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Neoliberismo, rivoluzione digitale e morte del futuro
Appunti per una lettura di Realismo Capitalista di Mark Fisher

di Lorenzo Lasagna

20 giugno 2019


A dieci anni dalla sua pubblicazione, Realismo capitalista (2009) è già diventato un piccolo classico della meta-disciplina che usa chiamare cultural theory. Sorto dal variegato humus che tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI ha provato a rilanciare una critica allo status quo su basi che potremmo genericamente definire post-marxiste [1], è oggi un punto di riferimento sostanzialmente obbligato per chi voglia comprendere gli orientamenti del pensiero radicale. Il suo autore, lo studioso inglese Mark Fisher, è stato un apprezzato outsider del dibattito di quegli anni e la sua autorevolezza si è in seguito progressivamente accresciuta. Nato nel 1968, si è tolto la vita il 13 gennaio del 2017.

Realismo capitalista è l’opera che incarna il volto, per così dire, ortodosso e militante di Fisher; ad essa fa da contraltare il più tardo The Weird And The Eerie (2017): un saggio sulle angosce e i turbamenti della nostra epoca, affrontati però in una dimensione metafisica che mantiene punti di contatto assai deboli con le categorizzazioni degli esordi.

Anche se il titolo more geometrico può trarre in inganno, Realismo capitalista non è uno scritto sistematico, bensì un pamphlet ricco di spunti interessanti e capace di alcune puntualizzazioni teoriche non scontate.

Le sue coordinate sono di prevalente derivazione psicoanalitica: la linea post-lacaniana che da Deleuze e Guattari porta a Slavoj Žiżek, passando per Foucault, per il post-strutturalismo di Derrida e per l’opera di Baudrillard. In misura minore vi si trovano echi del dibattito filosofico contemporaneo — ad esempio gli scritti di Alain Badiou.

Il programma enunciato da Fisher è semplice e ambizioso: fornire una base al superamento dello stallo che, almeno dalla fine del XX Secolo, affligge il pensiero critico nella sua ricerca di un assetto alternativo all’ordine neoliberale [2].

Cos’è il realismo capitalista? Fisher lo definisce en passant come la logica culturale del tardo capitalismo. Pienamente dispiegata, essa ha insinuato nelle nostre società la “sensazione diffusa che non solo [quello attuale] sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne [sic] un’alternativa coerente” [3].

L’assunto-base di Fisher è naturalmente che il capitalismo postfordista sia oggi molto più di un sistema economico: esso è piuttosto una matrice di senso che innerva le nostre vite, regolandone il funzionamento a livelli più profondi e con conseguenze più durevoli di quanto sia mai accaduto nel passato. Impiegando un termine che l’autore sembra non amare, diremmo che secondo Fisher esiste un’ontologia del Capitalismo, cioè un’essenza profonda che guida i meccanismi visibili del suo funzionamento. Compito del pensatore nell’epoca presente è il disvelamento di questa essenza, insieme condizione per la ricerca di un’alternativa possibile, e scoglio sul quale si sono puntualmente infrante tutte le agende anticapitaliste del XIX e XX Secolo [4].

La ricostruzione dei processi attraverso i quali il Capitale condiziona gli individui è l’oggetto di larga parte della trattazione di Fisher, e va detto che nel minimalismo imperante Realismo capitalista ambisce senz’altro a ritrovare un respiro che la contemporaneità ha perduto. Esso si colloca in una prospettiva alta, in tensione tra macrocategorie desuete come Storia (in senso sostanzialmente materialista e dialettico), Futuro, Società, Alienazione, Autenticità, Liberazione: concetti che il tardo capitalismo è riuscito non solo ad occultare, ma addirittura a rimuovere dalla coscienza collettiva.

Dovendo simbolizzare il venir meno di ogni progetto di superamento del neoliberismo, Fisher si concentra su due affermazioni. La prima (“there’s no alternative” [non esiste alternativa]) porta la firma di Margareth Thatcher, mentre la seconda appartiene ad un autore che non è identificato con certezza (Fredric Jameson oppure Slavoj Zizek) e suona così: “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. La contemporaneità, spiega Fisher, è tutta qui: un’epoca sospesa in uno stallo senza uscite, che ha rinunciato all’idea stessa di un futuro; il segmento di modernità che si è dovuto arrendere alla fine della storia.

