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Istituire la vita
Da Georg Simmel a Roberto Esposito

di Roberto Fai

16 marzo 2021


1.
In una delle cinque “Lezioni americane” — quella significativamente intitolata Esattezza —, delle sei che Italo Calvino avrebbe dovuto tenere nell’anno accademico 1985-86 nel ciclo delle Norton Lectures della prestigiosa Università di Harvard, vi è un passaggio in cui l’illustre romanziere si lascia andare ad una confessione che, da una parte, esprime la sua personale Stimmung, dall’altra, con una plastica immagine, offre un’intensa riflessione sulla contemporaneità. Conferendo alle sue parole, forse inconsapevolmente, un’intensa impronta “simmeliana”, Italo Calvino scrive: «Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita». Nel vivo di una penetrante riflessione sulla crisi del rapporto tra linguaggio e mondo, letteratura e vita, il pensiero del romanziere coglieva di petto le ragioni di questa ‘faglia’, scrivendo che «…forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo», sì da concludere amaramente la sua analisi, anziché con una affermazione di impronta speculativa, con la confessione di uno stato d’animo, l’ammissione di una personale affezione: «il mio disagio». Davvero singolare, oltre che suggestiva, questa conclusione, in una lezione dal titolo Esattezza che avremmo immaginato veder declinata more geometrico, o sul filo di un timbro matematico, non certo nel lascito di una confessione afferente all’esperienza esistenziale, ad una particolare “tonalità emotiva” — quel: «il mio disagio».

Ricordavamo sopra come nella lapidaria frase di Calvino si avvertisse l’eco di quel filosofo del forse — Georg Simmel —, grande sismografo dello Zeitgeist che, tra fine ottocento ed inizio ’900, coglieva con straordinaria intensità la fenomenologia di quei processi di “differenziazione sociale” e l’affermarsi del carattere “frammentario” della cultura e dell’esperienza soggettiva, racchiusa nella dialettica, o meglio, nell’avvenuta tensione tra la vita e le forme. Figura tra le più suggestive ed emblematiche della cultura europea a cavallo tra fine della società automatica e primo Novecento, “filosofo della crisi”, sociologo originale, pensatore raffinato, elusivo e straordinariamente moderno, in grado di vagabondare in ogni dimensione dell’esperienza — dal denaro alla moda, alla pittura, alla civetteria sociale, all’amore, al pudore, ecc. —, Georg Simmel coglieva, nell’incombente processo di trasformazione epocale, l’ambivalenza, il conflitto e la tragedia della cultura moderna, prendendo di petto l’inquietudine che fenderà sempre più il “soggetto novecentesco” — immerso in quella che egli stesso definiva «l’intensificazione della vita nervosa» —, nella morsa di una radicale dinamica di differenziazione che segnerà irreversibilmente l’oscillazione dialettica o il contrasto tra la “vita” e le “forme”. «Per realtà — così Simmel aveva scritto una volta a Heinrich Rickert —, io non intendo quella dei positivisti e degli empiristi, ma il felice regno dell’esistenza (Dasein)».

Porre pertanto la vita a fondamento di ogni possibilità di comprendere la realtà era dunque l’intuizione fondamentale dalla quale Simmel muoveva la sua analisi sociologica. Per lo studioso, la vita, di volta in volta, si esperisce, si estrinseca condensandosi e oggettivandosi inevitabilmente in forme — relazionali, collettive, sociali, sentimentali, ecc. —, sì che queste ultime ne incarnano o ne mediano nel tempo le esperienze dinamiche, i singoli momenti, che sono pertanto destinati ad essere superati dal continuo confluire della vita stessa, tesa a realizzarsi come divenire. In questa idea di “divenire”, c’è infatti tutta l’influenza che — da Goethe a Nietzsche — andrà scandendo il sotterraneo fil rouge di quella “filosofia della vita” del primo ’900. Non a caso, Thomas Mann poteva scrivere: «Non ha forse ragione Georg Simmel quando afferma che con Nietzsche la vita è diventata il concetto chiave di ogni moderna visione del mondo?».

