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Verso una post philosophy for children*
di Pierpaolo Casarin

14 aprile 2017


Ci sembra interessante, prima ancora di parlare della pratica, prima ancora di entrare nel merito di alcuni aspetti peculiari della philosophy for children, gettare uno sguardo intorno all’entità del fenomeno. Comprendere i confini, o meglio, interrogare i confini, osservare la reale diffusione di una proposta che, per divenire patrimonio collettivo dell’auspicata comunità di ricerca dei facilitatori e delle facilitatrici, non può trovare luogo e sviluppo esclusivamente in alcuni percorsi di formazione (talora ripetitivi e stereotipati) promossi da realtà istituzionali o associative. C’è bisogno di altro ancora; si sente, in particolare, la necessità di conoscere a fondo la passione di chi, nei diversi e talvolta remoti contesti, opera e lavora.

Si tratta di compiere un “viaggio” nei territori che hanno “raccolto l’invito”, individuare le realtà scolastiche che hanno sostenuto e promosso un approccio di questa natura. Va compiuta una sorta di “mappatura” di un’esperienza che trova davvero una molteplicità di espressioni e che, trovando realizzazione, sembra mutare in modo significativo, lo stesso perimetro di competenza, la sua stessa supposta identità. Sappiamo però bene che la mappa non è mai del tutto il territorio e in ogni mappa c’è anche la nostra angolatura, così come in ogni fotografia c’è la realtà che ci piace pensare di cogliere. La mappa ha pretese oggettive, ma forse cerca, senza riuscirci mai del tutto, di oggettivare il soggettivo, cerca di ridurre la molteplicità ad uno sguardo unitario, condiviso e condivisibile, ma qualcosa si muove sempre, sfugge ancora. Anche qui sta il fascino della questione. Tuttavia, consapevoli di questi limiti, sentiamo il bisogno di definire il fenomeno, forse anche semplicemente per riparare a qualche torto. Il torto che ci sembra vivano le decine di soggetti che pensano, riflettono, sperimentano e di cui non si ha spesso traccia. Una voce che ci pare ricca di sfumature e di passione e soprattutto in grado di offrire ulteriori, spesso inediti, spunti di riflessione.

La diffusione delle esperienze di philosophy for children non sembra essere del tutto conosciuta, pare sempre che si tratti di qualcosa che dovrà essere, che potrà essere non appena altri fattori lo permetteranno. Non è così. In diversi luoghi, e da tempo, si stanno realizzando importanti progetti; proprio per questo intendiamo darne traccia, in modo esauriente, attraverso la pubblicazione di un Atlante della Rete di Filosofia a scuola che mira proprio a far conoscere e valorizzare tale patrimonio esperienziale. Una rete che coinvolgerà direttamente tutte le voci che in questi ultimi due anni ha dato vita ad un vero e proprio movimento nominato Insieme di pratiche filosoficamente autonome. Un gruppo informale che ha preferito allontanarsi dalle realtà associative italiane esistenti proprio per inaugurare un nuovo percorso di ricerca, per affrontare la questione con differenti stili e propositi. Un agire autonomo, ma non isolato, ben disponibile ad allacciare rapporti di collaborazione con istituzioni (ben avviati per altro con diversi atenei, in particolare Genova) o gruppi che condividano la medesima sensibilità e lo stesso desiderio di far crescere, anche dal basso, il piacere e l’impegno nei confronti delle pratiche di filosofia.


