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La prosa lirica dell’oscurità: il Notturno di D’Annunzio
di Marco Nicastro

3 febbraio 2016


«Questo che ti racconto è vero, ma lo voglio mettere
fuori del tempo e fuori del limite».

G. D’Annunzio, Notturno


Prendere un nuovo, più autentico contatto con sé stesso, tornare «poeta puro» dopo anni di arte messa al servizio della retorica della guerra, è l’evento centrale del densissimo racconto autobiografico scritto da Gabriele D’Annunzio nel 1916, a seguito di un incidente aereo realmente occorsogli che comportò la perdita dell’occhio destro.

Fin dal motivo scatenante la nascita del testo — la malattia appunto — l’autore testimonia ancora una volta quella fedeltà all’idea dell’inscindibile unione tra arte e vita che lo aveva reso famoso. In questo caso, più che l’esaltazione mitica delle proprie imprese è la vita nel suo versante più oscuro — il dolore per la perdita di una parte di sé, il lutto quindi — a nutrire l’opera del poeta. [1] In una prosa frammentaria, solcata da numerose intuizioni analogiche in un continuo andirivieni temporale, D’Annunzio amplifica, in stato di quasi assoluta immobilità, il rigoglio sensuale tipico del suo scrivere, infarcendo la narrazione di descrizioni sinestesiche e materiche: «Sento in tutta la mia attitudine la rigidità di uno scriba egizio scolpito nel basalto (p. 6); «vedo la sabbia corrugata dal vento, rigata dall’onda […] ora la stanza è muta d’ogni luce, […] l’orlo della retina strappata brucia accartocciandosi» (p. 7). Il fuoco di «un’arte nuova» inizia a bruciare in quella obbligata oscurità, con lo spirito dello scrittore che si scuote dal suo torpore in un atteso afflato creatore: «[…] dalla prima ansia confusa risorse il bisogno di esprimere, di significare» (p. 6).

La frustrazione e il dolore dunque, fedeli compagni del momento, riattivano centri reconditi dell’essere che — se presenti, se attivabili — danno all’artista la spinta decisiva verso nuove elaborazioni nutrendo la sua ispirazione. Una condizione quasi mitica, quella vissuta e descritta dall’autore durante il suo breve calvario; un riavvicinamento insperato al proprio nucleo vitale più profondo ben simboleggiato, per analogia, dal ricordo che squarcia le tenebre di una cavalcata accecante nel deserto libico, in un tempo non meglio precisato. Un percorso di rinnovamento artistico reso possibile dal dolore della deprivazione sensoriale, base dell’esistenza che ci garantisce il quotidiano aggancio alla realtà ma anche possibile fonte di interferenze per lo spirito e la purezza dell’ispirazione.

La condizione da infermo pone dunque le basi per una rinascita creativa, sempre agognata da ogni artista, alla ricerca di quel sacro fuoco che fondi d’improvviso «l’antico e il nuovo in una lega incognita» (p. 8). La «potenza creatrice» è, infatti, l’elemento che tiene in vita psichicamente l’artista; ma essa pare giunga soltanto dall’oscurità, quando «nuovi limpidi occhi» gli permettono di osservare in modo nuovo «la bellezza e l’orrore della vita».

Nello stato di «mistica ebbrietà» descritto da D’Annunzio, la realtà interiore e quella esteriore si confondono continuamente in una sorta di terribile lucida follia. Non c’è creazione artisticamente autentica senza il rischio di impazzire, pare dirci, anzi la creazione potrebbe essere intesa come un percorso esaltante e pericoloso sul ciglio della follia: un temporaneo sporgersi a osservare l’abisso (di sé stessi, della realtà) rischiando di cadere. Così, immagini provenienti dal passato — frammenti in cui arte e vita si mescolano inesorabilmente — si riattivano vivide nella mente dello scrittore allettato e si mescolano al senso di impotenza e al dolore, confondendolo e turbandolo come fossero allucinazioni. Sono, ad esempio, le immagini della mitica battaglia aerea in cui D’Annunzio era rimasto ferito, o quelle di un artiere pazzo e solo, [2] che dopo l’incipit della sua malattia mentale aveva preso l’abitudine di plasmare ossessivamente un pezzetto di cera tra il pollice e l’indice della mano destra che teneva sempre in tasca.

Lo stato di alterazione rivitalizza la capacità sensoriale dell’autore; si moltiplicano le descrizioni di quegli stati di eccitazione della sensorialità e di immersione panica nell’elemento naturale che tanta parte hanno nell’arte di D’Annunzio: «La primavera entra in me come un nuovo tossico. Ho le reni dolenti, […] ascolto. Lo sciacquio della riva lasciato dal battello che passa. I colpi sordi dell’onda contro la pietra grommosa. Le grida rauche dei gabbiani, i loro scrosci chiocci, le loro risse stridenti, le loro pause galleggianti. Il battito di un motore marino. Il chioccolìo sciocco del merlo. Il ronzio lugubre d’una mosca che si leva e si posa. La gocciola che cade nella vasca da bagno. Il gemito del remo nello scalmo» (p. 73). In queste brevi pennellate descrittive, che mantengono un ritmo incalzante, la scrittura si riempie di allitterazioni in un confondersi frequente della dimensione semantica con quella sonora della lingua: «La parola che scrivo nel buio, ecco, perde la sua lettera e il suo senso. È musica» (p. 77).