Le forme sono per Simmel, il medium del movimento storico, non solo in senso materiale, bensì anche spirituale. Era proprio questa dialettica tra la “vita” e le “forme” che Georg Simmel aveva colto come aroma del suo tempo, e tale contrasto, tale divaricazione aveva messo in campo in pagine suggestive, straordinarie e feconde, così corrosive della “vecchia metafisica”, descrivendo quella fenomenologia sociale che esprimeva così la tragica antinomia della condizione soggettiva, esposta al multiversum di un “Io plurale”. «La vita — scrive Simmel nel suo saggio su Kant (Kant. Sedici lezioni berlinesi) —, nel momento in cui giunge ad aver voce come fatto spirituale, non può riuscirvi se non in forme, nelle quali soltanto anche la sua libertà può diventare reale, quantunque esse, nel medesimo atto, limitino anche la sua libertà» (c.n.). In altri termini, le “forme” altro non sono che gli ineluttabili luoghi di oggettivazione dell’esistenza, le “trame” di mediazione che custodiscono e scandiscono l’esperienza vitale. La forme non sono “altre”, l’altro, dalla vita, bensì la trasformazione ‘interna’ e un rovesciamento che la vita sperimenta su se stessa.

La vita, cioè, non come un polo contrapposto all’altro (le “forme”), bensì come l’esistenza stessa che, per esperirsi ed essere esperita, non può che oggettivarsi in forme. In Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici, Simmel scrive: «noi non siamo divisi in una vita senza limiti e in una forma dai limiti saldi; noi non viviamo parte nella continuità e parte nell’individualità, che si tolgono reciprocamente. Piuttosto, l’essenza fondamentale della vita è, appunto, quella funzione in sé unitaria, che, simbolicamente, e in maniera abbastanza imperfetta, ho chiamato trascendimento di se stessa e che attualizza come unica vita ciò che poi, attraverso sentimenti, destini, capacità concettuale, viene separato nel dualismo di corrente continua di vita e forma individualmente conclusa». È così che la vita si esperisce, oggettivandosi in forme, ma essa sporge, trascende ed eccede di continuo le stesse “forme” date. La vita è sempre esperita in forme, e, al contempo, reclamando in sé sempre “più vita”, è così, simul, “più-che-vita”. Ed è attraverso la continua mediazione delle forme o la ricorrente dinamica di formalizzazione che la vita si istituisce.

Forse può apparire più chiara, adesso, questa vicinanza analogica tra l’affezione di Italo Calvino — «il mio disagio» —, e le riflessioni consegnateci da Georg Simmel. Entrambi, con registri letterari e di pensiero diversi, hanno cercato di riflettere sull’esperienza di quello scarto e, ad un tempo, la inevitabile prossimità tra la vita e la forma. È come se nei tornanti decisivi della storia — nei due momenti: per Simmel, a cavallo tra otto e Novecento, e per Calvino, nel “cuore” della cosiddetta condizione postmoderna — il “grande pensiero”, sociologico, filosofico, letterario, estetico, attraverso cifre linguistiche differenti, riuscisse a stagliarsi a distanza ravvicinata dal tema del destino del soggetto e sulle sue forme cangianti di “oggettivazione” — individuale e sociale, singolare e comunitaria. Entrambi hanno così colto — con stilemi letterari e concettuali differenti — la dialettica contrastiva o il dissidio permanente della pluralità espressiva in cui la soggettività moderna è venuta scandendo sia l’oscillazione del pendolo ma anche il destinale “punto di giuntura” tra vita e forme, esistenza e progetto, o — per dirla con Reinhart Koselleck — tra «spazio di esperienza» e «orizzonti di aspettativa». È come se in una sorta di incessante ricorso storico, riaffiorasse la percezione di un’altra “espressione” del conflitto, un’inedita accentuazione dello scarto, della “faglia” tra le istanze — sempre più ricche e variegate — dell’esistenza e della vita, da una parte e, dall’altra, i luoghi e le trame formalizzate ed oggettivanti attraverso cui la prima si è venuta e si viene in permanenza estrinsecando ed istituendo.

Da par suo, Italo Calvino, cogliendo ed intravedendo con straordinaria lucidità i caratteri del suo tempo, nella stagione declinante di fine ’900, auspicava, nelle sue Lezioni, la necessità di poter ritrovare un «…linguaggio delle cose, che parte dalle cose e torna a noi, carico di tutto l’umano che abbiamo investito nelle cose», dove è forte l’istanza etica e ricompositiva di voler colmare il contrasto tra la vita e le forme, come se sotto traccia affiorasse in controluce, nell’inquietudine del romanziere, la domanda su «quali i caratteri, i profili di questo soggetto del nostro tempo, progressivamente immerso in quella già incipiente epoca globale? Come andrà declinandosi questa vita, in un tempo in cui lo scarto tra esistenza e istituzioni, vita e forma, appare la cifra dominante di un tempo/mondo unificato nei suoi sparsi ed ineffabili frammenti?». In altri termini, Italo Calvino, riflettendo in un tempo in cui erano già sul viale del tramonto le grandi metafisiche politiche che ad inizio ’900 avevano reso egemone lo spazio pubblico e collettivo che aveva calamitato le forme della soggettività — organizzandole e contrapponendole nei grandi schieramenti politico-ideologici —, avvertisse che la dialettica tra vita e forma si fosse definitivamente interrotta, fratta, sì che un’insanabile scissione divaricasse da tempo le loro strade. Il disagio di Calvino nel 1985, di rimbalzo, attesta la straordinaria potenza profetica di Simmel il quale, ad inizio secolo, intravedeva che per quanto le “cerchie sociali” e gli aggregati “politico-sociali” costituissero i luoghi di cattura ed iscrizione del soggetto moderno nelle forme “collettive”, l’esperienza vitale della soggettività mostrasse già allora i segni e i tratti della propria costituzione complessa, plurale e debordante, il proprio multiversum, articolandosi nella mobile divaricazione/scissione tra la vita e le forme e nel dissidio che ne avrebbe a lungo e sempre più pervasivamente scandito il contrasto.

