ivi, p. 47. Qui la lente appartiene ancora ad un campo di discorso afferente alla illusoria precisione della scienza. Non è un caso che qualche pagina dopo, nella folgorante ouverture della prosa 88, Pessoa riprenda la metafora dello strumento ottico di precisione – la prospettiva, nello specifico – sovvertendone radicalmente la ratio operativa: «ogni punto di osservazione è un apice di una piramide rovesciata la cui base è indeterminabile». Ivi, p. 72.
[19] Ivi, p. 206-207. Corsivi nostri.
[20] Simmetrica e inversa a questa fossa è la notte che nella prosa 29 «al fondo di tutto» diventa «la tomba di Dio». Ivi, p. 28. A proposito dell’inquietudine religiosa cfr. B. de Cusatis, O desassossego religioso de Fernando Pessoa, in Nova Aguia, n. 15, 14/12/2014.
[21] Facciamo qui naturalmente riferimento alla testo n. 51 delle Vestreute und nachgelassene Gedichte in cui compare per la prima volta il termine /Weltinnenraum/. Per una precisazione del termine cfr. R. M. Rilke, Poesie 1907-1926, ed. it. a cura di A. Lavagetto, Einaudi, Torino 2000, soprattutto pp. 692-699.
[22] S. Mallarmé, Igitur, Divagations, Un coup de dés, ed. de B. Marchal, Gallimard Poésie, Paris 2003, p. 209: «Questo multiplo sprigionarsi attorno ad una nudità, vasto dei voli contraddittori in cui essa si ordina, tempestoso, planando ve la magnifica fino a dissolverla: centrale, perché tutto obbedisce a una spinta fugace in forma di turbini, essa riassume mediante il volere perduto alle estremità di ogni ala […], morta per lo sforzo di condensare al di fuori di una liberazione quasi da essa degli attardati soprassalti decorativi di cieli, di mare, di sere, di profumo e schiuma». Traduzione nostra.
[23] LI, p. 212.

Meredith Frampton, Trial and error (1939)
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