Questo clima si riflette su tutte le forme di senso socialmente connotate: il lavoro, l’educazione, la cultura. Il realismo capitalista è “un’atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale ma anche il modo in cui vengono regolati il lavoro e l’educazione, e che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione” [5]. I suoi effetti si dispiegano sull’intero corpo sociale nelle grandi e nelle piccole cose. “Come possiamo superare quel conformismo culturale monotono e moribondo partorito dal rifiuto di tutto quanto suoni come una sfida, uno stimolo, finanche un’educazione” [6] - si domanda Fisher - quando ogni cosa, davanti a noi sembra curvarsi sotto il peso dell’assenza di prospettive? “Spiegare alla gente come perdere peso o come decorare la casa è [ritenuto] accettabile; reclamare qualsiasi tipo di accrescimento culturale è oppressivo ed elitario” [7]. Di sfuggita, viene menzionato anche il ruolo svolto dalla tecnologia: il web, invocato come strumento di liberazione, ha creato “comunità di solipsisti, reti interpassive formate da individui simili che, anziché mettere in discussione i rispettivi assunti e pregiudizi, non fanno che confermarli” [8].

Tra gli effetti più lampanti che possiamo riscontrare (Fisher non è certo il primo ad accorgersene), c’è la diffusione di una sintomatologia generalizzata di tipo depressivo. “I sentimenti predominanti nel tardo capitalismo sono paura e cinismo. Emozioni del genere non ispirano né ragionamenti coraggiosi né stimoli all’impresa: coltivano semmai il conformismo, il culto delle variazioni minime, l’eterna riproposizione di prodotti-copia di quelli che hanno già avuto successo” [9]. Eliminata la possibilità stessa di costruire un domani, nella nostra cultura dilaga “il sospetto che la fine del mondo sia già avvenuta, l’idea che molto probabilmente il futuro non porterà altro che reiterazione e ripermutazione di quanto esiste già” [10].

“Il ’realismo’ è qui analogo alla prospettiva al ribasso di un depresso che crede che qualsiasi stato propositivo, qualsiasi speranza, non sia altro che un’illusione pericolosa” [11].

Fisher offre molti esempi di quella che potremmo definire l’eterogenesi dei fini, il cortocircuito in cui è caduta la logica neoliberista: nata come dispositivo di libertà e come spazio naturale dell’agire umano, all’acme del proprio dominio (la nostra epoca) essa è divenuta un’abnorme sovrastruttura straniante, governata da codici fini a se stessi che opprimono persone e gruppi sociali. A caratterizzarla sono fenomeni come l’iper-burocratizzazione [12], il dilagare di procedure, misurazioni e auditing, l’autoreferenzialità dei processi comunicativi (si pensi a quei sinistri mausolei che sono i call-center, particelle di un sistema impotente nel quale “nessuno sa niente e nessuno può nulla” [13]), ma anche tendenze pseudo-matematiche come l’idolatria dei dati (“presunte informazioni [con] poco significato e quasi nessuna applicazione” [14]), il cui studio ha soppiantato, nel senso comune come nelle scienze applicate, il principio di causalità.

L’intuizione più rilevante di Fisher, tuttavia, è senza dubbio un’altra, e si compie su un piano prettamente teoretico. Essa riguarda la dimostrazione dell’inconsistenza tetica del realismo capitalista, vale a dire il fallimento della sua ambizione più letterale (trattandosi di realismo), che era quella di porre, di stabilire, un piano di realtà.

Portando a compimento analisi già tracciate da Baudrillard e Zizek, Fisher ci fa notare come una volta operati la negazione dell’alterità e il rifiuto di ogni significazione non perfettamente riducibile al dato operazionale, funzionale ed economicistico, il grado di realtà del reale si scopre — contro ogni previsione — qualcosa di assai debole. A conti fatti, la conoscenza derivata dall’applicazione di un modello radicalmente realista (imperniata sulla rimozione degli ordini simbolici), si rivela insoddisfacente, incompleta. Ecco allora il fallimento paradossale: “La fine del simbolico porta non a un confronto diretto con il reale, ma a una specie di emorragia del reale stesso” [15].

Si è compiuto un passaggio cruciale: il reale come orizzonte di senso si è trasformato in un reale autoconcluso, composto di dati autoreferenziali e perciò reificati, spenti. L’unico spazio ancora può esistere al di là del piano di realtà, è uno spazio nascosto occupato ancora una volta dal Capitale, il quale vi agirebbe (lacanianamente) come un’entità elusiva e sfuggente, una “Cosa Innominabile” [16], un “Grande Altro” [17] sempre situato altrove e in nessun luogo. “Non è che aziende e compagnie siano gli agenti occulti che tutto manovrano; sono esse stesse espressioni e prodotto della massima causa che un soggetto non è: il Capitale” [18].

