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Foucault: liberismo, neoliberismo, gouvernementalité
di Marco Baldino

6 agosto 2019


«In una critica indiretta ai situazionisti e a Guy Debord, Foucault definiva apertamente il neoliberalismo non come una società del consumo o come una forza di uniformizzazione ma come un “gioco di differenziazioni”» (D. Zamora, «Alla ricerca di una “governamentalità di sinistra”: gli ultimi dieci anni di Michel Foucault», Materialismo storico, n. 2, vol. III, 2017), vale a dire che gli anni della “società dello spettacolo” (il lustro centrale degli anni Sessanta) erano già compresi da Foucault, a differenza di un Debord, come un rifuggire da ciò-che-si-è, all’interno di una determinata configurazione del potere, o di conoscenza, allo scopo di accedere alla libertà di essere «altro», di essere sempre altro (p. 336 dell’edizione inglese).

Riportando alla sua corretta formulazione il pur geniale capovolgimento operato da Karl von Clausewitz, nel 1830, nel suo Vom Kriege (Della Guerra), della nota formula sulla guerra e la politica, Foucault, nel suo corso al Collège de France del 1976, dice che è la politica a non essere che guerra continuata con altri mezzi. Bene. Il liberismo segna una cambio di griglia di intelligibilità storica: dalla politica come “guerra” alla politica come “economia”, anch’essa continuata con altri mezzi ovviamente, quelli della politica parlamentare, della logica della competizione in un campo di regole condivise, dell’instaurazione di una correlazione analogica tra democrazia rappresentativa e regime economico di libera concorrenza. È questo raffinamento analitico che Foucault ha messo in campo nel suo ultimo decennio di vita. La politica come guerra è descrivibile come «conflitto generalizzato», come «lotta all’ultimo sangue», come «contesto in cui tutto è lecito». La guerra non è un modello economico per la vita politica, ma il suo contrario, ad esempio il noto Klassenkanpf di Marx. Il liberismo è invece il tentativo di realizzare una qualche forma di giustizia sociale attraverso un coordinamento tra scelta individuale e Public Choice. Il neo-liberismo, che è l’introduzione dell’etica nel quadro dell’economicizzazione della politica, sorge nel momento in cui ci si rende conto che il principio di concorrenzialità bruta, applicato alla politica, produce nuove ingiustizie. Non si tratta quindi dello scatenamento dell’anomia, del caos mercatizio, ma dell’assunzione del Mercato come modello per analizzare i rapporti di scambio Politico. Può darsi che io non capisca cosa sia la «grande politica», ma non riesco a immaginare altro che un particolare luogo di scambio quando dico: “politica”. Non vedo altra alternativa: o il modello della guerra o quello del mercato. Oppure quello della collusione — in verità ce n’è dunque un terzo. Nel citato articolo sulla rivista Materialismo storico, Daniel Zamora ha sostenuto che Foucault si sarebbe interessato al neoliberismo come strumento per ripensare i fondamenti concettuali della sinistra e per immaginare una governamentalità (il termine è entrato nell’uso anche nella pubblicistica filosofica italiana, deriva da gouvernement, governo, da cui Foucault ha ricavato il sostantivo gouvernementalité, che sta pressappoco per “arte di governare” — dico “pressappoco” perché il suo significato cambia con le epoche o, per essere più precisi, con i regimi di veridizione — più tollerante nei confronti della sperimentazione sociale e forse capace di aprire spazi meno angusti anche per le “pratiche minoritarie” e per una maggiore autonomia del soggetto nei confronti di se stesso. Io penso soprattutto ad una sperimentazione sul piano della trasformazione della propria condizione sociale (sia chiaro che una cosa come il “reddito di cittadinanza” è invece un modo per ribadire l’impossibilità di una trasformazione di sé), ma non sono contrario a quelle microresistenze e a quelle esperienze locali contro l’esercizio verticale del potere a cui forse pensava Foucault. Non mi è chiaro se questo sia per Zamora un male, la dimostrazione che Foucault avrebbe deragliato dallo spirito di trasformazione sociale che aveva animato il dopoguerra, lo spirito della rivoluzione. Per quanto mi riguarda, trovo che l’interesse mostrato da Foucault nei confronti del neoliberismo sia positivamente orientato a ripensare i fondamenti concettuali della sinistra, a immaginare una governamentalità più tollerante nei confronti della sperimentazione sociale, ecc. ecc. e che la sinistra dovrebbe soppesarne la riflessione ponendosi su questa strada.