È peraltro inevitabile riconoscere che in quella drammatica temperie primonovecentesca il fenomeno che potremmo definire nei termini di un’accelerata «iscrizione e istituzione della vita dei soggetti» si svolge nell’incastro di dinamiche storico-politiche di straordinaria intensificazione collettiva — di “mobilitazione totale”, potremmo dire con Ernest Jünger — e di processi segnati, da una parte, sia da espressioni spontanee ed adesioni libere da parte di individui, soggetti, gruppi, classi sociali, ecc., sia, in parallelo, da quelle sapienti “logiche di dominio” che andranno conformando i “destini personali”, lungo il vettore di quella che Remo Bodei ha magistralmente ricostruito, nel suo affresco sulle dinamiche di soggettivazione moderna, come «l’età della colonizzazione delle coscienze» (al riguardo, Remo Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, 2004). Fenomenologia così complessa ed ambivalente, inesorabilmente scandita dalla quella che appare sempre più come un’ineludibile e diagonale “compresenza” di libertà e forma, “vita soggettiva” e sua iscrizione istituzionale. E da qui, infatti, il rinvio analogico che si può cogliere in quella sorta di “doppio legame” politico, costituito — per dirla con Michel Foucault, che l’avrebbe espresso nel vivo dei suoi ‘lavori’ sulla biopolitica — «dall’individualizzazione e dalla totalizzazione simultanea delle strutture del potere moderno»: una sorta di doppio vincolo che continua a reclamare come diffusamente necessario l’immane compito, secondo il filosofo francese, di poterne venir fuori. Finalità, questa, che può certamente essere condivisa, di là dalle “suggestioni anarchiche” del filosofo francese. Così, infatti, Foucault: «Dobbiamo promuovere nuove forme di soggettività rifiutando il tipo di individualità che ci è stato imposto per tanti secoli» (Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in “Aut aut”, n. 205,1985, corsivo nostro).

Torneremo in seguito su Foucault, ma ciò che adesso ci preme è segnalare come la vicenda esistenziale del soggetto sia apparsa svolgersi tra gli estremi di un pendolo, la cui aporeticità è data dal fatto che l’uno richiama, per sua legge interna, irrimediabilmente l’altro, suo volto speculare: ora, soglia di congiunzione, ora, rifiuto di ogni forma. Peraltro, a cavaliere tra otto e Novecento, sottotraccia, avevano già iniziato a scavare le talpe di Nietzsche e di Freud, denudando il soggetto e obbligandolo così a misurarsi con le plurali strategie d’individuazione. Sì che il tema freudiano della pluralità e della “oscillante latenza” dell’Io, insieme all’ingiunzione nietzscheana del compito «divieni ciò che sei!», continuavano a riproporre, su registri differenti, l’ambivalenza della instabile condizione esistenziale del soggetto nel pendolo tra la vita e la forma, lungo l’inesauribile costellazione del senso: tra ragione e potere; mito e disincanto; dialettica e differenza; “senso del limite” ed “eroica radicalità”; “etica della contingenza” e “sovrana indifferenza”. Sta di fatto che è attraverso la continua mediazione delle forme o, per dirla in altro modo, lungo l’incessante e ricorrente dinamica di formalizzazione che la vita si è istituita e si istituisce. Nietzsche avrebbe risposto probabilmente che già pronunciare la parola “formalizzazione”, altro non significhi, innanzitutto e per lo più, che dare un altro nome al nichilismo.