Ma cosa fa pensare che il principio occulto di cui andiamo in cerca sia proprio il Capitale? Da cosa deriva una tale convinzione? E’ qui che, a nostro avviso, si apre la questione fondamentale, impregiudicata, dell’indagine di Fisher.

In quanto paradigma socioeconomico della nostra epoca, il capitalismo condiziona la grande maggioranza dei processi sociali in atto, ed è verosimile che la fenomenologia dei disagi e delle miserie sciorinata da Fisher abbia almeno qualcosa a che fare con lui. Tuttavia, un’analisi teorica non può basarsi su questo genere di inferenze o su ragionamenti probabilistici. Sappiamo che il capitalismo è il correlato economico della modernità, ma il fattore economico non è certo l’unico che occorra analizzare per giungere ad un’adeguata comprensione dei fenomeni. Ci sono altri fattori, ad esempio tecnologici e culturali, che interagiscono strettamente con quelli economici. Perché allora — ci domandiamo — la complicata linea di sviluppo che conduce dalla modernità alla contemporaneità dovrebbe essere spiegata attraverso l’azione di un singolo fattore — quello economico — ed essere considerata come effetto lineare del modello che chiamiamo capitalismo?

Sia chiaro: non si tratta di una nostra semplificazione espositiva. Fisher scrive testualmente: “Quello che serve è legare l’effetto alla causa strutturale. Contro l’allergia postmoderna alle grandi narrazioni dobbiamo riaffermare che, anziché trattarsi di problemi contingenti e isolati, [essi] sono tutti effetti di un’unica causa sistemica: il Capitale” [19].

Basta una lettura veloce del saggio, per capire che in nessun luogo Fisher ci dà una dimostrazione chiara del nesso causale ipotizzato tra capitalismo e paradigma della ’morte del futuro’, col suo cascame di sindromi psichiatriche. In più d’un passaggio sembra che tale legame sia stato semplicemente postulato, come se si trattasse dell’oggetto di una petitio principii. A rafforzare il dubbio concorrono affermazioni come questa: “Se [.] la sindrome da deficit di attenzione e iperattività è una patologia, si tratta allora di una patologia peculiare del tardo capitalismo” [20]. Oppure: “Se per esempio è vero che la depressione generalmente comporta un basso livello di serotonina, allora quello che va spiegato è perché in determinati individui il livello di serotonina sia basso. Farlo però richiede una spiegazione sociale e politica: ripoliticizzare la malattia mentale è un compito urgente per qualsiasi sinistra che voglia lanciare una sfida al realismo capitalista” [21]. La spiegazione dei fatti poggia insomma sulla propria autoevidenza (e urgenza) politica.

Parlando del Capitale, Fisher ricorre spesso a personificazioni tra ingenue e grottesche, appena camuffate dall’allure lacaniana della terminologia utilizzata: “Il Capitale è un parassita astratto, un vampiro insaziabile, uno zombie infetto. Ma la carne viva che trasforma in lavoro morto è la nostra” [22]; “la scrittura non è mai stata retaggio del capitalismo. Il capitalismo è profondamente analfabeta” [23]; “il Capitale è stato molto attento e scrupoloso quando si è trattato di ragionare su come mandare in frantumi la vecchia classe operaia” [24]; “tra le persone che si rivolgono al sussidio di invalidità, molte si ritrovano psicologicamente danneggiate dall’insistenza con cui il realismo capitalista ribadisce che industrie come quella mineraria non siano più economicamente sostenibili” [25]. Per rimanere nell’alveo della disciplina psicoanalitica, analisi come queste si direbbero nient’altro che la manifestazione di meccanismi difensivi classici: proiezione, polarizzazione, scissione, razionalizzazione. Grazie ad essi il Capitale diventa una specie di meta- o di super-oggetto all’origine di tutto e che tutto spiega, un po’ come faceva il Mago di Oz nel suo nascondiglio al riparo dagli sguardi.