Passo indietro

Non fu di poco conto, al fine di meglio mettere a fuoco la questione, la lettura di alcuni contributi presenti nel numero 23 di Tellus, [1] rivista di geofilosofia. Quasi un invito, ripensandoci a posteriori. In particolare gli scritti di Marco Baldino, ma anche quelli di Renato Troncon, Maurizio Zanardi e Tiziana Villani. I contributi ruotavano intorno all’idea del possibile insorgere di una nuova prospettiva filosofica. Una filosofia autonoma, capace di fare appello ad uno stile freelance, che si mostrasse in grado di inventare attività parallele di riflessione filosofica e pensiero libero. Questo aspetto, almeno per alcuni di noi, significò immaginare possibile la progettazione di una pluralità di progetti e ricerche che trovarono e trovano ancora “cittadinanza” proprio a partire da quei luoghi in cui la filosofia e la sua pratica non sembravano abituali. Ricordo che trovai il volume in questione quasi per caso nella vecchia Feltrinelli di Corso Buenos Aires a Milano, nel 2002 mi pare. In quel tempo si parlava per la prima volta, con una certa insistenza, di consulenza filosofica. Veniva intesa come una nascente opportunità; si diceva che presto gli studi di consulenza filosofica avrebbero preso piede, affiancato e persino superato altre professioni ben più strutturate; in diversi auspicavano la diffusione della filosofia come modalità formativa da portare anche nei contesti aziendali. Molte, in quel periodo, le pubblicazioni in questo senso. Eppure quel volume di Tellus aveva altri linguaggi, riuscì a sollecitare il mio immaginario in modo diverso. La metafora geografica, l’idea che vi fosse spazio per una «filosofia nomade» che «non rendesse conto di sé né ai suoi predecessori né alla comunità scientifica», [2] l’idea di un relazione costitutiva fra metropoli e filosofia, la riflessione promossa proprio da Baldino intorno al rapporto fra codici, norme e flusso di pensiero mi permise di stabilire un incontro con le pratiche filosofiche più in termini di confluenze, che di consulenze. Il codice, l’ordinamento unificatore dei diversi atteggiamenti mentali, la priorità del metodo perdeva l’assoluta precedenza: irrompeva il valore del flusso dei pensieri, il divenire, l’orizzonte desiderante. Quel che temevo delle pratiche filosofiche, ovvero la loro possibile deriva in un sistema sostanzialmente commerciale e un po’ opportunistico, il loro cristallizzarsi in dispositivi pedagogici rassicuranti (come per altro successivamente avrebbero, con una certa dose di irruenza, messo ben in luce sia Alessandro Dal Lago sia Walter Kohan) trovava rovesciamento in questa prospettiva che lasciava spazio ad un’idea di filosofia come esercizio critico, incessante tentativo di disattesa di logiche di potere, comprese quelle un po’ più mascherate del potere del sapere. Si trattava di mettere in gioco se stessi, saper giocare ovvero abitare il paradosso del gioco, praticare distanziamenti ironici, per utilizzare termini e stili di pensiero cari a Pier Aldo Rovatti, teoricamente impegnato in un’opera di osservazione critica delle pratiche filosofiche, philosophy for children compresa.

In questo modo si diede avvio ad un dialogo con tali pratiche che a loro volta generarono in noi stessi un dialogo con il “fuori” della filosofia (Filosofia fuori le mura direbbe Giuseppe Ferraro) [3] determinandone un allentamento, un vuoto di sapere come scrive Rosella Prezzo in un interessantissimo fascicolo di aut aut di qualche tempo fa. [4] È in questo vuoto di sapere che si sono avvicendate occasioni per un pensare altrimenti e per sostenere l’idea che vi fosse la possibilità di ritenere il pensare filosofico non necessariamente assimilabile entro un sistema di sapere delimitato, entro un codice di linguaggio riconosciuto, quasi “giuridicamente”, come filosofico. Si tratta di aprire, piuttosto, lo spazio ad un proposito, teorico e pratico al tempo stesso, in grado di incontrare e intrecciare la molteplicità delle vicissitudini, in poche parole il mondo.


Ritorniamo in viaggio

Riprendiamo il proposito filosofico di un’osservazione del fenomeno della philosophy for children e della sua diffusione. Osservazione parziale, ce ne rendiamo conto. Tuttavia in questi ultimi tredici anni ho avuto la possibilità di realizzare decine di progetti di philosohy for children (a partire dall’area di Milano, ma anche in Emilia, Veneto, Liguria e Piemonte); in queste esperienze ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere molte scuole, tante insegnanti che, a loro volta, portavano e portano avanti progetti in questa direzione. Si tratta di scuole e di contesti completamente diversi fra loro; si passa da strutture scolastiche del centro di Milano per arrivare a piccoli paesi dell’Appennino. Da Viale Romagna, o persino dalla centralissima Via della Spiga a Milano fino alle realtà della bassa Ferrarese, dalle scuole genovesi del quartiere Marassi alle molteplici esperienze della provincia di Piacenza. Molte le differenze, ma anche significative le ripetizioni. Le differenze sono soprattutto legate alla molteplicità dei contesti, le ripetizioni, talora entusiasmanti, connesse soprattutto alla passione e alla capacità di coinvolgimento che le insegnanti hanno saputo mettere in gioco.