Ma se invece provassimo a dimostrare che la vita umana è strettamente inscritta nelle pieghe di incessanti dinamiche e processi di formalizzazione? Se provassimo a dire e a sostenere che è solo l’inevitabile inerenza alla forma, all’istituzione a consentire alla vita stessa di estrinsecare sempre, nel suo farsi, le sue possibilità, la sua ontologica potenza? Che la cultura, il linguaggio, il diritto, l’economica, la medesima condizione della società, il pensare stesso — in altri termini, forme della vita stessa! —, altro non sono che le modalità di estrinsecazione o la fitta trama istituita che da sempre connota e scandisce l’orizzonte e l’esperire vitale dell’umano? Da qui, allora, proviamo a venire ai nostri giorni. Corre così l’obbligo di ricordare che un fine ed insigne giurista, più volte Ministro nei governi della Repubblica, scomparso poco meno di un anno fa, Giuseppe Guarino, dava alle stampe nel 2005, con Laterza, un suo saggio davvero significativo e dal titolo davvero emblematico per i temi che qui proviamo a mettere a fuoco: L’uomo-Istituzione. Saggio che fu oggetto di un importante seminario di studi organizzato dalla Facoltà di Economia e dal Dipartimento di Diritto dell’economia dell’Università “La Sapienza”, in quello stesso anno. Seminario che vide la partecipazione di economisti, giuristi e filosofi molto noti. Lo stesso Guarino, due anni dopo l’uscita di questo suo denso saggio, in una lettera inviata al filosofo Aldo Masullo — anch’egli relatore al Convegno de “La Sapienza” —, scriveva che «bisognava evitare l’equivoco che la forma dovesse necessariamente comportare staticità. La forma, se voleva spiegare la realtà, doveva aiutare a comprenderla in tutti i suoi aspetti».

In altri termini, partendo dal punto di osservazione di giurista, di studioso della fenomenologia giuridica, delle norme e delle Istituzioni, Guarino veniva così svolgendo anche un’intensa riflessione filosofica, esplicitando l’ineludibile intreccio ontologico tra natura e cultura, physis e artificio, umanità e tecnica, vita e istituzione. Attraverso una convincente e approfondita argomentazione, tesa a smontare le robinsonate di certo individualismo esasperato, Guarino poteva così scrivere nel suo saggio che «non esiste l’uomo di natura, esiste solo l’uomo quale si forma attraverso la mediazione delle istituzioni» (ivi). Le istituzioni — le “forme” — rappresentano l’ineludibile “trama” attraverso cui l’uomo costruisce la propria, destinale socialità, la propria potenza sociale. L’istituzione, potremmo dire, è la forma originaria dell’esperienza umana. Ed è indubbio riconoscere come lungo il processo di sviluppo antropologico compiuto nel corso dei millenni, il plesso “natura umana-artificio tecnico” e “vita-forme” abbia trovato — oltre alla conferma attestata dalle variegate “espressioni culturali” dell’umano: diritto, sociologia, politica, filosofia, economia, ecc. — la sua più pertinente ed esplicita estrinsecazione nelle due istituzioni decisive della socialità umana: l’attività economico-produttiva e lo Stato. Per la prima, basterebbe prendere a conforto la plastica e apodittica riflessione di Karl Polanyi, secondo il quale «l’economia umana è un processo istituzionalizzato», mentre il secondo, lo Stato, pur nelle forme inevitabilmente cangianti assunte nel corso delle dinamiche storiche, costituisce la forma precipua di tessitura politico-istituzionale e di governo della vita delle comunità umane.

Ed ancora, in anni a noi più vicini, Ubaldo Fadini, nel 2016, consegnando, con le edizioni Ombre Corte, un saggio dal titolo Il tempo delle istituzioni. Percorsi della contemporaneità: politiche e pratiche sociali, tornava a delineare un ruolo centrale dell’Istituzione nella dinamica esperienziale dell’umano. A stretto confronto con due importanti pensatori del ’900 sui quali ha molto scritto — il sociologo tedesco Gehlen (1904-1976) e la sua antropologia filosofica ed il filosofo francese Gilles Deleuze (1925-1995) —, Fadini, pur ricavando da entrambi i due autori indicazioni divergenti sul rapporto dell’uomo con l’istituzione, assegna a Deleuze la capacità di far intravvedere, pur nell’inevitabile piega conflittuale che scandisce la relazione tra uomo e Istituzione, l’iscrizione ineludibile dell’umano all’interno di quel processo intersoggettivo del “fare istituzione” che ne articola da sempre ogni esperienza vitale. E se è vero che ogni Istituzione è “mossa” e spinta prevalentemente da “attività di conservazione” — così Fadini —, [quest’ultima], «proprio perché è in effetti una pratica su base comunque “creativa”, è ciò che provoca la riformulazione continua dei tessuti istituzionali o anche la loro radicale trasformazione, il superamento delle configurazioni e degli assetti “dati” (che pretendono, a volte, di durare “per sempre”)» (Il tempo delle istituzioni, p. 22).