Anche quando abbozza un tentativo di dimostrazione delle sue tesi, Fisher finisce col seguire linee argomentative che lasciano quantomeno perplessi. Ad esempio, nell’isolare la causa. È pacifico che se si vuole spiegare un certo fenomeno (o un gruppo di fenomeni) mediante l’azione di un singolo fattore, occorre in primo luogo escluderne altri. Lo si può fare in tanti modi. Il più semplice è dimostrare che modificando quel fattore (nel nostro caso: modificando la natura del contesto economico) si giunge a effetti diversi. Da un punto di vista logico questo non equivale ancora a dimostrare la tesi (il fattore rimosso potrebbe intrattenere con gli effetti un nesso di correlazione, ma non di causazione), e tuttavia avremmo quantomeno la conferma del nostro sospetto iniziale, e nello specifico che all’interno in un sistema diverso dal capitalismo le forme di sofferenza caratteristiche della tarda modernità non attecchiscono. Invece non solo Fisher non sembra interessato a raccogliere prove di questo tipo, ma agisce in senso diametralmente opposto, fornendo una grande quantità di esempi tratti a caso dai contesti più disparati, e in forza dei quali finisce semmai col convincerci del contrario, e cioè della sostanziale equivalenza tra i due principali modelli economici (capitalismo e comunismo). L’effetto è la creazione di un’ampia sovrapposizione logica (cioè di una grande confusione) tra economia di mercato e socialismo realizzato. Ho calcolato che nel corso della sua esposizione, Fisher utilizzi almeno cinque diversi esempi tratti dal comunismo sovietico o a quello cinese [26]. Il bello è che non vi ricorre mai per opposizione, ma sempre per analogia col suo bersaglio concettuale primario: il capitalismo. Anche se ciò non determina contraddizione formale (due cause distinte possono produrre i medesimi effetti), si tratta di una modalità assai strana per svolgere una diagnosi differenziale. Alla fine il lettore rimane con la sensazione che: 1) l’obiettivo di comprovare un nesso causale esclusivo tra il capitalismo e le forme di disagio del nostro tempo sia fallito, 2) anche la tesi di una causazione diretta non esclusiva resti da dimostrare, 3) siano stati tutt’al più raccolti indizi sufficienti per ipotizzare una qualche forma di correlazione tra i fattori economici e la generale sintomatologia psichica. Si tratta invero di un magro bottino.

Ma non è tutto. Il fallimento più evidente dell’obiettivo che Fisher si era posto (la ricerca di una via d’uscita dalla trappola) è comprovato dalla totale assenza di indicazioni utili (vuoi per il filosofo, vuoi per il militante o per il cittadino) dalle quali si possa ripartire. A pagina 73 annunciava con enfasi: “Dobbiamo fare in modo che la disidentificazione dai piani del controllo [capitalista] si traduca in qualcosa di diverso da una forma di apatia afflitta” (corsivo mio). L’afflizione ce la si è forse scrollati di dosso, ma le soluzioni non sono state trovate. Per decine di pagine Fisher ha annunciato la necessità di fuoriuscire dalla “logica del realismo capitalista”, ha cercato una wayout teorica ed esistenziale dallo stallo, ma giunto all’ultimo capitolo si congeda senza averla trovata.

Alcune opzioni vengono in verità elencate nelle ultime quattro pagine del libro (quattro di numero: da pagina 149 a pagina 152 dell’edizione italiana), sebbene in modo assai generico: apprendiamo che occorre tornare ad un “autentico universalismo” [27], “[ripartire] dal lavoro su[i] desideri” [28], attuare una “massiccia riduzione della burocrazia” [29], difendere “l’autonomia del lavoratore” [30], creare “un nuovo soggetto politico” [31], “liberare i servizi pubblici dall’ontologia aziendale” [32], e convertire i problemi di salute mentale “da una condizione di medicalizzazione a un antagonismo reale” [33]. Nessuna di queste affermazioni (in verità ben poco innovative) viene però chiaramente spiegata o definita.

La conclusione cui si perviene sembra dunque la migliore conferma della tesi che si era voluta confutare: there’s no alternative. O se un’alternativa c’è, è molto simile a quelle già proposte, in un passato più o meno recente, da tutti i movimenti che si sono opposti (senza successo) all’ordine vigente: la sofferenza che viviamo è reale, l’ingiustizia che subiamo è reale, la perdita di senso che sperimentiamo è reale. Sono effetti generati dal Sistema. E questo è quanto.

Una tale conclusione, a ben vedere, è anche più sconfortante delle premesse da cui era partita, perché di mezzo c’è il (vano) sforzo argomentativo profuso da Fisher lungo le 150 pagine del suo pamphlet. Le analisi che ha svolto non sono certo peregrine: ciò di cui ci ha parlato riveste un interesse innegabile, la posta in gioco del suo ragionamento è indubbiamente alta. Anche le sofferenze che la contemporaneità genera, comunque le si spieghi, sono un dato di fatto. Ma l’indagine di Fisher è troppo condizionata dal bisogno ideologico di mettere quelle sofferenze in carico al capitalismo postfordista, senza mai considerare attentamente la veridicità di una simile attribuzione, e senza riuscire a dimostrare l’esistenza di nessi causali effettivi (per non dire esclusivi) tra sofferenza e struttura dei rapporti di produzione e scambio.