A parer mio la mistica dell’antagonismo soccombe sotto il peso della teologia del Regno a venire. In secondo luogo trovo teoricamente irritanti, perché in certo senso clericali, espressioni del tipo: “tardocapitalismo-und-neoliberismo”, oppure: “dobbiamo dar vita ad una forza politica antiliberista”, come se si trattasse di formule fisse del discorso retorico di sinistra. L’approssimazione concettuale è una peste per il discorso rigoroso. Ho ancora nelle orecchie i portuali di Livorno (ultima festa dell’Unità) che dicono: abbiamo bisogno di aperture non di chiusure, abbiamo bisogno di una mobilità che funzioni, per le persone e, a maggiore ragione, per le merci. Bisogna intervenire sui porti per organizzarli, bisogna infrastrutturare la costa, bisogna aumentare gli spazi per la movimentazione delle merci. Ci servono corridoi di comunicazione a livello nazionale ed europeo, collegamenti tra porto e interporto, tra porto e aeroporto, tra porto e città... E poi ancora: esiste un liberismo non-becero contro il quale non solo non bisogna combattere, ma con il quale è utile e vantaggioso stabilire rapporti... e così via. Si trattava di operai e amministratori comunisti, non di imprenditori depensanti. Beh, qui ho sentito un po’ di cervello al lavoro.

C’è un punto però che vorrei sottolineare meglio: non, attenzione (come qualcuno pure sostiene): non si può accettare il principio secondo cui regime economico di libera concorrenza sia lo stesso che democrazia”, o che “capitalismo = democrazia”. Il liberismo non è la correlazione tra economia e democrazia parlamentare, ma la posizione metodologica di tale correlazione: fare in politica come si fa in economia (liberismo) invece di fare in politica come si fa in guerra (lotta di classe). Così anche l’identificazione capitalismo = liberismo va egualmente respinta.

Ora, a mia esperienza la quasi totalità degli osservatori che esprimono critiche nei confronti del cosiddetto “neoliberismo” non hanno la minima idea di che si tratti e, per bene che gli si voglia, lo confondono con la sregolatezza mercatista, che semmai, per esprimerci un po’ alla grossa, è una deriva della prassi capitalistica, non una dottrina politica (mi rifaccio qui a un libro di Sergio Ricossa, Socialismo, liberalismo, liberismo, Utet, 1983, p. 53) piegata sull’etica, come di fatto è. Ciò detto, se uno vuol ragionare alla collettivistica è certo che non riuscirà a immaginare nessuna alternative di sistema: in primo luogo perché il “sistema” preso in esame spesso non è quello giusto. Di solito si parla di “capitalismo post-fordista”… ma ho la sensazione che siamo avanti alcune ere geologiche rispetto a questa formula. Mi sembra di sentire in distanza la risacca fusariana sul plusgodimento e il turbocapitalismo, o l’eco tremontiana sul turbocapitalismo americano e il capitalismo renano come cose già in morte, in qualche modo. In secondo luogo (lo fanno un po’ tutti quelli che non si raccapezzano con il presente e, visto che sul piano sociologico, economico e politico il marxismo ha dato semplicemente forfait) perché il passaggio al piano metafisico, ermeneutico (prospettiva alta), è a sua volta un rudere, che andava forse bene negli anni ’80, agli inizi-inizi della Heidegger-renaissance de noantri, quello di categorie come Storia, Futuro, Società, Alienazione, Autenticità, Liberazione che il tardocapitalismo avrebbe demonicamente rimosso. In terzo luogo perché la sinistra cosiddetta alternativa non schioda un’idea che sia un’idea su questa benedetta alternativa. E se spesso si ricorre a Žiżek, a Lacan, a Baudrillard... non è che per comporre un breviario su ciò che non siamo, su ciò che non vogliamo, sulla morte del futuro, sulla fine del simbolico, sul principio depressione, mentre quel che manca di certo è giusto un-pensierino-uno su ciò che si potrebbe fare.