Il viaggio non è solo geografico, il movimento non è solo fisico, ma anche concettuale. In gioco, in tale osservazione anche la filosofia, si, la filosofia della philosophy for children. I dislocamenti delle esperienze di philosophy for children non sono solo quelli che la fanno improvvisamente apparire nelle scuole infanzia di Suzzara (Mantova) o Cortemaggiore (Piacenza), con quasi tutti i bambini e le bambine provenienti da Pakistan e India e poi ancora in una primaria di primo grado di Borgio Verezzi nel Ponente Ligure, ma anche la sua disponibilità a mutare stili e forse persino abitudini e procedure. Si, la mappatura osserva le trasformazioni, le interroga, persino le sollecita. La pratica di mescola alla sensibilità dell’insegnante e la proposta di Lipman diviene gioiosamente una pratica disposta a mescolarsi con altro da sé. Si viaggia verso la post philosophy for children. Qualcosa che non divide, non separa, ma auspica la costruzione di ponti verso altre pratiche di filosofia, non insiste nell’erigere muri, steccati solo per difendere, fortificare, in modo talvolta goffo, presunti primati o aree riservate dove esercitare antiche e logore posture. Una philosophy for children o meglio una post philosophy for children che si rivisita, si trasforma con il trasformare della società. In fondo fu lo stesso Lipman ad illuminare la strada da percorrere con parole molto promettenti:
«Indiscutibilmente possediamo la capacità di realizzare questi indispensabili cambiamenti. Non è chiaro, però, se ne abbiamo la volontà. Dobbiamo, invece riesaminare con attenzione ciò che stiamo facendo. Riflettere sulla pratica in uso rappresenta la base per arrivare a concepire pratiche migliori, che a loro volta, inviteranno a un’ulteriore riflessione». [5]
Un percorso che, probabilmente, ridefinirà gli stessi confini della pratica e forse li confonderà persino. Un movimento che potrebbe, persino dicevamo, permetterci di intravedere la nascita di nuove esperienze filosofiche.

Questa prospettiva ha destato un desiderio di ricerca ulteriore che non si fermasse alla ripetizione di un metodo standardizzato. Se si osserva con attenzione il fenomeno si scoprirà che non solo in Italia, ma soprattutto all’estero, si sono sviluppate una pluralità di esperienze. In particolare in un dialogo del 2006 fra Chiara Chiapperini e Walter Kohan sono state delineate alcune traiettorie a sostegno di un’idea che invita ad una trasformazione della philosophy for children. In questa libro-intervista Walter Kohan mette in evidenza alcuni possibili nodi critici della prospettiva Lipmaniana. In particolare problematizza la «concezione tecnica del pensiero di Lipman» credendo che il punto fondamentale del portare la philosophy for children non sia tanto un «potenziamento di abilità» quanto piuttosto la possibilità di:
«aprire il pensiero a ciò che non è ancora stato pensato, a ciò che pare impensabile. L’esperienza è una specie di viaggio del pensiero, senza percorsi già tracciati […]. La filosofia non è facile, non è comoda, non dà risultati immediati». [6]
Questa apertura allo spazio filosofico fuori da una logica applicativa e ripetitiva è un aspetto fondamentale. In questa luce siamo nella condizione proficua di riflettere intorno a ciò che è stato trasmesso e, contemporaneamente, di accogliere le molteplici traiettorie che si prospettano. Non si tratta di lanciarsi acriticamente verso un nuovo modo, indefinito o spontaneistico, di intendere la pratica filosofica, ma nemmeno di accettare un unico rapporto, talvolta soffocante, con una tradizione intesa in termini monolitici e immodificabili.