2.
Giunti a questo punto, dopo la costellazione di temi, figure e riferimenti filosofici con cui si è provato sin qui ad offrire una cassetta degli attrezzi necessaria ad inquadrare il senso delle relazioni stratificate tra la vita e le forme/istituzioni nel corso del tempo, immaginiamo che nel lettore possa essere già sorto un legittimo dubbio di fronte alla disamina qui svolta, percependola come una mera digressione rispetto al riferimento all’autore indicato nel titolo, dal momento che di quest’ultimo non vi è né traccia, né dello stesso si è dato conto sinora. In verità, l’ampia fenomenologia di cui sopra non solo è il frutto della libertà di approccio teoretico che ci siamo presi — e ce ne assumiamo tutta la responsabilità! —, ma essa è scaturita proprio a seguito della lettura dell’intenso saggio Istituzione (2021), che Roberto Esposito ha appena dato alle stampe, nella collana “Parole controtempo” del Mulino.

Quello di Esposito è davvero un affresco decisamente convincente — e a esso dedicheremo questa seconda parte della nostra disamina. E proprio il nostro giudizio di piena condivisione intende significare l’effetto di verità che la lettura delle centosessantadue pagine del testo di Esposito ha avuto sul sottoscritto, dandoci l’opportunità di imbastire un caleidoscopio di alcuni vettori tematici che sono parsi pertinenti, declinando un parallelo e contiguo “album di famiglia”, e che per analogia fa da sfondo — spero la prima parte del mio scritto venga così recepita —, alla possibilità di slargare lo sguardo sul plesso “vita-Istituzioni”. Sono cinque i “campi tematici” indicati nell’indice — L’eclissi; Il ritorno; Produttività del negativo; Oltre lo Stato; Istituzioni e biopolitica —, attraverso cui Roberto Esposito scandaglia, con la riconosciuta competenza e una scrittura di forte presa, territori teoretici su cui in questi decenni ha saputo offrire una inedita e rigorosa categorizzazione. Certo, nella circostanza “minore” da cui nasce la collana “Parole controtempo” — il fine è dare al lettore linee generali su “parole-chiavi” del pensiero —, lo studioso è costretto a lambire soltanto, nel saggio qui in esame, i molteplici riferimenti su cui la sua ricerca s’è soffermata lungo i decenni con straordinari risultati speculativi — dal plesso communitas/immunitas alla filosofia dell’impersonale, dal Bios alla “teologia politica”, dal binomio “Politica/Negazione” e “Filosofia/Europa” alla “biopolitica”, sino a quel Pensiero istituente che è il tema della sua più corposa e recente ricerca (Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, 2020).

Tuttavia è indubbio riconoscere che proprio la categoria, o “parola-chiave”, oggetto della sua indagine, Istituzione — davvero una parola controtempo, sottoposta com’è da diversi decenni (“l’oggetto-Istituzione”) a mutamenti epocali e sconquassi che ne hanno eroso in profondità le pieghe, le sfaccettature, sino a de-formarne ogni consistenza —, proprio per la natura e il ruolo, offre all’autore l’opportunità di prendere di petto la “condizione contemporanea”, sottoponendola ad una radicale interrogazione, al punto che quella che l’autore stesso, in esordio del saggio, definisce «la relazione enigmatica tra istituzione e vita umana» diventa la chiave di volta che gli consente di delineare un’inedita ontologia dell’attualità. Non sembri un azzardo pretenzioso quello che qui proviamo a motivare. Piuttosto, il lemma vitam instituere (“istituire la vita”), che Esposito prende direttamente dal giurista romano, Marciano, consente all’autore di tracciare, sin dall’esordio, l’incipit della sua densa argomentazione, in cui il lemma in questione declina ed esplicita «i due lati di un’unica figura che delinea insieme il carattere vitale delle istituzioni e la potenza istituente della vita» (p. 7, c.n.), dal momento che «essendo fin da sempre istituita, la vita umana non coincide mai con la semplice materia biologica, anche quando è schiacciata, dalla natura o dalla storia, sulla sua falda più dura», tenuto conto peraltro che «ciò che fin dall’inizio ci istituisce, e che noi stessi continuamente istituiamo, è la rete di rapporti nella quale ciò che facciamo acquista rilievo per noi, ma anche per gli altri» (p. 9).

