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L’egualitarismo radicale detto di Babeuf
di Marco Baldino

28 marzo 2013



Espressione di un egualitarismo radicale, Babeuf parla di una «religione della pura eguaglianza». L’uguaglianza è concepita come “diritto primitivo”. Tuttavia la felicità comune (o sociale) deve poi essere assicurata dalle Istituzioni — concezione giuridica che confligge con quella naturalistica del diritto “primitivo”. Che significa infatti “primitivo”? “promulgato” dalla natura, si tratta cioè di qualcosa di pre-giuridico.

La felicità del popolo si ottiene — secondo Babeuf — limitando per legge il diritto di proprietà. La proprietà è qui il grande nemico. Suoi riferimenti teorici:
1) Licurgo: nessuno può conseguire il superfluo;
2) Rousseau: la perfezione dello stato sociale è che ciascuno abbia abbastanza e nessuno troppo;
3) Robespierre: “Dichiarazione dei Diritti”;
4) Saint-Just: «Gli infelici sono le energie della terra, hanno il diritto di parlare da padroni ai governi che li trascurano».
Per Babeuf tutto ciò che un membro del corpo sociale possiede al di sopra della sufficienza è il risultato di un furto ai danni degli altri coassociati; bisogna che le Istituzioni sociali tolgano ad ogni individuo la speranza stessa di divenire più ricco, più potente, più ragguardevole, «per i suoi lumi», cioè in virtù delle sue doti, della sua intelligenza, della sua stessa applicazione.

Pars construens
L’egualitarismo di Babeuf si presenta come il sogno orrifico di un sistema livellatore attraverso la legge. Dinanzi alla maestà del principio supremo dell’eguaglianza ogni altra cosa deve essere tenuta nel più totale dispregio. Babeuf cerca di immaginare una forma sociale in cui sia sbarrata a tutti ogni possibile via d’ottenere oltre lo stretto necessario (la famosa “quota-parte”). Qui Babeuf rischia però di confondersi con il suo contrario: è il mondo borghese — come osserva Bataille (Il limite dell’utile, Adelphi 2000, p. 61) — ad essere intimamente mosso da questo orrore per il superfluo, per lo spreco, per il sacrificio, per tutto ciò che eccede l’utile e lo è proprio contro l’Ancien régime, contro la società della gloria e della tragedia. In questo senso la dottrina di Babeuf è identica a quella dei puritani americani del XVII secolo: ciò che sta nelle premesse del capitalismo sta anche nelle premesse del socialismo, sia utopistico che scientifico.

Pars destruens
Il discorso di Babeuf si presenta altresì come un’aperta presa di partito per la vittima assoluta: «tutti i mali sono al culmine — scrive Babeuf — ad essi non si può porre rimedio che con un sovvertimento totale!». Egli ammette pertanto, contro coloro che lo accusano di fomentare l’odio, la necessità di una guerra civile, la guerra delle vittime, degli sventurati, di coloro che mancano di tutto, contro i loro assassini; «la discordia — egli sostiene — è meglio d’una orribile concordia in cui si strozza la fame». Babeuf manifesta qui ciò che Nietzsche ha chiamato “esistenza catilinaria” (Crepuscolo degli idoli): un cupo rantolo si leva dal profondo della provincia francese e si incarna in questo auspicio: tutto si confonda, tutto si imbrogli, tutto si mescoli e si scontri, tutto rientri nel caos… solo così potrà sorgere un mondo nuovo, rigenerato. Tutto ciò determina una “grande paura”, ma, a ben vedere, esso esprimeva solo un gemito di dolore: «cambiamo, dopo mille anni, queste leggi incivili» — questa la stupenda perorazione con cui si chiude il Manifesto dei plebei.

La frase di Saint-Just a cui Babeuf si lega va pertanto compresa in questo contesto catilinario, laddove il “Manifesto” prende partito per i reietti. In questo senso l’egualitarismo radicale di Babeuf non è altro che un’estrema fantasia di vendetta, un’estrema ansia di riscatto: ridurre tutti alla pura eguaglianza.





René Allio, Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma sœur et mon frère..., 1976




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