Se il punto di partenza critico, posso capirlo, è il rifiuto del principio:there’s no alternative, non si può tuttavia concludere con lo stesso principio: there’s no alternative, altrimenti si crea un cerchio perfetto e ciò che si voleva confutare diventa è esattamente ciò che si ritrova come spiegazione alla fine del percorso. E trovo abbastanza ridicolo anche quel cercare soluzioni in ricerche collaterali come quelle secondo cui all’interno di un sistema diverso dal capitalismo non si verificherebbero quelle forme di sofferenza caratteristiche della tarda modernità. Sarebbe sufficiente leggere Freud a questo proposito. In un libro davvero geniale dal titolo L’uomo Mosè e la religione monoteistica (Bollati Boringhieri, 2013), Freud sostiene che la depressione avrebbe origine nell’ebraismo, meglio, nella Bibbia, nell’ebraismo d’epoca biblica. Non è una dichiarazione di antisemitismo: la depressione entrerebbe nel mondo con il senso di colpa prodotto dall’ostilità del popolo ebraico verso Dio — e che gli Ebrei nutrano ostilità verso Dio è cosa indubitabile: dalla minaccia di annientamento ai piedi del Sinai alle deportazioni dell’VIII e del VI secolo a.C., dal domino dei diadochi a quello romano, dalla guerra del 70 d.C. a quella del 135, dall’editto di Granada del 1492 alla Shoah. «Tutto il giorno stesi le mie mani verso un popolo disobbediente e contestatore (antilégonta)» dice Isaia (Is 65, 2LXX) — un minimo di risentimento devono averlo. Poi, con Paolo, il grande visionario greco-romano-giudeo che pensa il Cristo nella prospettiva del messianismo ebraico (si veda il bel libro di Giorgio Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, 2000) il senso di colpa si fa universale: Dio Padre è stato ucciso dal Figlio, il quale ne prende il posto, ovvero, fuor di metafora, il cristianesimo ha reso l’ebraismo un fossile — così Freud!

Il capitalismo, a quanto pare, non c’entra dunque nulla. Sicché, per chiudere un po’ a sorpresa, mi permetto una semplice valutazione strong-textualist: meglio Paolo e Freud che Žiżek e Lacan. Bisogna provare a leggerli, i primi due, per sentirne il gusto salace il brivido. Provare, senza esagerare, naturalmente. E meglio certamente Jacob Taubes (La teologia politica di san Paolo, Adelphi, 1997), che mi ha suggerito tutto questo e a cui il 14 maggio è stata sorprendentemente dedicata una giornata internazionale di studi qui in Italia, a Roma, con la partecipazione di Donatella Di Cesare, Mauro Ponzi, Howard Caygill, Dario Gentili, Gabriele Guerra, Giovanni Gurisatti, Federico Lijoi, Massimo Palma, Elettra Stimilli. Ho sentito parlare di due, forse tre di questi studiosi. Internazionale, tuttavia, solo grazie alla presenza del britannico Howard Caygill, Professor of Modern European Philosophy alla Kingston University di Londra, autore, nel 2009, di un unico articolo sull’argomento, dal titolo: «The Apostate Messiah: Scholem, Taubes and the Occlusions of Sabbatai Zevi». In fondo il messianismo è il senso ultimo del marxismo — così Benjamin («Tesi di filosofia della storia», Angelus Novus, 2014).





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