Da qui, dunque, l’intrinsecità dello sfondo di un’affermazione normativa che la vita stessa tende necessariamente e destinalmente a perseguire e a dispiegare, stringendo la stessa possibilità della «sopravvivenza» biologica ad una ineludibile dinamica di “formalizzazione” istituente. A conferma del fatto che il transito tra physis e cultura, vita naturale ed artificio, oltre che inesauribile, è sempre aperto, sì che vita e istituzione mostrano il reciproco, e pur “mosso”, legame, come anche il carattere di una relazione che scorre inevitabilmente tra i due ambiti, la cui “soglia di giuntura” l’autore chiama «prassi istituente»: per cui, come «ogni prassi umana tende naturalmente a istituzionalizzarsi, ogni istituzione è modificata dall’insorgenza di una nuova prassi che non cessa di mobilitarla» (p. 88). Ed è a partire da qui che l’autore inizia a snodare una raffinata ricostruzione storico-filosofica e concettuale di ciò che potremmo definire il lungo ed intricato itinerario di “vita delle istituzioni”, coinvolgendo passaggi epocali, figure metaforiche ed autori paradigmatici. Intanto, a partire dalla fenomenologia di quella che possiamo definire l’istituzione della natura — così come lo storico del diritto romano Yan Thomas esplicita nel saggio che ha per titolo la frase qui in corsivo —, nel senso che in epoca romana si «ravvisa una vera e propria inversione del rapporto tra istituzione e natura. Anziché essere la natura a condizionare il diritto, vincolandolo ai valori in essa contenuti, a Roma è il diritto ad adoperare ai propri fini la nozione di “natura”» (p. 27): ad attestarlo, «l’istituto della schiavitù, dichiarato dagli stessi giuristi romani contra naturam» (ivi), e tuttavia “norma valida”. Primato che subirà un vero e proprio rovesciamento, un salto di paradigma imposto dal cristianesimo, quando la natura riacquisterà la propria intangibilità, per cui «a istituire la vita non è né il diritto né la storia degli uomini, ma, al contrario, la loro ubbidienza a quel Dio che li ha originariamente istituiti, unico padrone della giustizia» (p. 31). Non solo verrà posta fine all’institutio vitae di derivazione romana, ma lungo un intero millennio in cui sarà prevalente ed egemone tale “svolta teologica”, prevarranno le forme dell’obbedienza e l’iscrizione autoritaria della vita degli uomini: dinamica che, pur attraversata da svolte e innovazioni sul tema delle Istituzioni — si pensi, a partire da Machiavelli, al ruolo della “scienza politica” e poi alla nascita del Leviatano con Hobbes —, vedrà queste ultime a lungo connotate da capacità di incorporazione passiva delle soggettività, sì da neutralizzare al loro interno flebili momenti istituenti, interamente assorbiti in quello istituito. Una storia che inizierà a modificarsi progressivamente a partire dalla Rivoluzione francese.

I riferimenti teoretici che compongono i cinque “campi tematici” del saggio di Esposito non scorrono linearmente seguendo una mera scansione cronologica, bensì compiono salti temporali, mettendo in circolo differenti ambiti di sapere — filosofia, sociologia, politica, diritto —, facendo interagire pensatori classici di stagioni diverse che hanno messo a fuoco significativi paradigmi ermeneutici sul tema istituzione. E qui l’autore viene snodando un vasto repertorio di temi e questioni, sia sul versante della politica, incrociando conflitti a noi più vicini come quello tra Istituzioni e movimenti — e potremmo aggiungere, per analogia, il contrasto insanabile tra partiti e movimenti, esso stesso, per ironizzare, oramai “istituzionalizzato”, viste le ricorsive emersioni dagli anni ’60 in poi —, sia sul versante della sociologia, come pure per il diritto. Per la sociologia del ’900, infatti, il tema del «ritorno delle istituzioni […] non passa per lo Stato, ma per la società» (p. 41), sì da segnare un inedito punto di svolta rispetto all’immagine di una institutio vitae emergente da una volontà verticale, stante che «le istituzioni [sono] l’esito di forze impersonali che precedono gli individui, determinandone i comportamenti» (p. 42). Condivisibile e puntuale il rinvio alle ricerche di Marcel Mauss, così come analoghe e coincidenti, nello stesso arco temporale, in ambito della scienza giuridica, sono le suggestioni offerte dai più influenti teorici dell’istituzionalismo giuridico: dal francese Maurice Hauriou all’italiano Santi Romano, pur se sarà l’italiano a tracciare con maggiore radicalità una teoria dell’ordinamento giuridico, fondato non sul perimetro angusto della sovranità statale, bensì scandito da quel “pluralismo istituzionale”, rinviante necessariamente alle istanze incrementali di una società sempre più complessa, sulla quale la potenza performativa del diritto è destinata a premere sulle istituzioni sovrane al fine di aprire il flusso delle domande sociali.