La nostra convinzione (certo, a nostra volta la si dovrebbe dimostrare) è che il lavoro da svolgere per uscire da questo punto morto sia duplice.

In primo luogo, se è pacifico il fatto che la rivoluzione digitale non può essere fermata, e che ogni statica rievocazione del mondo analogico assume un valore essenzialmente reattivo (quando non reazionario), nondimeno un ventaglio di proposte politiche e culturali non piattamente subalterne al dettato dell’epoca sarebbe auspicabile e andrebbe velocemente messo a fuoco, sia alzando il tiro della riflessione filosofica, sia operando concretamente nella società.

In secondo luogo, è evidente che tra certe forme di disagio epocale e capitalismo economico sussista una correlazione, ma non necessariamente quel rapporto di causalità lineare che Fisher sembra dare per scontato. Basta fare mente locale per accorgersi che anche i sistemi capitalistici pre-contemporanei, i capitalismi di Stato come quello cinese e tutte le forme realizzate di Socialismo hanno prodotto e producono nella psiche degli individui trasformazioni analoghe a quelle prese in esame da Fisher (il quale non a caso si è servito di esempi attinti indifferentemente dal capitalismo post-fordista, dal comunismo sovietico e da quello cinese). L’organizzazione dei rapporti economici, pur esercitando un’influenza diretta, sembra situarsi a valle di taluni meccanismi più radicali che andrebbero indagati. Dovessimo provarci noi, cominceremmo la ricerca occupandoci di quel complesso di trasformazioni tra loro interconnesse che va sotto il nome di rivoluzione tecnologica, e in particolare del suo ultimo segmento, la trasformazione digitale, con il suo portato di nuovi significati, linguaggi e schemi cognitivi. Tra questi ultimi, ce n’è uno che ci sembra foriero di profonde conseguenze (anche sul piano psichico), ed è l’evidente spostamento di enfasi dalla realtà come ambito di senso e oggetto di conoscenza, alla sua riproduzione ed emulazione [34].

Secondo noi si potrebbe cominciare da qui. L’abolizione del futuro inteso come orizzonte progettuale, con il suo portato di sofferenza e di rassegnazione, potrebbe non essere (solo) una conseguenza dei fattori economici, ma avere un’origine più remota nella riduzione (ontologica e conoscitiva) della Verità a Realtà [35], una riduzione che priva l’essere umano dell’illuminazione fondamentale del Senso. Ad un certo punto, Fisher spiega che l’uomo contemporaneo si trova imprigionato in “un sistema in cui i segnali (virali, digitali) circolano su reti autosufficienti che aggirano il Simbolico e quindi non hanno bisogno di alcun Grande Altro a fare da garante” [36]. “La fine del Simbolico porta non a un confronto diretto con il reale, ma a una specie di emorragia del reale stesso” [37]. Si tratta, lo ripetiamo, dell’intuizione più significativa di Realismo capitalista: il prezzo che paghiamo per l’avvenuta distruzione dell’ordine simbolico.

Più tardi, nel bellissimo The Weird and the Eerie, Fisher proverà a costruire un discorso sull’eclissi del simbolico che non si risolva in una mera critica al sistema economico. Ma vi riuscirà solo parzialmente.

L’epoca digitale porta a compimento trasformazioni che non si limitano a fare il gioco di qualche variabile nascosta, ma determinano cambiamenti più ampi, che sono di odine ontologico.

Spingere la riflessione dallo studio delle concause alla conoscenza dell’origine dei fenomeni cui assistiamo potrà sembrare un compito fuori moda (l’ontologia è certamente fuori moda, nell’attuale paradigma), ma è forse l’unico antidoto alla rassegnazione. Diversamente, dovremo davvero accettare che la depressione assurga ad icona e a figura periodizzante della contemporaneità: anzi, che essa diventi l’immodificabile apriori esistenziale dell’homo digitalis.