L’idea che emerge da queste considerazioni è che la philosophy for children possa intendersi non tanto come un punto d’arrivo, quanto piuttosto come un inizio, una propedeutica, qualcosa da cui si prende avvio, che si sperimenta, di cui si fa esperienza, che offre situazioni che ci introducono ad altro ancora.

Un movimento che dall’“originale” non va nella direzione della ripetizione, ma, piuttosto, lasci spazio alla differenza, alla trasformazione, alla messa in gioco di tutti i soggetti coinvolti nell’esperienza. Non ci stiamo riferendo solo ai partecipanti della comunità di ricerca, ma anche e soprattutto ai facilitatori e alle facilitatrici della pratica che, auspichiamo, possano divenire sempre più liberi interpreti, creativi traduttori, artigiani del filosofare. Nella philosophy for children, ma certamente non solo in questa pratica, avvertiamo un rischio: quello della prevalenza dell’istanza procedurale, dell’eccesso metodologico sulla libera espressione. Come se la ripetizione delle fasi previste si divorasse la possibilità di cogliere, al margine della metodologia, il piacere della creazione concettuale, lo spazio per un pensare ulteriore. L’obiettivo della philosophy for children non è certo quello di trasmettere in modo efficace i contenuti della tradizione filosofica, ma piuttosto di rimettere quest’ultima in gioco, stimolare attraverso la trasformazione della classe in comunità di ricerca, il piacere per la pratica filosofica come approccio dialettico, dialogico e argomentativo alle questioni di fondo. Con ciò non riteniamo certamente la philosophy for children responsabile di chissà quale irrigidimento. Se così fosse, ne avremmo preso le distanze e non saremmo qui a immaginarne sviluppi e fertili germogli; al contrario, il nostro intento è quello di tornare a incontrarla e a interrogarla con un ulteriore stile, forse una nuova sensibilità. Effettivamente ciò che si va cercando è proprio un ulteriore approccio, una nuova lettura della pratica. [7]

In questione la nostra capacità di trasformare. Il nostro desiderio di uscire dallo stereotipo e dalla cristallizzazione dalle retoriche della procedura. La sessione di philosophy for children va intesa come esperienza di pensiero, qualcosa di vivo, di diverso ogni volta. In gioco non solo le finalità, ma, come spesso sottolinea Silvia Bevilacqua con un gioco di parole, le “inizialità”. Non solo obiettivi, ma anche e soprattutto cura dei modi. Viene alla memoria una antica polemica, sempre attuale. Una vecchia disputa in seno alla Prima Internazionale fra anarchici e marxisti intorno ai mezzi e ai fini. Per il nostro viaggio osservativo e, ci auguriamo trasformativo, abbiamo il proposito filosofico di prestare sempre più cura ai mezzi, alle modalità di attuazione del nostro praticare e forse anche alle modalità di relazione che andremo a stabilire con tutti coloro che vorrano condividere con noi il viaggio.


* Il presente saggio è apparso sul numero 36 della Rivista telematica di ricerca e didattica filosofica della SFI, Comunicazione filosofica, maggio 2016, con il titolo “Appunti geo-filosofici verso la post philosophy for children”.

[1] Tellus. Rivista italiana di geofilosofia, n. 23, Labos, Sondrio 2001.
[2] M. Baldino, “Introduzione”, Ibidem, p. 3.
[3] G. Ferraro, Filosofia fuori le mura, Filema, Napoli 2010.
[4] Aut aut, n. 356, ottobre-dicembre 2012.
[5] M. Lipman, Educare al pensiero, Vita e Pensiero, Milano 2005.
[6] W.O. Kohan, Infanzia e filosofia, Morlacchi, Perugia 2001.
[7] Per un approfondimento di questo aspetti si veda: S. Bevilacqua S., P. Casarin, (Edd.), Philosophy for children in gioco, I bambini e le bambine (ci) pensano, Mimesis, Milano 2016.




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