Nell’oscurità della malattia il poeta si ritrova, si riconosce artista vivo unificando aspetti di sé prima dispersi; e come un nuovo Adamo scopre le cose e cerca di rinominarle: «Davvero dunque la malattia è d’essenza magica? Tutto è presente. Il passato è presente. Il futuro è presente. Questa è la magia. Nel dolore e nelle tenebre, invece di diventar più vecchio, io divento più giovine. […] L’occhio è il punto magico in cui si mescolano l’anima e i corpi, i tempi e l’eternità. […] Scopro nelle cose una qualità fisica nuova. […] quali nomi darò alle costellazioni che tremano nelle lontananze del mio dolore?» (p. 75, corsivo mio). Un processo in cui dunque il suono si confonde con il significato e le percezioni interne con quelle esterne; un processo sinestesico in cui il poeta con voluttà si perde per ritrovare nuove dimensioni percettive e creative.

La condizione d’infermità, prolungata nella memoria, brucia l’essere del poeta fino a fargli toccare il limite di una sorta di incenerimento interiore, ma anche depurandolo e facendogli prendere contatto con la propria essenza complessa e contraddittoria. La condizione di infermità prosciuga il corpo e lo spirito, come accade ad una pianta che si trovi ai margini di un incendio (è proprio questa l’immagine che usa D’Annunzio in un passaggio del testo). Ma l’anima del poeta, proprio come una piantina di felce forgiata dal fatto di essere sopravvissuta al passaggio del fuoco, rinasce ebbra di volizione, ritrovando quel contatto profondo con la vita necessario ai fini della creazione: «L’inerzia di tanti giorni m’aveva imprigionato nel senso della mia sola caducità tra cose inanimate. Ecco che riacquisto l’orecchio del poeta seduto in riva al fiume del tempo: riodo la melodia del perpetuo fluire» (p. 147). Si riattiva nel poeta quella fucina interiore dove si fonda «la sostanza nuova».

Spicca poi su tutte le altre l’immagine della madre persa poco tempo prima (a cui D’Annunzio dedica l’opera), apparizione quasi celeste che permette, nel ricordo, di tornare all’infanzia e rappacificarsi con l’esistenza, piangendo le lacrime profonde e rigeneratrici di quell’età.

Tutto il «commentario» (così egli lo definì) può così essere inteso come una lunga metafora della creazione artistica, la quale necessita, per rivitalizzarsi e rinnovarsi, di una perdita e allo stesso tempo di un ritorno mitico alle fondamenta del proprio essere: alla propria madre cioè e al suo lascito affettivo.

Il Notturno è certamente un libro difficile per lo stile spesso retorico, ripetitivo, appesantito da una ricercata e sovrabbondante aggettivazione. Nel corso del testo D’Annunzio interrompe frequentemente il filo della narrazione, mostrandosi più interessato a ricercare l’effetto sonoro e l’eleganza di una proposizione — oppure a marcare le possibilità evocative di certe costruzioni sintattiche — che a trasmettere al lettore un senso condivisibile. La ricerca è più dell’effetto stilistico e fonico, con alcune peculiarità tipiche del linguaggio poetico — allitterazioni, assonanze, anafore, parallelismi, anastrofi — che rendono il testo un esempio sicuro di prosa lirica. Questi accorgimenti, usati in abbondanza, fanno sì che il nesso tra significante e significato si sfumi, lasciando chi legge avviluppato in un sistema linguistico chiuso che gira narcisisticamente su sé stesso. Chi si accinge al testo si confronterà ben presto con la tentazione di abbandonare la lettura per sfuggire proprio a questa condizione di soffocante eleganza.

L’opera rimane comunque un tentativo coraggioso di descrivere un viaggio umano verso le fonti della creatività, in quel limbo tra realtà e immaginazione, tra oggettività e soggettività che diversi pensatori, specie in ambito psicoanalitico, hanno teorizzato come il “luogo” psichico della creazione. Rimane un testo che, sparse qua e là, ci regala splendide pagine di prosa poetica capaci di emozionare il lettore e di librarsi in alto («c’è una gloria dell’alto e c’è una gloria del profondo», dice D’Annunzio), ma solo quando l’autore esce dal suo ricco e ovattato egocentrismo per attingere ad un rapporto più limpido con le cose. E la malattia diviene l’occasione, non sempre colta, di rendere ciò possibile. Infatti, quando l’io si indebolisce fisicamente diventa meno saldo nei suoi presupposti psichici abituali (di tipo narcisistico, nel caso di D’Annunzio) che lo allontanano, attraverso delle pose difensive, dalla possibilità di una comunicazione emotivamente più diretta col lettore; l’autore riesce così ad abbandonarsi ad un sentire più inerme e diviene maggiormente capace di coinvolgerci in un delicato viaggio verso la comprensione di alcuni processi della creatività umana, recuperando un sentire più netto spogliato da quelle sovrastrutture linguistiche che ingolfano l’affetto e ottundono la visione.

È in questi momenti — in cui si sfalda la megalomania linguistica e viene abbandonata la posa estetizzante per la semplicità del sentimento — che sbocciano descrizioni di puro lirismo, in cui D’Annunzio dimostra appieno le sue capacità scrittorie rinfrancandoci da una lettura per altri versi improba.


*G. D’Annunzio, Notturno, Mondadori (e-book), 2013.

[1] L’autore racconta di aver scritto il testo durante la degenza, in uno stato di quasi completa oscurità della stanza e di immobilità fisica, su alcune piccole strisce di carta (i «cartigli») che preparava meticolosamente la donna che si prese cura di lui in quel frangente. Una condizione che rappresenta metaforicamente l’ideale lirico della creazione poetica, in cui l’artista trae parole dense di significato (per sé, per gli altri) dagli abissi della propria interiorità.
[2] Un tale Vincenzo Gemino, realmente conosciuto in vita da D’Annunzio.

Ercole Sibellato, Ritratto di D'Annunzio monocolo
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