[1] Si prenda il riferimento in senso generale. Per avere un quadro dettagliato del dibattito sorto nel Regno Unito alla fine degli anni novanta intorno ai temi della modernità, rimandiamo consultare le due ottime prefazioni a Realismo capitalista (Produzioni Nero, Roma 2018) e a The weird and the eerie (Minimum Fax, Roma 2018).
[2] Fisher esprime una critica inequivoca alle posizioni culturali elaborate dal pensiero antagonista sul fare del nuovo Millennio, tutte accomunate - pur nella loro diversità - dalla sostanziale subalternità all’ordine economico vigente (si veda: Realismo Capitalista [d’ora in poi: RC], pp. 43-49.
[3] RC, p.26.
[4] Come si accennava, l’assenza di opzioni percorribili unisce a detta di Fisher la sinistra progressista liberale e i nuovi movimenti anticapitalisti. Nei confronti della prima si sottoscrive il giudizio di Zizek: “Il comunismo liberale, anziché essere una specie di correttivo progressista dell’ideologia capitalista ufficiale, è esso stesso l’ideologia dominante del capitalismo contemporaneo” (RC, p.69). Dei secondi si dice che “il cosiddetto movimento anticapitalista [del terzo millennio] è sembrato concedere troppo proprio al realismo capitalista: vista la sua incapacità di ipotizzare un modello politico-economico alternativo al capitalismo, il sospetto [è] che il suo obiettivo fosse non rimpiazzare il capitalismo stesso, quanto mitigarne gli eccessi peggiori” (RC, p.46).
[5] RC, p.50.
[6] RC, p.138.
[7] RC, p.140.
[8] RC, p.142.
[9] RC, p.145.
[10] RC, p.28.
[11] RC, p.32.
[12] Il capitolo sesto, tra i più convincenti, è quasi interamente dedicato al tema della ri-burocratizzazione del capitalismo, ribattezzato - con una forzatura terminologica di indubbio effetto - “stalinismo di mercato”.
[13] RC, p.126.
[14] RC, p.105.
[15] RC, p.100.
[16] RC, p.97.
[17] Ibidem.
[18] RC, p.135 (corsivo dell’autore).
[19] RC, p. 147 (corsivo mio).
[20] RC, p.65.
[21] RC, p.85.
[22] RC, p.48.
[23] RC, p. 65, ma la frase è di Deleuze e Guattari.
[24] RC, p.70.
[25] RC, p.84.
[26] RC, pp.94, 96, 98, 104 e 108. Il più lampante è il primo: “La vera essenza dello stalinismo è stata inibita dal rapporto con un progetto politico come il socialismo, mentre è solo in una cultura tardo capitalista che [scilicet .: lo stalinismo] riesce ad emergere appieno”.
[27] RC, p.149.
[28] RC, p.150.
[29] Ibidem.
[30] Ibidem.
[31] Ibidem.
[32] Ibidem.
[33] Ibidem.
[34] Ho più di un dubbio sulla correttezza del termine ‘emulazione’. In che rapporto stanno segno digitale e Realtà? Altrove ho parlato di ‘rappresentazione’, ma sebbene questo concetto non sia da rifiutare, il campo dei suoi significati appare in effetti limitato e in qualche modo fuorviante. La rappresentazione digitale non è mimetica in senso stretto, ma svolge una funzione per certi versi de-realizzante. In Nello sciame (Nottetempo, Milano 2015), Byung-Chul Han menziona linguaggi digitali che sembrano svolgere tanto una funzione imitativa del Reale, quanto oltrepassare quest’ultima verso un piano che egli chiama iper-realtà: “rispetto ai media analogici, il medium digitale interpone una distanza maggiore dal Reale. Tra Digitale e Reale, infatti, vi è minore analogia” (Op. cit., p.43. Corsivi dell’autore). “Il medium digitale è de-fatticizzante” (Op. cit., p.45. Corsivo dell’autore). “La fotografia digitale [.] segna la fine del Reale. Così [.] si avvicina nuovamente alla pittura [.]. Il Reale vi è ancora presente soltanto come citazione e frammento [.]. L’iper-realtà non rappresenta nulla, essa presenta ” (op. cit. pp.81-82. Corsivo dell’autore). Delimitare il campo semantico del concetto di emulazione è un compito estremamente delicato, tra i più urgenti ai quali un’auspicata ontologia digitale dovrebbe attendere.
[35] Terminologicamente, in ossequio alla nomenclatura lacaniana, sarebbe più rigoroso parlare di “riduzione del Reale a Realtà”. Ma oltre la ristretta cerchia di coloro che conoscono e utilizzano tale gergo, una siffatta formula risulterebbe alquanto oscura.
[36] RC, p.97.




Bansky, London, 2010
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