Allo stesso modo, per Esposito, i due ambiti più proficui in cui affiora con maggiore nettezza la potenza di un pensiero e di una prassi «istituente» sono rappresentati dalla filosofia e dalla politica. Per la prima, la genesi decisiva, il vettore speculativo di maggiore produttività sono costituiti dalla fenomenologia, da qui l’attenzione dedicata a Merleau-Ponty, filosofo che meglio di altri ha saputo spingere «la semantica fenomenologica in una direzione più intensamente storica e politica» (p. 54), sì che in questi due ambiti «l’azione dell’istituire produce la stessa soggettività che la mette in atto. Istituendo qualcosa di nuovo, il soggetto si istituisce esso stesso, trasformandosi rispetto al suo iniziale modo di essere» (p. 56): dinamica che inevitabilmente scuote e investe la forma istituzionale, aprendola e costringendola così ad aperture, contrastando che i fenomeni tipici di stasi o di conservazione di ogni istituzione neutralizzino quest’ultima nelle sue chiusure. Al pari, la politica, il cui compito specifico è — così come per il filosofo francese Claude Lefort, su cui insiste lo stesso Esposito — l’istituzione del sociale, si manifesta come il luogo precipuo in cui «la prassi istituente […] rende la società cosciente di essere divisa e del luogo preciso in cui passa la divisione» (p. 58). Ed è proprio nella dialettica serrata tra politica e società che la prassi mostra ed esprime anche il proprio tratto inevitabilmente conflittuale, divisivo, sì che «istituzione è ciò che tiene insieme gli interessi contrapposti, evitando che il conflitto politico degeneri in violenza» (p. 63). Machiavelli docet!

Quest’ultimo esito — neutralizzare la violenza distruttrice — non è ispirato dalla mera ragione di voler produrre un gioco “a somma zero”, o una sorta di conciliazione senza residui, bensì dalla necessità che lo scarto inevitabile, il “resto” temporalmente incomponibile — potemmo dire, quel “negativo” che scandisce ogni prassi istituente verso ogni istituzione per farle accogliere nuovi princìpi e novità — possa trovare il punto di mediazione per offrire alla prassi istituente di situarsi sul «margine oscillante tra interiore ed esteriore, identità e alterità, ordine e conflitto» (p. 72). Ed è in questa scena che irrompe la figura, meglio, la categoria della “negazione”, la necessità di ripensare il carattere produttivo e affermativo del negativo: una questione diventata dirimente che manifesta tutta la propria irriducibilità proprio nell’attualità di un tempo di radicale fine/crisi della mediazione — di “ogni mediazione”, potremmo dire! “Mediazione”, di cui la fenomenologia dello spirito di Hegel era stata la figura allegorica più espressiva del pensiero moderno. E sul crinale di una storia complessa in cui Esposito posa un breve accenno anche a Marx e Nietzsche, egli ferma sull’oggi la sua riflessione finale sulla piega critica tra vita politica e istituzioni: «la richiesta, oggi sempre più diffusa, di democrazia diretta, contro le istituzioni della democrazia rappresentativa, ne costituisce la figura più aggiornata. Il dibattito sulle istituzioni scivola verso due polarità estreme e inconciliabili. Da un lato la progressiva sclerosi istituzionale, dall’altro la libertà dalle istituzioni. Quando invece la via da percorrere passa per un nuovo nesso tra istituzioni e libertà» (p. 73). A partire da qui, la costellazione di figure ed autori — dall’antropologia filosofica di Arnold Gehlen a Gilles Deleuze, a Cornelius Castoriadis — che hanno a loro modo situato la prassi istituente nel transito problematico e mosso tra natura umana e cultura/artificio. Ma la domanda che ne consegue è sul destino della politica, dal momento che la stessa prassi politica «è la capacità autoriflessiva attraverso cui la società vince la propria alienazione a potenze esterne, riconoscendosi padrona del proprio destino» (p. 90).

Ma cosa accade e come si articolano le relazioni tra vita e istituzioni quando — ricordando un confronto emblematico del 1980 che aveva al centro Carl Schmitt —, non solo siamo di fronte a «la politica oltre lo Stato», visto che il nostro tempo è scandito da “Istituzioni senza sovrano”, come recita un capitolo del saggio di Esposito, sino a dover assistere, nell’affermarsi pervasivo della Global Age, ad un processo di “evaporazione” della sfera politica, mentre il dominio finanziario e la lex mercatoria sono del tutto sganciati dagli Stati e la stessa giuridicità delle istituzioni «…segnala la loro progressiva emancipazione dal vincolo sovrano»? (p. 98). È infatti evidente, nella destinale affermazione di un mondo unificato, come la centralità sia oramai espressa ed assunta da quei Grossraumgrandi spazi geopolitici, o Imperi — sì che «deregolamentazione e deformalizzazione sono diventate la nuova regola e la nuova forma del mondo contemporaneo» (107). Ed è qui che Esposito è costretto a ricordare l’apparente paradosso della evaporazione della prassi politica, quando scrive che «sono gli stessi Stati ad aver organizzato il proprio ritiro “impolitico” rispetto alla prassi del capitale» (p. 118), non lesinando fondati rilievi critici ad una «Unione Europea, nata da un atto di volontà politica, ma costruita attraverso trattati giuridici [e come] un’istituzione mista, oggetto di uno scontro aspro tra diversi livelli di sovranità sovrapposti e giustapposti» (p. 100). Rilievo non solo fondato ma altresì necessario anche per segnalare l’urgenza, per la condizione vitale della stessa Europa, della messa in campo di un’inedita e autorevole “forma istituzionale” in un mondo globalmente unificato, all’interno del quale la tensione tra differenti “prassi istituenti” — agite da interessi antagonistici — rende ineffettuale se non patetica l’idea di un ripristino nostalgico di un “sovranismo” del “piccolo” Stato, che serve solo a mobilitare sicurezze in umori diffusi.

Ed è nell’incrocio del nodo dilemmatico del “politico” attuale che Esposito può esibire un inedito fascio di luce sulla relazione tra vita e Istituzione, magistralmente espressa dalla categoria di «biopolitica», nella parte conclusiva e oltremodo decisiva del suo saggio, implicata a piene mani in una sorta di “doppio sguardo”, di fronte all’evento del Covid, ospite inatteso ed inquietante, che ha attaccato globalmente «prima di tutto la nostra sopravvivenza, determinando una serie di provvedimenti di tipo palesemente biopolitico… [rivelando] il nucleo immunologico della biopolitica contemporanea» (p. 128). Davvero singolare che proprio l’autore — Michel Foucault — che sulla “biopolitica” ha offerto nel secondo novecento la prestazione intellettuale più innovativa, per una sorta di sua «“allergia” teoretica alla grammatica istituzionale» (p. 132), resti ad di qua della soglia di giuntura in cui vita e istituzioni si incrociano. Per il filosofo francese è come se l’istituzione, restando incardinata ai dispositivi della sovranità e del potere, più che potenziare la vita ne inibisse le insorgenze, al punto che la vita può espandersi solo fuori e oltre i dispositivi neutralizzanti delle istituzioni. «La mia impressione, così Esposito, è che Foucault non abbia pensato le due polarità della “biopolitica” — il bios e la politica — in un unico blocco semantico, ma separatamente, per poi successivamente congiungerle in una maniera che finisce per sovrapporre, e dunque anche sottoporre, l’una all’altra» (p. 133). Mentre, in contraltare a Foucault, per Esposito, è Hannah Arendt — “il più intenso pensiero instituente del novecento” — a rivendicare l’incessante espansione della vita, ma lontano e in distanza dalla semantica biopolitica, con l’effetto che, secondo la Arendt, gli incessanti “nuovi inizi” istituenti debbano scorrere nell’atto creativo del novum, concentrando «l’intero agire politico nell’attimo della sua genesi» (p. 136), ma così inibendosi la capacità di cogliere che la logica dell’istituito — di ogni istituzione — è irrimediabilmente fratta da dinamiche di potere con cui fare i conti, vivificandole con l’immissione di nuova e “più” vita. Per tale ragione, oltre Foucault e la Arendt, per Esposito, «il compito della filosofia contemporanea, se ce n’è uno, [è] proprio questo: non opporre, o sostituire, il paradigma istituente a quello biopolitico, ma integrarli in un modo produttivo per entrambi» (p. 155). Ecco che, in conclusione, è proprio il carattere biopolitico della crisi pandemica in atto a reclamare, oggi, un pensiero ed una prassi istituente all’altezza della situazione. Come non cogliere che la pandemia del Covid-19 — per le «ferite profondissime che ha impresso nel corpo del mondo» — impone al mondo intero il compito di istituire di nuovo la vita o, più ambiziosamente, di istituire una vita nuova»? (p. 13, c.n.). Di fronte al Covid, non siamo esposti, tutti noi, all’urgenza di segnare un “nuovo inizio”, sia per la vita di ogni istituzione sia per una “prassi politica” che abbia come fine di riscattare la vita impersonale di ciascuno, oltre le forme ristrette ed ingiuste del “potere istituzionale” — politico, culturale, ideologico, economico, finanziario, ecc. — contemporaneo?



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